CON-TEXTOS KANTIANOS.
International Journal of Philosophy N.o 7, Junio 2018, pp. 234-251
ISSN: 2386-7655
Doi: 10.5281/zenodo.1299098
Psychopathologies in Kant’s 1764 Versuch
MARCO COSTANTINI1
Università Roma Tre, Italia
Il contributo si compone di due parti. La prima intende precisare la struttura della nosologia delle patologie psichiche che Kant propone nel Versuck über die Krankheiten des Kopfes. Tale nosologia è costituita da due serie, ordinate in ordine crescente, l’una relativa alle manifestazioni sociali della follia, l’altra alle sue manifestazioni individuali, che interessano in modo specifico le facoltà dell’anima. Cercheremo di dimostrare che esiste una connessione tra le due serie, e di illustrare in che modo essa avvenga. La seconda parte del contributo, invece, intende mettere in discussione la tesi secondo cui Kant avrebbe fornito nel Versuch un’eziologia sociale delle patologie psichiche. Mostreremo, a dispetto di questa tesi, come la società crei le condizioni solo per il manifestarsi di queste patologie, e non per il loro prodursi, che dovrà invece essere ricercato nel corpo.
Kant; psicopatologie; nosologia; corpo; società
This contribution consists of two parts. The first aims to clarify the structure of the nosology of psychopathologies that Kant proposes in the Versuck über die Krankheiten des Kopfes. Such nosology consists of two series, arranged in ascending order, one relating to the social manifestations of madness, the other to its individual manifestations, which specifically concern the faculties of the
1 Borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF) di Napoli. Email: m.costantini@live.it. Il presente articolo è tratto da una ricerca svolta nell’ultimo anno per l’IISF, al quale vanno i miei ringraziamenti per averne concesso la pubblicazione in questa sede. Ringrazio, inoltre, la prof.ssa Mariannina Failla per i suoi preziosi commenti alla prima stesura del testo.
Le patologie psichiche nel Versuch kantiano del 1764
soul. We will try to demonstrate the existence of a connection between these two series, and to illustrate how this occurs. The second part of the contribution, on the other hand, intends to question the thesis according to which Kant in his Versuch provided a social aetiology of psychopathologies. We will show, in spite of this thesis, how society creates conditions only for the manifestation of these pathologies, and not for their production, which must instead be sought in the body.
Kant; psychopathologies; nosology; body; society
Il Versuch über die Krankheiten des Kopfes fu pubblicato da Kant in forma anonima, e in cinque parti, nelle «Königsbergsche Gelehrte und Politische Zeitungen», dal 13 al 27 febbraio 1764. L’intento esplicito di queste poche ma densissime pagine kantiane è apparentemente molto modesto: proporre una «piccola nomenclatura» (eine kleine Onomastik) che classifichi i «malanni» (Gebrechen) della mente umana secondo i loro differenti «gradi» di intensità (VKK 260). Ossia, in base a ciò che l’osservazione avrà dato modo di stabilire, si riserverà un nome a quel grado di intensità che, passando una certa soglia, ha dato all’ammalarsi di una mente umana un nuovo insieme di sintomi caratteristici – ma, al limite, anche uno soltanto. Non si tratta di determinare le fasi che scandiscono il decorso di una patologia data, ma di segnare, come su di una linea retta, i punti in cui uno stesso male, una stessa e identica follia, portatasi a un certo grado di intensità, si presenta sotto una nuova forma, dà modo a una nuova patologia di manifestarsi. È forse impossibile dare un volto alla follia, dire qualcosa sul suo essere più proprio, ma essa non nasconde in ogni caso allo sguardo, anche a quello meno avveduto, il grado di intensità con cui colpisce, quanto in alto nella gerarchia delle facoltà dell’animo umano fa giungere il suo riverbero. Basta dunque osservarne gli effetti per darle un ordine, quel minimo di ordine che l’assegnazione di un nome consente, ed è questo per l’appunto il metodo cui si attiene scrupolosamente Kant nel Versuch:
«Non vedo di meglio, per me, che imitare il metodo dei medici che credono di essere stati molto utili al loro paziente per aver dato alla sua malattia un nome […]. Ho inoltre prestato attenzione solo alle manifestazioni [Erscheinungen] [delle malattie] nell’animo, senza volerne scrutare la radice, che, a dire il vero, risiede certamente nel corpo, e che, per la precisione, ha la sua sede centrale più nell’apparato digerente che nel cervello…» (VKK 260, 270).
