CON-TEXTOS KANTIANOS.
La maschera cartesiana: René Descartes nella Critica della
USP – FAPESP, Brasil
L’articolo si propone di analizzare la presenza di Descartes nella Critica della ragion pura, con particolare attenzione ai paralogismi della psicologia razionale e alla confutazione dell’idealismo. L’aspetto più rilevante dell’analisi kantiana non concerne l’interpretazione del pensiero cartesiano fornita dal filosofo tedesco, data la scarsa conoscenza che Kant possedeva dei testi di Descartes. Ad essere interessante, al contrario, soprattutto se considerata alla luce della sua successiva ricezione, è l’immagine di Descartes che emerge dalle pagine della Critica. A questo riguardo, è possibile affermare che Kant abbia contribuito al ritorno sulla scena del pensiero tedesco del Descartes metafisico, una maschera filosofica che svolgerà un ruolo centrale nella ricostruzione della storia della filosofia proposta dall’idealismo post-kantiano.
Descartes, cogito, ergo sum; Critica della ragion pura; Idealismo tedesco
The article aims to analyze the presence of Descartes in Kant’s Critique of Pure Reason, with particular attention to the Paralogisms of Rational Psychology and to the Refutation of Idealism.
Post-dottorando presso la Fapesp: Grant 2015/17758-9, São Paulo Research Foundation (Fapesp) – Usp (Universidade de São Paulo); alfredo.gatto@hotmail.it. Colgo l’occasione di ringraziare in maniera particolare il Prof. Leonel Ribeiro dos Santos e il Dott. Giulio Goria per le loro indicazioni bibliografiche e per i loro commenti alla prima versione del testo.
The most significant aspect of Kant’s analysis does not concern the interpretation of Cartesian thought provided by the German philosopher, given the lack of knowledge Kant had of Descartes’ works. The most important issue, on the contrary, especially if it is considered in the light of the following reception of Cartesian reflection, has to do with the image of Descartes that emerges from the pages of the Critique. In this respect, it is possible to affirm that Kant has contributed to the return to the scene of the metaphysical Descartes in German thought, a philosophical mask that will play a central role in the reconstruction of the history of the philosophy proposed by the post- Kantian idealism.
Descartes; cogito, ergo sum; Critique of Pure Reason; German Idealism
Descartes eroe della modernità
L’interpretazione di René Descartes che abbiamo ereditato e che si è imposta in gran parte della storiografia filosofica deve molto alla lettura offerta da Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia. Nelle pagine della lectio hegeliana, la filosofia moderna produce un’accelerazione nei confronti della tradizione medievale grazie al ruolo svolto dalla riflessione cartesiana1. È solo con Descartes, infatti, che il pensiero, assumendo come proprio punto di partenza la posizione dell’autocoscienza reale, si manifesta nella sua forma soggettiva e produce una dialettica fra «i due lati infiniti dell’idea» rappresentati dallo Spirito e dalla Natura. Si giunge così ad una filosofia propriamente autonoma, in cui il pensiero si pone come momento essenziale del vero. In virtù di tale mediazione, finalmente, «come il navigatore, dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar “terra!”» (Hegel 1964, p. 66). Descartes può allora essere considerato a giusto titolo «un eroe, che ricominciò da capo l’impresa» (Hegel 1964, p. 70).
Secondo Hegel, il merito principale del filosofo francese è aver posto le basi di un nuovo cominciamento che ha istituito il sapere come unità immeditata di pensiero ed essere. Nella sfera della soggettività cartesiana, l’Io che pensa pone immediatamente il suo stesso essere, eliminando sul piano formale lo scarto che il sapere realistico assumeva come punto di partenza della propria indagine2. A dispetto dell’importanza attribuita a Descartes, il giudizio hegeliano non risparmia comunque delle critiche, insistendo sull’unilateralità – e dunque sull’astrattezza – della posizione cartesiana. Ciò che manca, infatti, al contenuto del cogito, ergo sum è quel processo di intima mediazione che consenta di superare l’immediatezza della relazione pensare-essere. La certezza meramente soggettiva cui giunge Descartes, in altri termini, a causa della dimensione irriflessiva che la
1 Per un’analisi dell’interpretazione hegeliana, cfr. Lebrun 1998.
2 Cfr. Hegel 1964, p. 78: «L’io penso contiene immediatamente il mio essere: questo, dice Cartesio, è il fondamento assoluto d’ogni filosofia. La determinazione dell’essere è nel mio io: questo legame è esso medesimo il Primo. Il pensiero come essere e l’essere come pensiero, ecco la mia certezza, l’io; nel celebre cogito, ergo sum sono adunque inseparabilmente congiunti pensiero ed essere».
