CON-TEXTOS KANTIANOS.
International Journal of Philosophy N.o 1, Junio 2015, pp. 274-279
ISSN: 2386-7655
doi: 10.5281/zenodo.18531
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Un’altra Cenerentola nell’opera kantiana?
Il destino della psicologia empirica
Another Cinderella in Kant’s work? The destiny of empirical psychology
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PAULA RUMORE
Università di Torino, Italia
Recensione: Patrick R. Frierson, Kant’s Empirical Psychology, Cambridge University Press, Cambridge, 2014, pp. 278. ISBN: 978-1-107-03265-1
Il rapporto di Kant con la psicologia è un tema che non ha bisogno di particolari legittimazioni. La polemica nei confronti della psicologia come scienza – tanto per la sua componente razionale, quanto per quella empirica – ha notoriamente determinato uno dei più radicali momenti di rottura di Kant con la tradizione. Ma ciò che vale per la psicologia razionale, rispetto a cui la posizione di Kant è chiara e coerente con l’impostazione della filosofia trascendentale, non può venir affermato con uguale risolutezza nel caso della psicologia empirica, nei confronti della quale Kant ha nutrito negli anni un atteggiamento quantomeno ambivalente. Per un verso l’incertezza rispetto alla effettiva validità di uno studio ‘psicologico’ del soggetto, per quanto empirico; per l’altro le numerose considerazioni ‘psicologiche’ (teoria delle facoltà, degli affetti, della determinazione all’agire) che continuamente ritornano nei suoi scritti editi e non.
∗ Professore Associato dell’Università degli Studi di Torino (Italia). E-mail di contatto: paola.rumore@unito.it .
Un’altra Cenerentola nell’opera kantiana ?
Il libro di Frierson si propone di mostrare che la filosofia trascendentale non soltanto non preclude la possibilità di una psicologia empirica, ma che anzi ne trae di fatto un beneficio concreto. Semplificando, la questione potrebbe venir esposta in questi termini: la filosofia trascendentale assume come proprio oggetto la soggettività trascendentale, la cui peculiare ‘costituzione’ è condizione tanto della possibilità di un’esperienza stabile e condivisa, oggetto della conoscenza scientifica, quanto di una moralità universale. Si tratta di quel “punto di vista umano”, su cui ha opportunamente insistito Béatrice Longuenesse, e che rappresenta per così dire la prospettiva sul rapporto uomo-mondo della filosofia trascendentale in cui l’uomo è primariamente soggetto. Accanto a questa maniera di guardare alla natura umana Kant non ha però escluso del tutto la possibilità di considerare l’uomo anche come oggetto di riflessione, una riflessione di tipo empirico, analoga a quella che si rivolge agli altri fenomeni. L’homo phenomenon, in questo caso, diventa oggetto di una scienza anch’essa empirica: la natura umana viene osservata nelle sue manifestazioni sensibili che vengono registrate e ordinate secondo rapporti quanto più possibile stabili che mettono capo – come nel caso degli altri fenomeni – alla formulazione di una serie di ‘leggi’ o relazioni costanti. Si tratta precisamente di quel tipo di conoscenza che nella tradizione entro cui si è formata la filosofia kantiana veniva appunto chiamata “psicologia empirica”. Ed è proprio della natura, degli scopi e del metodo di questa scienza all’interno della filosofia kantiana che Frierson si occupa in questo lavoro, con lo scopo dichiarato di contrastare le interpretazioni di chi accusa Kant di aver assunto nella filosofia trascendentale un atteggiamento eccessivamente ingenuo rispetto alla psicologia (ad esempio Simon Blackburn, Joshua Greene, pp. 3, 260 – curiosamente Greene non è incluso nell’indice dei nomi). Queste interpretazioni, che l’Autore non esita a definire “caricaturali” (ibidem), riposerebbero proprio su una confusione tra la filosofia trascendentale e la psicologia empirica o, meglio, su un’interpretazione della filosofia trascendentale che non tiene conto delle importanti integrazioni rispetto alla conoscenza della natura umana che Kant presenta nella sua psicologia empirica.