L’ordine della nomenclatura nosologica sarà un ordine crescente, e Kant anticipa sin da subito i due estremi che la limiteranno, il più basso, la Blödsinnigkeit, la stupidità, e il più alto, la Tollheit, l’uscir fuori di senno, che è poi, come vedremo, un caso particolare di Unsinnigkeit, di dissennatezza. Tuttavia, sebbene ci si astenga dall’osservare troppo in profondità, fermandosi all’infiorescenza senza andare alla radice, ogni singolo grado disposto sulla retta può essere di per sé seguito a ritroso almeno per un breve tratto, appena
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al di qua di quella soglia oltre la quale la malattia si manifesta in tutta la sua apparenza. Vale a dire che le forme patologiche possono essere senz’altro disposte in successione, orizzontalmente, dalla meno alla più intensa, ma che è possibile inoltre riconoscere di ognuna, seguendone la provenienza in linea verticale, i sintomi precoci, o, per così dire, la variante attenuata, segno di un’intensificazione incipiente che presto o tardi avrà fatto sbocciare la malattia vera e propria:
«[…] ma, per conoscere queste malattie disgustose nella loro discendenza graduata, trovo necessario innanzitutto illustrarne i gradi più tenui, dalla scemenza [Dummköpfigkeit] fino alla buffoneria [Narrheit], poiché queste vesti, indossate di solito nelle relazioni sociali, conducono tuttavia a quelle malattie» (VKK 260).
La nomenclatura kantiana, sulla quale sinora si è ragionato in modo per lo più anacronistico2, ha dunque un doppio registro, traccia due direttrici ben distinte, anche se tra loro comunicanti. La prima, oggetto principale di indagine, va dalla stupidità all’uscita di senno, e riguarda propriamente l’interno, ossia le facoltà dell’animo umano danneggiate dall’insorgere della follia; la seconda, parallela alla prima, va dalla scemenza alla buffoneria, e riguarda l’esterno, ossia i comportamenti sociali. Anche quest’ultima, a dire il vero, prende in considerazione le facoltà, ma lo fa sempre, per così dire, dal di fuori, così come esse appaiono nella loro applicazione pratica, a differenza della prima che le osserva nella loro intrinseca validità teoretico-percettiva. Prima di essere una malattia della «testa», un male che colpisce l’«Erkenntnißkraft», la follia è una malattia del «cuore», una
«corruzione della volontà» (Verderben des Willens) (VKK 270). Essa si manifesta, infatti, nei suoi gradi più tenui, nella forma di potenti «impulsi», o «passioni», le quali si trasformano, da «forze motrici del volere», in forze incantatrici, che danneggiano tanto la ragione, quale facoltà di prefiggersi scopi, quanto l’intelletto, quale facoltà di trovare i mezzi utili al loro raggiungimento, di prevedere possibili conseguenze e, soprattutto, di
«valutare» la loro «importanza» (VKK 261).
Vi sono dunque due direttrici, due serie lineari che si differenziano innanzitutto per il luogo in cui appaiono i sintomi, se l’interno o l’esterno. Al di sotto di entrambe, troviamo il corpo, posto al di fuori di queste coordinate spaziali, ma ancora in grado di far valere il peso materiale della sua sostanza negli accessi della passione non meno che nelle illusioni dell’immaginazione.
Chiamiamo psicosociale la serie che ordina i gradi della follia nel suo manifestarsi esterno. Le voci che la compongono sono la scemenza (Dummköpfigkeit), la stoltezza (Thorheit) e la buffoneria (Narrheit). A ognuna di esse corrisponde una passione che non sarà di poco conto rintracciare nel testo e nominare, poiché è sul filo conduttore della passione presente di volta in volta che è possibile indicare quelle linee di discendenza che collegano i gradi più tenui ai gradi più accesi di follia.