Le linee guida della lettura di Hegel diverranno un punto di riferimento imprescindibile per le successive interpretazioni, trasformandosi quasi in un leitmotiv storiografico4. A questo proposito, se si volesse ricostruire la storia dell’influenza dell’impostazione hegeliana si giungerebbe, attraverso vari stadi, perlomeno fino a Martin Heidegger5. In effetti, seppur con un giudizio di valore differente, anche Heidegger – in particolar modo (ma l’elenco sarebbe certamente più lungo) nel saggio L’epoca dell’immagine nel mondo6 e nei corsi su Friedrich Nietzsche degli anni 30’ 7 – ritorna sulle pagine cartesiane, considerando Descartes il vero e proprio fondatore della filosofia moderna. Con il filosofo francese, la totalità dell’ente è ricondotta all’attività del soggetto umano, considerato ora il fondamento e la condizione di possibilità di ogni certezza. La realtà si viene allora determinando come un oggetto disponibile alla rappresentazione, un’oggettività determinata che non esiste – o non può acquisire legittimità filosofica – se non in quanto concepita da un soggetto. Pertanto, precisa Heidegger, «“Cogito sum” non dice né soltanto che penso, né soltanto che sono, né che dal fatto del mio pensare consegue la mia esistenza. La tesi esprime una connessione tra cogito e sum. Dice che io sono in quanto colui che rappresenta, che non soltanto il mio essere è essenzialmente determinato da questo rappresentare, ma che il mio rappresentare, in quanto re-praesentatio determinante, decide sulla presenza (Präsenz) di ogni rappresentato» (Heidegger 2005, p. 667).
L’elenco degli autori che condividono il nucleo della lettura hegeliana potrebbe essere certamente più lungo. Ad ogni modo, ciò che ci premeva sottolineare era soltanto una tendenza ermeneutica che, al netto delle rispettive differenze, ha generato l’immagine di Descartes che abbiamo, nella sostanza, ereditato. È opportuno ora domandarsi se questo Descartes, pensatore della modernità in quanto filosofo della soggettività, propugnatore di un idealismo ancora acerbo e tuttavia già delineato in alcune delle sue componenti essenziali, sia una “creatura” della storia della filosofia di Hegel, o non rappresenti piuttosto la riformulazione di una tendenza interpretativa precedente. A nostro parere, è possibile ritrovare nell’opera di Immanuel Kant, e più precisamente in alcune pagine della Critica della ragion pura dedicate al filosofo francese, il possibile punto di partenza della lettura hegeliana.
3 Cfr. Hegel 1964, p. 91: «Le determinazioni fondamentali della metafisica cartesiana sono dunque in primo luogo queste: dalla certezza di se stesso pervenire alla verità, nel concetto del pensiero conoscere l’essere. Ma poiché in quel pensare “io penso” io sono un singolo, sta davanti agli occhi il pensiero come un che di soggettivo; perciò non si fa vedere già l’essere nel concetto del pensiero stesso, ma si avanza solo in generale verso la separazione».
4 Per una descrizione della storia della ricezione di Descartes, cfr. Ribeiro dos Santos 2013, pp. 171-189.
5 Sull’interpretazione del pensiero cartesiano fornita da Heidegger, cfr. De Biase 2005; cfr. inoltre Courtine 2009.
6 Cfr. Heidegger 1938.
7 Cfr. Heidegger 1961 (ed. it. 2005).
Per ricostruire la relazione che lega Kant a Descartes il primo passo è stabilire quali fossero le opere del filosofo francese che Kant conosceva o aveva avuto l’occasione di visionare. A tal riguardo, il lavoro di catalogazione sulla biblioteca kantiana di Arthur Warda rappresenta una fonte imprescindibile per muovere i primi passi nell’universo bibliografico del filosofo9. Ritroviamo così le edizioni latine di tre volumi di Descartes, vale a dire la Geometria10, le Meditazioni11 e i Principi della filosofia12. Naturalmente, come ha rilevato Jean Ferrari, «si cette liste ne nous dit pas, et de loin, tout ce que Kant a lu, elle nous montre en tout cas ce qu’il n’a pas pu ignorer» (Ferrari 1971, p. 480). Se osserviamo i riferimenti a Descartes presenti nelle opere del filosofo di Königsberg – sebbene, ed è il caso di sottolinearlo, nell’intero corpus kantiano non vi sia, a nostra conoscenza, alcuna citazione diretta e circostanziata di un passaggio tratto dalle opere cartesiane –, è probabile che Kant si sia procurato i testi di Descartes all’inizio della sua carriera accademica. A suggerirci questa considerazione sono i Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (1747), un lavoro giovanile in cui Kant cercava di trovare un punto di sintesi fra gli opposti campi tracciati dai cartesiani e dai leibniziani. In questo testo, il Descartes più propriamente “fisico”, lungi dall’essere considerato un anticaglia accantonata dall’emergere del paradigma newtoniano 13 , è a pieno titolo un termine legittimo di confronto, come dimostrano alcuni dei giudizi kantiani presenti nell’opera14.