Tuttavia la stessa ammissione di una ‘psicologia empirica’ kantiana non è del tutto aproblematica, e già solo accordarsi su che cosa possa venir inteso come una ‘psicologia empirica’ all’interno della riflessione kantiana richiede qualche specificazione. Frierson delinea la fisionomia della psicologia empirica di Kant
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attraverso il confronto con le altre forme di psicologia che gravitano intorno alla sua filosofia: quella trascendentale e quella razionale. Rispetto alla psicologia razionale la questione è risolta dallo stesso Kant con la denuncia dei paralogismo su cui riposano le sue conclusioni. Più complessa è invece la questione del rapporto con la psicologia trascendentale. Il presupposto da cui muove il libro lo situa già in una prospettiva tutt’altro che indiscussa, ossia l’idea che “la filosofia trascendentale è psicologica in senso lato, poiché consiste per larga parte in una serie di ‘critiche’ delle diverse facoltà umane” (p. 1); laddove la differenza dalla psicologia empirica consisterebbe nel fatto che la psicologia trascendentale considera queste facoltà “dall’interno” – presentando le condizioni di possibilità della loro validità – mentre la psicologia empirica le descrive “dall’esterno” – tenendo conto delle interazioni causali tra il mondo e le capacità della mente umana quale oggetto di un’indagine empirica. Sulla legittimità di ritenere la filosofia trascendentale una “psicologia”, per quanto “trascendentale”, l’Autore non sembra porsi nessuna domanda, tantomeno sulla effettiva opportunità ripetutamente discussa dalla letteratura di considerare l’io penso, l’unità originaria da cui scaturisce tutta l’attività sintetica del soggetto, come il possibile oggetto di una psicologia. Appoggiandosi a questo tipo di interpretazione canonicamente ricondotta al libro di Patricia Kitcher del 1993, Frierson riconosce che tra la psicologia trascendentale e quella empirica sussistono una serie di differenze sostanziali: l’origine trascendentale e non empirica della prima; il suo carattere normativo anziché descrittivo. Cionondimeno la prima rappresenta – come per ogni scienza in generale – il presupposto della seconda, nella misura in cui la conoscenza dell’homo phaenomenon si serve delle medesime categorie (sostanza, causalità etc.) la cui origine e legittimità d’utilizzo sono stabilite dalla indagine trascendentale della soggettività. Come l’Autore opportunamente riconosce, considerare la mente umana, la natura umana in generale, come oggetto di una scienza empirica incontra tutti i problemi delle scienze empiriche in generale, e anzi anche qualcuno di più. Considerare la psicologia, alla stregua della fisica, come una fisiologia del senso interno significa stabilire una serie di connessioni causali tra le sue manifestazioni, tanto nel caso della conoscenza, quanto in quello dell’azione. Così il nesso tra rappresentazioni e giudizi da un lato, e quello tra rappresentazioni, sentimenti, desideri, azioni dall’altro, deve venir rintracciato su base osservativa e descritto in accordo con le leggi della fisica, una fisica della mente, riconducendo la varietà di
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queste manifestazioni ad alcune ‘forze’ fondamentali, le facoltà, radicate in disposizioni naturali dell’animo umano. Stanti le difficoltà dell’osservazione introspettiva – un problema ben presente a Kant, che nell’Antropologia pragmatica denuncia la difficoltà di trattare il proprio io, ma anche gli altri, come un oggetto stabile di osservazione e, ancor peggio, di sperimentazione – e la incongruenza tra una connessione causale di tipo deterministico, come quella che si viene a istituire tra i fenomeni del senso interno, e la causalità libera, spontanea, in cui risiede ad esempio la moralità, la scienza empirica della natura umana presenta in generale i limiti di ogni approccio naturalistico. E ciò, pur tenendo conto delle precisazioni che Kant introduce nella terza Critica sulle differenze tra lo studio della natura umana, del fenomeno della vita in generale, rispetto agli altri fenomeni e la necessità di introdurre principi di tipo teleologico e non soltanto causal-efficienti. Come aveva efficacemente spiegato Onora O’Neill, la conoscenza empirica dei fenomeni, pur fornendo una spiegazione dei loro nessi secondo leggi, non sarà mai una conoscenza ‘esauriente’, nel senso che non riuscirà mai a spiegare il fondamento di quelle leggi, a fornirne una spiegazione ultima, a indicare la ragione per cui esse sono così e non altrimenti. E la psicologia empirica non fa eccezione tra le altre scienze empiriche: anch’essa aspira a fornire una descrizione dei fenomeni (interni, in questo caso) nei termini di una necessità naturale, senza potersi però interrogare sulla ragione di quella necessità. Questo limite non le impedisce, tuttavia, di porsi come una scienza, ovviamente – come rileva qui e là l’Autore – in un senso meno forte di quanto non si parli di scienza nel caso della matematica, della fisica pure e, effettivamente, della stessa filosofia trascendentale.
Questo senso ‘debole’ di scienza sembra essere il perno intorno a cui si articola l’intero lavoro di Frierson: la psicologia empirica può essere una scienza nella misura in cui, come le altre scienze empiriche, ci descrive dei fenomeni, li lega secondo rapporti causali e quindi li inserisce in catene di successione temporale, stabilisce i criteri di una loro prevedibilità e li concepisce come manifestazioni di ‘forze’ più generali, le facoltà. Così facendo questa scienza empirica dell’io descrive la maniera in cui (fenomenologicamente, verrebbe da dire) connettiamo tra loro le rappresentazioni dei sensi, compiamo operazioni di astrazione, ci formiamo concetti e di qui giudizi e pregiudizi, e come queste operazioni mettano capo alla conoscenza empirica (cfr. cap. III: “Kant’s empirical account of human cognition”, ma anche p. 197, ); o, ancora, come
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l’osservazione ci mostri che l’azione è determinata da un desiderio scaturito da un sentimento originato da una rappresentazione (cfr. cap. II: “Kant’s empirical account of human action”, in particolare pp. 67-69), e così via. Ma ciò di cui si sta parlando, in tutti questi casi, è appunto il soggetto empirico di cui, con le dovute cautele cui si è fatto cenno (introspezione, osservazione degli altri, deviazioni dalla ‘normale’ funzionalità delle facoltà, cui Frierson dedica gli ultimi due capitoli del libro), è possibile articolare una serie di osservazioni in una ‘scienza’.