2 Cf., ad esempio, Rauer (2009: 132-134), che divide la nomenclatura kantiana in «nevrosi» e «psicosi».
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Le patologie psichiche nel Versuch kantiano del 1764
Dello scemo Kant dico poco o nulla, semplicemente che «manca di intelligenza», cioè di un certo «giudizio pratico su cose» del tipo di cui potrebbero servirsi «il contadino, l’artigiano o il marinaio» (VKK 260). Non bisogna però farsi trarre in inganno: la mancanza di giudizio, che in questa fase del pensiero kantiano corrisponde all’intera facoltà superiore della conoscenza, comprensiva di intelletto e ragione3, non è un sintomo primario, ma deriva a sua volta da una mancanza di sensibilità. In un luogo del Versuch, infatti, si dice che lo scemo è «insensibile» (unempfindlich) (VKK 262), e si deve presumere che questo sia il motivo per il quale l’intelletto e la ragione risultino in lui
«mancanti»: non ricevendo materia alcuna da parte della sensibilità, non hanno nulla su cui poter esercitare la loro funzione, e restano pertanto inattivi, come assopiti. Lo scemo è, quindi, colui che consta della sola facoltà superiore della conoscenza, e, al tempo stesso, colui che non è assolutamente in grado di farne uso, non potendo conseguentemente
«intraprendere alcun tipo di faccenda», come dirà Kant nell’Anthropologie (Anth 210). Ragion per cui lo si scambia molto spesso per il «saggio» (Weiser) (VKK 262): l’insensibilità – che è la passione di cui soffre – prende l’aspetto dell’impassibilità, della calma virtuosa.
Sebbene in altro modo e per tutt’altri motivi, anche lo stolto (Thor) – l’immobile, l’«incatenato» (gefesselt) (VKK 261) – è incapace di agire. Lo stolto sa usare l’intelletto, è
«ragionevole» (vernunftig), ma la forza quasi ipnotica della sua passione, l’Ehrbegierde (la sete di onori, l’ambizione), lo domina a tal punto da impedirgli un’azione conseguente ai suoi stessi ragionamenti (ivi). Diciamo «azione», ma dovremmo piuttosto dire «non- azione». Ci sono fini che, per motivi che si conoscono, non dovrebbero essere perseguiti, eppure li si persegue ugualmente. «Lo stolto può in ogni caso rivelarsi un ottimo consigliere per altri, benché il suo consiglio non abbia su di lui alcun effetto» (ivi). In tal senso, non si può dire che lo stolto manchi di giudizio, ma, allo stesso modo, nemmeno che sia giudizioso. Non è in ogni caso un’affezione del ramo superiore della capacità conoscitiva che lo immobilizza; si tratta piuttosto di qualcosa di visivo, di immaginativo: lo stolto, dice Kant, è come «incantato», «affascinato» (bezaubert).
Il matto (Narr), dominato dall’arroganza (Hochmuth) e dall’avarizia (Geiz), ha la peculiarità di perseguire fini che si ritorcono contro loro stessi. La sua ragione non è incatenata come quella dello stolto, ma «capovolta», «alla rovescia» (verkhert). Il matto crede «di essere in possesso di ciò che brama proprio mentre se ne defrauda» (VKK 262).
– Qualcosa della parola Narr evocativo del giullaresco, dell’istrionico, viene inevitabilmente perduto se la si traduce con «pazzo», o «folle». Abbiamo preferito dunque il termine «matto», che conserva, al contrario, questa sfumatura di significato, alla quale Kant deve aver pensato durante la scrittura del testo. L’esempio di Narr che egli adduce è,
3 «[…] per quanto possa essere evidente, affermo che per i concetti completi non è richiesta all’anima una forza fondamentale diversa da quella richiestale per i concetti distinti […]; altrettanto facilmente si comprende che intelletto e ragione, ossia la capacità di riconoscere distintamente e quella di fare sillogismi, non sono facoltà fondamentali diverse. Entrambe consistono nella capacità di giudicare…»; «[…] si ricava anche che la facoltà conoscitiva superiore si fonda senz’altro soltanto sulla capacità di giudicare» (DfS 59; trad. it. Kant 1965: 497).