Tralasciando i riferimenti alla fisica e alla fisiologia cartesiana15, l’aspetto che più ci
interessa concerne il Descartes “metafisico”, con particolare riguardo alla discussione delle tematiche cartesiane svolta nella prima Critica. Prima di intraprendere la nostra analisi, è doveroso riconoscere – e vedremo quanto questo rilievo sarà importante – che gli autori citati e criticati da Kant, come ci ricorda opportunamente Jean-Marie Beyssade, «ne sont pas pris d’abord dans la vérité effective et historique de leur démarche, mais comme index pour des moments spéculatifs déterminés en dehors d’eux» (Beyssade 1996, p. 49). Il
8 Con il titolo di questo paragrafo facciamo espressamente riferimento al seguente volume: Fichant –Marion 2006. Lo stesso titolo è stato ripreso in un articolo più recente da Codato 2009.
9 Cfr. Warda 1922.
10 Des Cartes Renatus, Geometria anno 1637 Gallice edita; nunc autem cum notis Florimondi de Beaune,...in linguam Latinam versa et commentariis illustrata, opera atque studio Francisci a Schooten…Lugduni Batavorum. 1649. 4ᵒ (Warda 1922, p. 38).
11 Des-Cartes Renatus, meditationes de prima philosophia, in quibus Dei existentia et animae humanae a corpore distinctio demonstratur…Tertia editio prioribus auctior et emendatior. Amstelodami. 1650. 4ᵒ (Warda 1922, p. 47).
12 Des-Cartes Renatus, principia philosophiae. Amstelodami. 1650. 4ᵒ (Warda 1922, p. 47).
13 Come ha rilevato Jean Ferrari riferendosi alla presenza della scienza cartesiana nelle opere di Kant, «que cent ans après la mort de Descartes, son œuvre puisse encore être prise en considération non pas d’un point de vue historique, mais comme objet d’une discussion scientifique, qu’un jeune homme de vingt-trois ans formé par des maîtres leibniziens puisse la défendre et penser la vérifier sur un point qui nous apparaît aujourd’hui comme une erreur manifeste, voilà qui montre que la science cartésienne n’a pas été balayée d’un coup, comme on l’imagine parfois à tort, à la parution, en 1686, des Principia mathematica de Newton», Ferrari 1979, p. 30.
14 Cfr., fra gli altri, i seguenti passaggi: AK 01 041; AK 01 065.
15 Per un’ampia discussione dei riferimenti a Descartes presenti nell’opera kantiana, si veda il già citato Ferrari 1979, pp. 21-78.
giudizio di Beyssade si applica alla perfezione al caso che stiamo discutendo. Fra le occorrenze della Critica della ragion pura in cui compaiono dei rimandi ad alcuni aspetti della riflessione di Descartes, ci concentreremo su due luoghi particolari, ossia sulla presenza del cogito, ergo sum nei paralogismi della ragion pura e sulla Confutazione dell’idealismo aggiunta alla seconda edizione dell’opera (1787), tralasciando le considerazioni sulla prova ontologica dell’esistenza di Dio.
