Lo sguardo di Cinto, il diverso, per vedere un mondo che non c’è più.
Abstract
L’articolo prende in considerazione una narrazione laterale della disabilità attraverso le pagine de La luna e i falò (1950) di Cesare Pavese, assumendo lo sguardo di Cinto: personaggio invalido e custode, al contempo, del più alto grado di valore della fanciullezza. L’utilizzo del termine “disabile” nel corso del tempo ha acquisito una riconfigurazione del proprio significato (Schianchi, 2012): in questo caso, il “visibile” e “l’invisibile” della diversità costituiscono l’episteme di un racconto assimilabile a un’operazione di montaggio dei nodi dell’intreccio; la pìetas del protagonista Anguilla e l’impedimento fisico di Cinto sono come pianeti in rotta di collisione. Il racconto di Pavese, scrittore “diverso” per eccellenza nel Novecento che ai diversi, agli outsider, agli emarginati ha sempre guardato, fonda le proprie radici su due principali livelli narrativi: l’infanzia e la maturazione, che indicano rispettivamente l’avventura e la delusione – Leitmotiv vibratile e “palpabile” dell’intera poetica pavesiana. La disabilità è qui, dunque, “locus” narrativo nel quale il protagonista ritrova in Cinto i riflessi di una giovinezza sbiadita, e quello che sembrava essere un limite invalicabile trova riscatto nella forza di un racconto che contempla la virtù dell’autenticità. I personaggi di una storia diventano i vettori di un vulnus, ma è la loro narrazione a far mutare la visione che si ha di essi. Del resto, la vera letteratura può far cambiare la percezione che si ha del mondo e di chi lo abita. Cinto, infatti, che ha sempre sentito le “storie” raccontate da altri, con l’amicizia di Nuto e Anguilla riuscirà per una volta ad essere il protagonista della propria narrazione.
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