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a tal proposito, abbastanza eloquente: Nerone, che «si espone al pubblico scherno leggendo da un palcoscenico miserabili versi per conquistarsi il premio di poesia, e che ancora alla fine della sua vita esclama: “Quantus artifex morior!”» (VKK 262). Senza contare che con
«pazzo» e «folle» non emerge con sufficiente forza la dimensione sociale, pubblica, del
Narr, che in questo contesto andrebbe tenuta sempre presente.
Chiamiamo biopsichica la serie che ordina i gradi della malattia nel suo manifestarsi interno. Qui, come già nella serie psicosociale, Kant indica in corrispondenza di ogni grado la facoltà che è stata coinvolta e in certa misura danneggiata; lo fa, tuttavia, con maggiore sistematicità e adottando una prospettiva organicistica prima assente. Beninteso, il Kant degli anni Sessanta non aveva ancora né tracciato i contorni precisi delle facoltà superiori della conoscenza, né distinto irrevocabilmente quest’ultime dalla sensibilità. Nel Versuch si trovano espressioni come «Erfahrungsbegriff», o addirittura
«Begriff», per indicare rappresentazioni appartenenti al mundus sensibilis. Kant, nelle Beobachtungen, aveva persino affermato che, data la «stretta connessione» delle facoltà dell’anima, sarebbe stato possibile «dedurre i talenti dell’intelligenza dalle manifestazioni del sentimento» (GSE 225). Cionondimeno, nel Versuch si considerano ora le facoltà degli
«organi», e si inizia a percepire nell’animo umano una certa organicità. Forse non è così imprudente affermare che la scrittura del Versuch abbia dato a Kant occasione di raffinare il suo sguardo sulle forze di cui l’animo umano per natura dispone, e sulle diverse funzioni che ognuna di esse possiede, compiendo in tal modo un passo ulteriore verso le successive posizioni teoriche della Dissertatio e della prima Kritik. O. Meo ha avuto modo di sostenere che senza un primo esame delle deviazioni dalla norma, senza aver compreso di quali disfunzioni e quali mostruosità sono capaci le facoltà conoscitive, forse Kant non sarebbe mai arrivato a individuare il punto esatto in cui tracciare un limite per la più alta e la più pericolosa tra tutte, la ragione (cf. Meo 1982: 29, 65). Ma ciò, a sua volta, è stato possibile solo affrontando il problema delle patologie psichiche, almeno in parte, da una prospettiva organicistica, finalistica. Assunta tale prospettiva, Kant ha potuto suddividere le manifestazioni interne della follia in un primo gruppo, chiamato dell’«impotenza» (Ohnmacht), dove «la memoria, la ragione e spesso persino la sensibilità» risultano danneggiate in modo grave e irreparabile, ridotte a «organi smorti», nei quali «dev’essere quasi impossibile infondere […] una nuova vita»; e in un secondo gruppo, chiamato della
«devianza» (Verkehrtheit), dove si verificano «disordini feroci», scompensi che alterano la normale funzionalità delle facoltà conoscitive (VKK 263). Con biopsichico non intendiamo perciò riferirci al sostrato psicofisico delle malattie mentali, il quale, d’altra parte, non può essere misconosciuto nelle pagine del Versuch, ma alla connessione organica delle facoltà psichiche che l’ordinamento di quelle malattie suppone, benché in massima parte ancora celata, alla propria base.