Questa scienza è una scienza empirica nel senso in cui era empirica la psicologia di Wolff, A.G. Baumgarten e Georg Friedrich Meier (grande assente non nella riflessione di Kant, ma nello studio di Frierson): essa era una conoscenza ‘storica’ ossia una raccolta di dati e osservazioni sistemati secondo i principi del metodo scientifico; la psicologia empirica è per quegli autori una conoscenza a posteriori, che descrive quel che ci è dato osservare dell’anima umana senza pretendere di spiegare (a priori e per via deduttiva) le ragioni alla base di quei fenomeni, come farà invece la psicologia razionale. Quest’ultima è appunto una conoscenza ‘filosofica’, e non storica: spiega e non descrive. A questo proposito, la maniera in cui Wolff tratta del problema del commercium psicofisico nelle sue due psicologie è assolutamente paradigmatica: nella psicologia empirica si limita a registrare la compresenza osservabile di fenomeni fisici e psichici; in quella razionale ne tenta una spiegazione a priori. Ma si potrebbero trovare altri numerosi esempi. Il carattere esclusivamente descrittivo del sapere storico è quello che ne determina anche il carattere non prescrittivo: dicendoci come stanno le cose, l’esperienza non ci insegna come le cose devono essere. Ciò emerge chiaramente considerando la logica naturale (strettamente imparentata alla psicologia empirica, e anche per questo l’assenza di Meier lascia quantomeno perplessi), esclusivamente descrittiva, rispetto a quella artificiale, dichiaratamente normativa. Sicché una buona parte delle preoccupazioni di Frierson per ritagliare uno spazio di legittimità alla psicologia empirica se non ‘entro’, quantomeno ‘accanto’ alla filosofia trascendentale trovano conforto in questa considerazione che certo può avere l’aria stantia delle minuzie archeologiche, ma che non per questo è inutile a riflessioni più genericamente ‘sistematiche’ e ‘teoriche’. Si comprende pertanto senza eccessivo stupore come Kant sia in grado di fornire una spiegazione empirica della motivazione morale, che non è tuttavia in grado di cogliere quel che rende quella motivazione essenzialmente morale
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(cap. IV: “Kant’s empirical account of moral motivation: respect for the moral law”). In questa prospettiva assume senso l’idea kantiana – di cui l’Autore dà conto – di ricomprendere la psicologia empirica all’interno di un’antropologia, come ci informa programmaticamente la stessa “Dottrina del metodo” della prima Critica. Occorre non dimenticare che il confronto di Kant con questa disciplina muove innanzitutto da un’esigenza didattica e che solo successivamente quel tipo di considerazioni sulla natura umana assume la forma di una conoscenza autonoma nei termini di un’antropologia pragmatica. L’insistenza di Frierson sulla portata pratico-pragmatica dell’antropologia, peculiarità che la distinguerebbe dalla psicologia empirica tout court, risponde per un verso al vero significato e scopo che Kant sembra aver attribuito a una scienza empirica dell’uomo: essa non ha un valore puramente speculativo, ma si rende utile nella misura in cui permette di conoscere – secondo la celebre formula – quel che l’uomo può fare di se stesso; di qui l’articolazione della antropologia in una “Didattica” e in una “Caratteristica”, parti complementari e integranti della scienza empirica della natura umana così come l’aveva fino ad allora presentata la filosofia. Anche su questo aspetto della complessa operazione di recupero della psicologia empirica da parte di Kant la ricerca ha investito ormai da svariati decenni energie considerevoli: nella direzione più di recente indicata da Norbert Hinske e Reinhard Brandt, seppur da prospettive divergenti, la ricerca in Germania, in Francia, in Spagna e in Italia, ha ricostruito minuziosamente la trama di influenze e di stimoli che hanno condotto al progetto kantiano di un’antropologia, non soltanto riconoscendo il debito di Kant nei confronti della tradizione ‘razionalistica’ tedesca e degli empiristi britannici (senza dimenticare che Kant era lettore di Krüger, di Meier, di Meiners, di Platner, per menzionare solo alcune delle sue fonti rispetto alle quali la distinzione tra razionalismo e empirismo appare infruttuosa), ma anche a un’immagine di Kant meno monolitica e forse persino meno ingenua di quella che lo chiude nella torre d’avorio della filosofia trascendentale.
Considerato in questa prospettiva della ricerca – di cui questo libro, purtroppo, non tiene realmente conto – il lavoro di Frierson rappresenta certo un contributo significativo nel valorizzare quest’altra componente della riflessione kantiana, integrazione e complemento del suo progetto di una scienza in senso forte della soggettività trascendentale.
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