La prima edizione della Critica (1781) corrisponde al primo esplicito riferimento di Kant al cogito cartesiano16. Il filosofo tedesco si sta concentrando sui paralogismi della ragione connessi alla psicologia razionale. Prima di chiamare criticamente in causa Descartes, Kant si sofferma sulle pre-condizioni dell’indagine. Il giudizio “Io penso” deve essere inteso come un concetto trascendentale privo di un contenuto particolare, dovendo soltanto ricondurre ogni pensiero alla coscienza. L’Io in questione non è allora propriamente un concetto, ma la coscienza che accompagna tutti i concetti come loro condizione di possibilità 17 . Kant delinea in queste prime battute un quadro affatto differente dai presupposti che innervavano l’ego cogito cartesiano. Come ha messo in luce Yvon Belaval, è possibile già ora rilevare come l’“Io penso” constatativo di Descartes venga trasformato nell’“Ich denke” costitutivo kantiano, nell’Io trascendentale inteso quale requisito formale della conoscenza umana18. Secondo Kant, poiché dobbiamo di necessità attribuire a tutte le cose la totalità delle condizioni con cui possiamo pensarle, di un essere pensante non sarà possibile ottenere alcuna rappresentazione attraverso un’esperienza esterna; per farlo, dovremo servirci del medium offerto dall’autocoscienza. Tale considerazione, però, non va mai separata dalla piena consapevolezza della natura problematica di una simile relazione. Pertanto, la proposizione “Io penso” «viene presa soltanto problematicamente: non in quanto essa contenga la percezione di un’esistenza (il cartesiano cogito, ergo sum), bensì soltanto nella sua semplice possibilità» (Kant 2004, p. 595, A 347, B 405; AK 04 219), così da certificare quali proprietà possano derivare al soggetto da un giudizio così semplice.
A questo punto, nella prima edizione della Critica Kant procede all’analisi dei quattro paralogismi – sostanzialità, semplicità, personalità, idealità – che derivano da un uso scorretto della proposizione “Io penso”. Il primo concerne la sostanzialità dell’Io. Il ragionamento che produce il paralogismo è il seguente: la sostanza è ciò la cui rappresentazione è il soggetto assoluto dei nostri giudizi ed è ciò che non può essere utilizzato come determinazione di qualcos’altro; Io, in quanto essere che pensa, sono il soggetto assoluto di ogni mio possibile giudizio e tale rappresentazione di me stesso non può servire da predicato a nessun altra cosa; dunque, io sono, in qualità di essere pensante,
16 Per un’ampia analisi di questo aspetto, cfr. Longuenesse 2008.
17 «Tramite questo io, o egli, o esso (la cosa) che pensa, non viene rappresentato nient’altro che un soggetto trascendentale dei pensieri = x, il quale viene conosciuto solo tramite i pensieri che sono i suoi predicati e di cui separatamente non possiamo avere il benché minimo concetto», Kant 2004, p. 593, A 346, B 404; AK 04 218.
18 «Avec Kant, le Je pense constatatif de Descartes s’est transmué en Ich denke constitutif de notre monde phénoménal; il ne restait plus qu’à en faire – au besoin sous le nom de Concept – le constitutif du monde en- soi et pour nous», Belaval 1976, p. 376.
sostanza. Come sottolinea Kant, il soggetto delle due premesse è assunto in due modi differenti, ed è questa erronea distinzione che ci porta a scambiare l’esposizione logica del pensiero con la determinazione metafisica dell’oggetto. Nella premessa minore, infatti, ci si riferisce ad un Io che considera se stesso in maniera indipendente dall’intuizione, l’unico modo con cui il soggetto può esser dato come oggetto al pensiero. Il soggetto logico della minore, dunque, essendo sganciato dal piano sensibile dell’intuizione, non può generare alcun oggetto e non può, pertanto, essere considerato sostanza. Insomma, poiché il soggetto logico non può essere il soggetto reale offerto dall’intuizione sensibile, nessun salto fra i due piani può essere considerato legittimo.
Sebbene al soggetto kantiano continui a spettare un ruolo determinante nell’unificazione dell’esperienza, ciò che viene intenzionalmente perduto è la sostanzialità che gli era in precedenza attribuita. La desostanzializzazione dell’Io implica allora, come ha rilevato Marilena Chaui, «uma mutação radical da noção de subjectum, que deixa de ser ousia e res para se transformar em ato de uma operação cognitiva» (Chaui 2011, p. 341). Si assiste così ad un processo di spoliazione di alcune delle sue proprietà che non comporta, perlomeno in Kant, un suo essenziale impoverimento. È interessante quindi notare l’inversione di piani che sarà prodotta dall’impostazione hegeliana: se l’idealismo trascendentale kantiano intendeva stabilire una cesura fra l’ego cogito e il suo essere una sostanza pensante, Hegel non solo recupera, rafforzandola, l’identità fra i due termini dell’equazione, ma formulerà la sua critica a Spinoza proprio attribuendogli il mancato riconoscimento della necessaria soggettività della sostanza19.