Al gruppo dell’impotenza appartengono menomazioni che Kant rubrica sotto
«stupidità» (Blödsinnigkeit), ma che giudica superfluo nominare e descrivere nel dettaglio (VKK 263). Gran parte dello spazio egli lo lascia al gruppo della devianza, che comprende
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Le patologie psichiche nel Versuch kantiano del 1764
tutti i vari casi di «disturbo psichico» (gestörtes Gemuth). Distribuiti anch’essi secondo un ordine crescente di intensità, i disturbi psichici formano la seconda serie della nomenclatura kantiana, che può essere ricollegata alla prima seguendo il filo conduttore delle passioni. Vediamo, infatti, come l’insensibilità della scemenza sia presente del pari nella «dissennatezza» (Unsinnigkeit), quello stato in cui la psiche è, per l’appunto,
«insensibile alle sensazioni esterne», e nel quale la follia ha manifestazioni prevalentemente corporee: la frenesia, lo sconforto, la forsennatezza (VKK 268-269). Vediamo, inoltre, come l’ambizione dello stolto sia in opera, in modi senz’altro curiosi, nell’«alienazione» (Verrückung). Essa non sarà immediatamente riconoscibile nel fantasticatore, nell’ipocondriaco o nel malinconico, ma di certo lo è nell’esaltato (lo
«Schwärmer», il «Fanatiker», il «Visionär»). Come prova indiretta di questo collegamento, possiamo riportare un passo del Versuch in cui si parla dello stolto come di colui che si è «allontanato dal suo posto [Stelle] naturale, ed è quindi preso da ogni genere di occupazioni [costruzioni, quadri, libri]» (VKK 262). Questo riferimento al «posto», al fatto che lo stolto se ne stia fermo là dove non dovrebbe stare, ci rimanda inevitabilmente alla Verrückung, che in senso letterale significa «spostamento», e che sarebbe pertanto più opportuno tradurre con «alienazione», invece che con «allucinazione», come di norma viene fatto. Vediamo, infine, come l’arroganza sia la passione comune ai tre disturbi che colpiscono la facoltà superiore della conoscenza, il vaneggiamento (Wahnsinn), la fabulazione (Wahnwitz), la stravaganza (Aberwitz): «Un arrogante [Hochmüthiger] è in certa misura un vaneggiatore [Wahnsinniger] che, dal comportamento di coloro che lo fissano in modo beffardo, conclude che essi lo ammirano» (VKK 268) – ma, in certa altra misura, sarà del pari un fabulatore e uno stravagante, forme più acute di disturbo psichico, ma poste sulla stessa linea di discendenza del vaneggiamento. Kant raggruppa queste ultime tre voci nella classe dei disturbi del «giudizio», separandoli in tal modo dai disturbi dei «concetti d’esperienza», portati sotto la voce «alienazione» (Verrückung)4. La divisione dei disturbi psichici in questi due sottogruppi è qualcosa su cui Kant torna in chiusura del suo saggio:
«In quelli del primo tipo, fantasticatori [Phantasten] o alienati [Verrückten], non è in senso proprio l’intelletto a soffrire, ma solo quella facoltà che suscita nell’animo i concetti, dei quali poi il giudizio si serve, confrontandoli tra loro. […] in quelli del secondo tipo, i vaneggiatori [Wahnsinnigen] e i fabulatori [Wahnwitzigen], è l’intelletto stesso ad essere colpito…» (VKK 267).
Ci soffermeremo nelle pagine che seguono sui disturbi del secondo tipo, che fanno come da cartina al tornasole per cogliere il differenziarsi delle facoltà all’interno
4 La voce Verrückung acquisterà un significato più generico e assumerà un rilievo maggiore nella successiva nosologia dell’Anthropologie. Nel corso del tempo si verificherà un curioso spostamento dello
«spostamento»: da disturbo specifico, verrà elevato a genere di tutte le specie di disturbi, dei sensibili come degli intellettivi (cf. Anth 214-216). Un primo passo in questa direzione avviene già con i Träume del 1766, dove il Geisterseher, nella figura di Emanuel Swedenborg, è chiamato Verrückter in qualità del suo essere un fabulatore (Wahnwitzig) (cf. TG 361). Si fa riferimento allo «spostamento» anche in una nota a margine della Rektoratsrede del 1786: «In permultis mentis sede sua motae» (Refl 942).
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della sfera superiore della capacità conoscitiva. In primis, proponiamo uno schema che illustri le due serie psicopatologiche, le passioni che le accomunano e i loro punti
Unempfindlichkeit (insensibilità) | | Dummköpfigkeit5 (scemenza) | | Unsinnigkeit (dissennatezza) (frenesia) (sconforto) (forsennatezza) | Ehrbegierde (ambizione) | | Thorheit (stoltezza) | | Verrückung (alienazione) (fantasticheria) (ipocondria) (malinconia) (fanatismo) (confabulazione) | Hochmuth (arroganza) | | Narrheit (buffoneria) | | Wahnsinn ––– Wahnwitz ––– Aberwitz (vaneggiamento) (fabulazione) (stravaganza) |
Raserei
Hoffnungslosigkeit
Tollheit
Phantasterei
Hypocondrie
Melancholie
Schwärmerei
Konfabulation6
di congiunzione.
5 Si è soliti iniziare, nella nomenclatura, con l’«ottusità» (Stumpfköpfigkeit). A ben vedere, però, sembra che Kant ne parli, almeno nel Versuch, solo a mo’ di paragone per meglio definire la scemenza, e che non debba essere ritenuta, in fin dei conti, una vera e propria patologia psichica. Solo in apparenza l’ottuso e lo scemo sono entrambi insensibili, poiché il primo, in realtà, manca semplicemente di «spirito» (Witz) (VKK 260), una qualità che Kant considera buona solo entro certi limiti.
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Wahnsinn, Wahnwitz e Aberwitz sono i tre disturbi fondamentali del giudizio, il quale, come abbiamo visto, riunisce in sé intelletto e ragione, e che coincide pertanto con l’intera facoltà superiore della conoscenza. Tuttavia, sulla scia dell’intensità di grado con cui la malattia altera il giudizio, in modo più tenue nel Wahnsinn, in modo più acuto nell’Aberwitz, sulla scia quindi delle disfunzioni riscontrabili in ogni singolo caso, si può ipotizzare che Kant abbia distinto per contrasto diverse funzioni che solo in seguito sarà stato portato a riassegnare non più ad una, ma a diverse e altrettanto distinte facoltà conoscitive.
Per mostrare come ciò possa essere accaduto, dobbiamo innanzitutto tener presente che, se le diverse voci raccolte sotto «Unsinnigkeit» e «Verrückung» non scaturiscono direttamente l’una dall’altra, non si dispongono cioè su una stessa linea d’intensità, ma sono solo modi diversi di essere affetti da una medesima patologia – fantasticare, soffrire di ipocondria o di malinconia, per esempio, non comporta un grado d’alienazione maggiore o minore, ma un differente modo di essere alienato –, se, quindi, il ramo inferiore della facoltà conoscitiva in generale può essere colpito da due soli disturbi – la dissennatezza, con segno negativo, l’alienazione, con segno positivo –, il ramo superiore, invece, può essere colpito positivamente da tre disturbi differenti, che non sono raccolti da Kant sotto un’unica dicitura proprio perché costituiscono tre forme patologiche di genere distinto. Ora, se il Wahnsinn è un disturbo dell’intelletto, che porta il malato ad avanzare certe
«spiegazioni fantasiose» di tipo paranoide su quel che gli accade attorno – «egli non vede che una generale cospirazione contro di sé» (VKK 268) –; e se il Wahnwitz è, d’altra parte, un disturbo della ragione, in cui il malato «si perde con disinvoltura in immaginari giudizi raffinati su concetti generali» (ivi); se, quindi, questi due disturbi coprono in estensione, essi soli, l’intera facoltà superiore della conoscenza, per quale motivo, allora, aggiungerne un terzo, l’Aberwitz – quello stato in cui si fuoriesce dal campo dell’esperienza per giudicare di qualcosa di sovrasensibile –, disturbo che peraltro, in un primo momento, non era stato nemmeno menzionato?7 Solo più tardi, nell’Anthropologie, «Aberwitz» nominerà il disturbo proprio della ragione, mentre «Wahnwitz» quello proprio del giudizio (Anth 215); ma, a quel punto, intelletto, giudizio e ragione saranno già stati definitivamente distinti da Kant nella Kritik der reinen Vernunft (A 95-98, B 130-133).