Ad ogni modo, Kant ritorna sul cogito, ergo sum di Descartes nel secondo paralogismo dedicato alla supposta semplicità dell’anima. Il falso sillogismo suona così: è semplice quella cosa il cui atto non può essere considerato come il concorso di più agenti; poiché l’Io è tale, allora l’Io sarà semplice. Anche in questo caso, il paralogismo si produce perché l’“Io penso” continua ad essere considerato la base con cui incrementare il sapere, senza che si istituisca alcun positivo riferimento al piano dell’intuizione sensibile. Esso va considerato, al contrario, come la condizione che precede ogni esperienza possibile, e non come un’esperienza in se stessa. Per tali ragioni, la proposizione “Io sono semplice”, espressione immediata dell’appercezione, non esprime altro che un’unità logica da cui è esclusa ogni molteplicità, ma non è possibile estrarre da essa alcuna reale conoscenza. Non diversamente, aggiunge Kant, anche «la presunta inferenza cartesiana – cogito, ergo sum – è di fatto tautologica, in quanto il cogito (sum cogitans) esprime immediatamente la realtà» (Kant 2004, p. 1255, A 355; AK 04 224). Così come, in Descartes, il cogito e il sum sono equivalenti, poiché il sum del cogito non ne accresce il dominio semantico, allo stesso modo l’esser semplice dell’Io, lungi dall’essere una deduzione che ha luogo a partire da premesse determinate, è già contenuto nell’“Io penso”.
Nel passaggio citato Kant considera il cogito, ergo sum al pari di una costruzione sillogistica. Ora, come abbiamo sottolineato in precedenza, il nostro obiettivo non è dimostrare quanto l’interpretazione kantiana di Descartes sia imprecisa – a tal proposito,
19 Cfr. Chaui 2011, pp. 342-345.
secondo Beyssade, nelle opere di Kant avremmo addirittura a che fare con uno «pseudo- Cartesius», nient’altro che una «fiction» (Beyssade 2008, p. 40). Non è tuttavia superfluo sottolineare come questa lettura sia viziata, più che da un’incomprensione di fondo, da una conoscenza insufficiente dei testi cartesiani. In effetti, era stato lo stesso Descartes ad escludere a più riprese e in modo risoluto la possibilità di considerare il cogito, ergo sum20 alla stregua di un sillogismo21. L’osservazione cartesiana non sfuggirà infatti ad Hegel che, dopo aver rilevato l’errore commesso da Kant, ricondurrà la proposizione cartesiana nel quadro della propria interpretazione22. La convinzione kantiana che il cogito, ergo sum di Descartes potesse essere considerato come un sillogismo rimarrà comunque immutata, come dimostra una nota aggiunta all’esame della psicologia razionale nella seconda edizione23.
Se nella trattazione dei due primi paralogismi Kant aveva chiamato in causa il cogito cartesiano, senza fare però direttamente riferimento al filosofo francese, bisognerà attendere il quarto paralogismo dedicato al mondo esterno, e alla scetticismo circa la sua reale esistenza, per veder comparire il nome di Descartes. Il problema in questione è il seguente: poiché è ragionevole sostenere che solo quanto è in noi possa essere percepito in maniera immediata, e che è solamente la nostra esistenza a poter essere oggetto della nostra percezione, l’esistenza di un oggetto esterno non ci sarà data direttamente nella percezione, ma potrà, al massimo, aggiungersi ad essa. Per queste ragioni, non sembra irragionevole nutrire dei dubbi, più che sugli oggetti esterni in quanto tali, sulla possibilità che la loro esistenza ci sia immediatamente nota. È in questo contesto che compare il riferimento kantiano a Descartes: «Perciò anche Cartesio, con ragione, limitava ogni percezione nel suo significato più stretto alla proposizione: io (in quanto essere pensante) sono. È infatti chiaro che, poiché ciò che è esterno non è in me, non posso trovarlo nella mia appercezione e quindi neppure in una percezione, la quale è propriamente soltanto la determinazione dell’appercezione» (Kant 2004, p. 1271, A 367-368; AK 04 231).
Il giudizio kantiano è in questo caso lusinghiero, e riconosce a Descartes di aver posto il problema in maniera corretta. Il richiamo alla posizione del filosofo francese consente a
20 Sia detto per inciso: l’espressione cogito, ergo sum non compare nelle Meditazioni, dove Descartes si “limita” ad affermare, nella seconda meditatio, «ego sum, ego existo» (AT, VII, p. 25). Essa era presente, nella sua variante francese, nel Discorso sul metodo («je pense, donc je suis») (AT, VI, p. 23); nella sua versione latina, bisognerà aspettare la prima parte dei Principi della filosofia (AT, VIII-I, p. 7): «ego cogito, ergo sum».