Per uno strano effetto di inversione, laddove si sarebbe dovuto tener conto del numero delle facoltà, o delle loro funzioni, per ricavare quello dei disturbi (cf. VKK 264), è avvenuto invece che il numero di questi ultimi abbia imposto in certa misura una revisione
6 A margine, Kant aggiunge un’ultima forma di alienazione che riguarda nello specifico la memoria («das gerstörte Erinnerungsvermögen»). La chiameremo, per inserirla nella nomenclatura nosologica, confabulazione, un concetto che in psichiatria indica la falsificazione dei ricordi. La descrizione sintomatologica del Versuch sembra corrispondergli appieno: chi ne è affetto è ingannato da «una rappresentazione chimerica di chissà quale condizione passata che in realtà non ci fu mai. Chi racconta dei beni che un tempo avrebbe posseduto o del regno che sarebbe stato suo, mentre riguardo al suo stato attuale non si inganna più di tanto, è un alienato [Verrückter] rispetto alla memoria» (VKK 267).
7 La parte della nomenclatura relativa ai disturbi psichici doveva ritenersi completa con le voci della
«Verrückung», del «Wahnsinn» e del «Wahnwitz» (VKK 265). Va segnalato, comunque, che in questo elenco è assente anche l’Unsinnigkeit.
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dell’altro, dando probabilmente modo a Kant, col passare del tempo, di localizzare nella ragione quella tendenza dell’uomo, che non definirà più, nella prima Kritik, come patologica, ma come «naturale» (KrV A 191, B 237), a eccedere i limiti della sensibilità.
1.6 Le facoltà non sono ancora state differenziate, l’idea di un possibile loro sistema non è ancora stata pensata, eppure già si intravede qual è quella forza che, per effetto della malattia, provoca disordine deviando le altre dal loro giusto corso; che cos’è che, in linea di massima, nello sviluppo delle facoltà conoscitive, nel coltivarne i talenti col proposito di educarle al buon uso, non bisogna permettere che interferisca, che agisca liberamente: l’immaginazione. La malattia ha la propria radice nel corpo, ma è per mezzo dell’immaginazione che diffonde i suoi miasmi all’interno della psiche, lungo il ramo più basso della sensibilità e lungo quello più alto del giudizio 8 . In concomitanza di una passione che la alimenta, o che è essa stessa ad alimentare, l’immaginazione ha il potere di deviare su di sé le differenti forze psichiche, di attrarle a sé per immetterle nella propria rotta sconclusionata. Ciò comincia ad emergere nelle poche pagine del Versuch, per divenire realmente esplicito solo più tardi, nell’Anthropologie. Qui, il Wahnsinner è indotto a prendere per «percezioni» le rappresentazioni che è l’immaginazione stessa a produrre in sé (Anth 215); è indotto, cioè, a travisare buona parte di ciò che gli accade attorno; nel Wahnwitzig è «l’immaginazione che ordisce», sospinta dall’analogia, «l’unità di più cose disparate come un caso generale sotto cui queste rappresentazioni si raccolgono», unità che è però, in fondo, un mero artificio poetico – i fabulatori «poetizzano in modo insulso e si compiacciono della ricchezza di un così esteso collegamento fra concetti secondo loro comprensibili» (ivi); nell’Aberwitzig è una pura e semplice fantasia che la ragione escogita per soddisfare un desiderio irrefrenabile di sapere, il desiderio di
«comprendere l’incomprensibile» (das Unbegreifliche zu begreifen) (ivi); e lo stesso deve dirsi della Verrückung e dell’Unsinnigkeit, anche se la prima è stata sostituita nell’Anthropologie dalla Grillenkrankheit (e ha come unica sottovoce l’ipocondria), e la seconda nomina qualcosa di diverso rispetto al Versuch: non più una mancanza di sensibilità nei riguardi dell’esterno, ma il susseguirsi di rappresentazioni disunite, provocato per l’appunto da un’immaginazione «vivace» (ivi).