21 Cfr., a questo proposito, i passaggi seguenti: AT, VII, pp. 140-141; AT, IX-I, pp. 110-111.
22 Cfr. Hegel 1964, pp. 78-79: «Questa proposizione [cogito, ergo sum] viene da un lato considerata come un sillogismo: dal pensiero si dedurrebbe l’essere. Specialmente Kant sollevò contro tale collegamento l’obiezione che nel pensare non è contenuto l’essere, il quale sarebbe altro dal pensare […] Per un sillogismo occorrono tre membri; qui ne occorrerebbe dunque un terzo, dal quale fossero mediati pensare ed essere: e non c’è. Il ‘dunque’, che unisce i due termini, non è il ‘dunque’ d’un sillogismo: la connessione fra essere e pensare è posta immediatamente».
23 «L’io penso è una proposizione empirica e contiene in sé la proposizione: io esisto. Non posso dire, però: tutto ciò che pensa esiste, poiché in tal modo la proprietà del pensiero farebbe sì che tutti gli enti che la possiedono divenissero enti necessari. Pertanto la mia esistenza non può essere considerata come inferita dalla proposizione: io penso, come riteneva Cartesio (altrimenti dovrebbe esser fatta precedere la premessa maggiore: tutto ciò che pensa esiste), piuttosto la mia esistenza è identica a tale proposizione», Kant 2004, pp. 615-617, B 422; AK 03 275-276.
Kant di operare una distinzione fra due differenti tipologie di idealismo: accanto all’idealismo empirico di Descartes vi è infatti l’idealismo trascendentale difeso da Kant, secondo il quale i fenomeni vanno considerati come semplici rappresentazioni e lo spazio e il tempo come forme sensibili della nostra intuizione, e non certo come cose in sé indipendenti dalla nostra sensibilità, come vorrebbe il realismo detto trascendentale. D’altra parte, è proprio il realista trascendentale che finisce per indossare i panni dell’idealista empirico, dubitando della possibilità reale di accedere al fenomeno. Se l’idealismo empirico cartesiano si lega al realismo trascendentale, l’idealismo trascendentale deve, al contrario, accompagnarsi al realismo empirico, cioè supporre l’esistenza reale del fenomeno senza «uscire dalla semplice autocoscienza e senza ammettere qualcosa in più, oltre alla certezza delle rappresentazioni in me, e cioè il cogito, ergo sum» (Kant 2004, p. 1273, A 370; AK 04 232).
Tralasciando le ragioni presentate a sostegno dell’idealismo trascendentale, è interessante notare come, nella prospettiva kantiana, l’idealismo empirico di impronta cartesiana venga comunque considerato positivamente, se non in se stesso, alla luce delle sue funzioni, vale a dire come sprone indispensabile per lo sviluppo dell’indagine filosofica. In effetti, «l’idealista scettico [la posizione riconducibile, in senso lato, a Descartes], quello che attacca semplicemente il fondamento della nostra asserzione e dichiara insufficiente la nostra convinzione sull’esistenza della materia – che crediamo di fondare sulla percezione immediata – è un benefattore della ragione umana, nella misura in cui ci costringe a tenere gli occhi bene aperti persino di fronte al più piccolo passo dell’esperienza comune, e a non acquisire subito nel nostro patrimonio, come un bene legittimamente guadagnato, ciò che forse abbiamo soltanto ottenuto con l’inganno» (Kant 2004, p. 1283, A 377-378; AK 04 237). Anche in questo caso, in linea con l’errata considerazione relativa alla natura sillogistica dell’ego cogito cartesiano, Kant attribuisce a Descartes una presa di posizione che non appartiene certo alla lettera dei suoi testi. Il supposto scetticismo cartesiano, infatti, ha un valore meramente metodologico, e serve a preparare, con ancora più forza, il cammino che conduce alla verità24. In questo percorso, l’esistenza della realtà e la possibilità di cogliere le condizioni del suo manifestarsi non sono mai poste realmente in discussione25. È allora legittimo domandarsi «si Kant sous le nom d’idéalisme sceptique ne pense pas moins à Descartes qu’à certains cartésiens comme Malebranche pour lequel l’existence du monde extérieur est indémontrable, ou encore à la doctrine de Bayle que Kant n’ignorait pas et dont le rôle a été probablement décisif dans l’établissement des antinomies» (Ferrari 1979, p. 61).
Qualunque siano state le motivazioni che hanno spinto Kant ad attribuire a Descartes una simile posizione, la confutazione dell’idealismo empirico-scettico offerta nella prima edizione della Critica non aveva pienamente convinto il filosofo tedesco. Nella seconda
24 Un caso differente è il possibile riferimento ad una sorta di “scetticismo” iperbolico che potrebbe emergere dal legame, presente nell’esordio delle Meditazioni, fra il Dio Ingannatore e il Dio creatore delle verità eterne. Questa considerazione non fa comunque parte dell’oggetto della presente indagine. Per un’analisi di questo plesso, cfr. Gatto 2015.
25 Sullo scetticismo nelle Meditazioni cartesiane, cfr. Zanette 2015.
edizione, Kant tornerà sullo stesso luogo teorico, inserendo nella logica trascendentale una sezione dedicata proprio alla «Confutazione dell’idealismo». L’idealismo cartesiano è definito questa volta «problematico», poiché «dichiara come indubitabile soltanto un’affermazione (assertio) empirica, cioè: io sono» (Kant 2004, p. 427, B 274; AK 03 190). Kant conferma i giudizi positivi espressi su Descartes nella confutazione del quarto paralogismo, affermando che l’idealismo problematico cartesiano è «ragionevole e conforme a un modo di pensare filosoficamente fondato: e cioè di non ammettere alcun giudizio decisivo prima che venga trovata una dimostrazione sufficiente» (Kant 2004, p. 427, B 275; AK 03 191). Riconosciuta la liceità metodologica dell’approccio di Descartes, Kant procede alla sua confutazione. In breve26, dato che la coscienza della nostra esistenza è determinata nel tempo, e ogni determinazione temporale, per essere ciò che è, richiede un dato permanente nella percezione, non è possibile percepire ciò che permane se non attraverso il positivo riferimento a qualcosa collocato fuori di noi. Pertanto, la coscienza della nostra esistenza è, simul, coscienza immediata dell’esistenza di altre cose, che non dipendono dal nostro mero orizzonte posizionale. Nelle tre osservazioni che seguono, Kant si sofferma sul fondamento della propria confutazione, esponendo in modo più analitico le ragioni che la sostengono27.
Descartes, ovvero la maschera
Anche in questo caso, ponendosi da una prospettiva cartesiana, è facile sottolineare come l’idealismo problematico, scettico o empirico descritto da Kant non corrisponda affatto al procedimento messo in campo da Descartes. Il filosofo francese appare, più semplicemente, un termine di confronto costruito ad arte, un espediente retorico per dare più forza, anche in termini propriamente drammatici, alla posizione kantiana. Ora, stabilita la scarsa conoscenza che Kant possedeva della filosofia cartesiana – e si tratta forse di un eufemismo, se solo prestiamo attenzione alle considerazioni kantiane sulla natura sillogistica del cogito, ergo sum espressamente esclusa dallo stesso Descartes, e proprio nei
26 Per una presentazione più ampia e precisa della questione, cfr. Dreyfus 1968. Anche per Ginette Dreyfus il Descartes idealista preso in esame da Kant non corrisponde al Descartes “storico”, ma risponde a delle esigenze interne alla speculazione kantiana: «Les jugements qui définissent ici l’idéalisme portent donc, non sur ce que Descartes et Berkeley ont littéralement professé, mais sur ce qui, selon Kant, ne manque pas de découler de leurs principes dès lors que le kantisme est vrai», Dreyfus 1968, p. 440.
27 Kant sottolinea come siano proprio i presupposti dell’idealismo a sancirne il naufragio. L’idealismo, infatti, assume come punto di partenza l’esperienza immediata del senso interno, per poi giudicare incerta l’esistenza degli oggetti esterni, visto che potremmo essere direttamente noi la causa di quelle rappresentazioni. Tuttavia, rileva il filosofo tedesco, è solo attraverso la natura immediata dell’esperienza esterna – affinché si immagini qualcosa di altro dal pensiero, è richiesta precisamente l’esistenza di un senso esterno che ci permetta di cogliere l’oggetto nell’intuizione – che diventa possibile determinare l’esperienza interna, vale a dire la nostra stessa esistenza nel tempo. Il mondo si rivela così il presupposto del senso interno: la proposizione “Io sono”, se richiede l’esistenza di un soggetto, non permette però ancora nessuna conoscenza empirica, se non per il tramite dell’intuizione. Per tali ragioni, conclude Kant, la stessa esperienza interna, a differenza dei presupposti dell’idealismo cartesiano, è possibile solo in termini mediati, ossia soltanto attraverso quella esterna.
testi presenti nella biblioteca del filosofo tedesco –, è legittimo domandarsi chi fosse realmente Descartes ai suoi occhi.
Il quesito non si pone per stabilire, come ha cercato di fare Ferdinand Alquié, ciò che, a dispetto delle apparenze, univa i due filosofi o ciò che Kant avrebbe potuto positivamente recuperare del lascito cartesiano – nello specifico, l’esteriorità dell’essere al pensiero e il divario che divide il cogito dal proprio sum28 – , se solo fosse stato più consapevole o accorto nella lettura dei testi di Descartes. Più semplicemente, alla luce delle occorrenze sparse nella prima Critica, ci si può limitare ad osservare come il “Descartes kantiano” non sia altro che una maschera dietro cui si nasconde l’oppositore ideale dell’idealismo trascendentale, una figura funzionale a far risaltare con ancora più forza e nitidezza la novitas filosofica presentata da Kant. Pertanto, se questo Descartes nulla ci dice sulle coordinate del suo pensiero o sulla collocazione storica della sua riflessione, ci consente al contempo di vedere all’opera la natura dinamica della speculazione kantiana, cioè il suo organizzarsi e strutturarsi a partire da un’altra posizione che ne faccia emergere le linee guida, come dimostra, peraltro, l’insistenza con cui Kant ritorna sugli stessi luoghi.
Inoltre, Kant non è certo il solo né il primo a mostrarci come la maschera cartesiana si presti ad essere plasmata a più riprese e ogni volta secondo differenti prospettive. La storia della ricezione di Descartes, infatti, è anche la storia delle molteplici traduzioni cui è andato incontro il filosofo – basti pensare, a questo proposito, alla sua presenza nel dibattito francese e a come ogni epoca della Francia post-cartesiana abbia avuto, voluto e creato il “proprio” Descartes 29 . Il merito kantiano, e l’importanza storica della sua mediazione, tuttavia, è quello di aver riportato la riflessione di Descartes al centro del dibattito tedesco, in un’epoca tutta dominata e plasmata dalla presenza del pensiero leibniziano. Nelle ultime righe del suo lavoro dedicato a Leibniz come critico di Descartes, Belaval coglie quindi un aspetto essenziale della ricezione cartesiana quando sottolinea come, in ambito tedesco, la metafisica di Descartes «a été d’abord moins féconde que celle de Leibniz qui est la grande inspiratrice de la pensée allemande: c’est Kant qui en réveillé l’intérêt et qui lui a ouvert une nouvelle carrière» (Belaval 1960, p. 537). È dunque attraverso l’operazione teorica kantiana che Descartes si ritrova nuovamente nel cuore del sapere e nelle fondamenta della sua architettura, ritornando così ad essere oggetto di un rinnovato interesse metafisico.
In tal senso, pur non potendo stabilire, con certezza geometrica, alcun legame testuale, è più che ragionevole pensare che il recupero hegeliano di alcuni specifici elementi del pensiero cartesiano sia legato alla loro presenza nella Critica kantiana. Certo, il giudizio di valore sarà ribaltato, e la maschera cartesiana assumerà, questa volta, dei tratti eroici, incarnando una svolta decisiva nella progressione dell’autocoscienza dello Spirito. Tuttavia, i plessi teorici cui verrà dato risalto e importanza saranno gli stessi, fatta salva, naturalmente, la differenza nei presupposti e nell’interpretazione. Pertanto, se Kant non
28 Cfr. Alquié 1975. Sulla frattura kantiana fra essere e pensiero, si tengano inoltre presenti le osservazioni di Georg Simmel nelle sue lezioni berlinesi: Simmel 1918. Sullo scarto kantiano fra pensiero ed essere, questa volta in relazione all’interpretazione fornita da Hegel, cfr. Goria 2014.
29 Cfr. Azouvi 2002.
formula una lettura circostanziata del Descartes “storico”, dà comunque vita ad una maschera filosofica che svolgerà un ruolo centrale nella ricostruzione storico-filosofica dell’idealismo post-kantiano. In una storia della ricezione del cartesianismo, interessato ad indagarne i principali luoghi ermeneutici, Kant si rivela dunque fondamentale, e non per ciò che ha affermato di Descartes, ma per averlo riportato al centro del dibattito, nel processo stesso di auto-costituzione del sapere filosofico. D’altra parte, come rivelerà Schelling, «senza dubbio [Descartes] trovò in Germania il primo fondamento del suo sistema di pensiero» (Schelling 1856-1861, p. 264).
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