Ciò che va temuto dell’immaginazione è quindi, in un certo senso, la sua abilità di trasformista, la sua capacità di assimilare una facoltà a lei estranea e di simularne i contenuti, ampliandone però allo stesso tempo la forma, e, in questa sorta di gonflage, portandola al di là dei limiti delle sue possibilità.
8 La stretta vicinanza dell’immaginazione al corpo è attestata da un brano della Kritik der Urteilskraft, dove Kant si chiede se «i sogni (di cui il sonno non è mai privo, anche se solo di rado ci si ricorda di essi) non possano essere un ordinamento della natura che è conforme a scopi, in quanto nel rilassamento di tutte le forze motrici del corpo, servono a muovere internamente gli organi vitali per mezzo dell’immaginazione e della sua grande attività […], così come inoltre questa gioca di solito con tanta maggior vivacità nel sonno quando lo stomaco è troppo pieno e questo movimento è tanto più necessario, e di conseguenza, senza questa forza motrice interna e questa spossante inquietudine di cui accusiamo i sogni (che forse sono in realtà rimedi naturali), il sonno, perfino nello stato di salute, sarebbe una completa estinzione della vita» (KU 302-303; trad. it. Kant 2011, 213). Il medesimo ragionamento è esposto nell’Anthropologie (cf. Anth 190).
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Le patologie psichiche nel Versuch kantiano del 1764
Sul Versuch über die Krankheiten des Kopfes pesa ancora oggi il giudizio, pressoché unanime tra i commentatori, secondo cui Kant avrebbe individuato l’origine delle malattie mentali nella vita dell’uomo in società, confermando quanto forte fosse su di lui, in quegli anni, l’influenza di J.-J. Rousseau 9 , ma cadendo altresì in una patente contraddizione: se è vero che la follia affonda le sue radici nella società, cioè nell’allontanamento dell’uomo dallo stato di natura, come è possibile che essa sorga, allo stesso tempo, dall’ammalarsi di un corpo10? Mostreremo, qui di seguito, come non sia possibile dedurre dallo spirito rousseauiano dell’opera che Kant abbia voluto presentare nel Versuch un’eziologia sociale delle patologie psichiche; e, di conseguenza, come non sia possibile ravvisare alcuna incertezza, esitazione o contraddizione nel discorso kantiano. Dovremo però, innanzitutto, analizzare le circostanze che hanno visto nascere il Versuch, poiché tali circostanze giocano un ruolo importante nel pregiudizio che sino ad oggi ne ha compromesso la lettura.
J. G. Hamann, direttore delle «Königsbergsche Gelehrte und Politische Zeitungen», pubblica nel 3. Stück del 10 febbraio 1764, antecedente la prima parte del Versuch, un resoconto intitolato Über Jan Pawlikowicz Zdomozyrskich Komarnicki, che narra di un
«avventuriero», un pastore, stanziatosi assieme al figlio di otto anni ai confini della città di Königsberg, nella località di Kalthof, dopo essere stato per lungo tempo «nel così detto Baumwald di Lituania» (Pupi 1998: 25-26). Al resoconto fa seguito un breve Raisonnement di Kant, pubblicato come il Versuch in forma anonima. La presenza, appena fuori città, del pastore Komarnicki stimolò la curiosità della popolazione königsberghese che cominciò con frequenza a visitarlo, sia per osservarne lo stile di vita incolto, sia per ascoltare i passi della Bibbia con cui rispondeva prontamente alle domande che gli venivano poste. È questo l’evento che si ritiene sia all’origine del Versuch: Hamann deve aver sollecitato Kant a esprimere le sue considerazioni in merito a questo personaggio singolare, cui andarono entrambi a far visita, con una «carovana filosofica», la domenica del 5 febbraio (ibid.: 24).
Come riconosciuto da M. Cohen-Halimi (1994: 313-325), il resoconto di Hamann è non poco complesso. Per restituire Komarnicki alla sua verità, in ogni caso incomunicabile, avvolta in un divino mistero, Hamann critica, da una parte, la curiosità maldicente della massa königsberghese che si accalca, giorno dopo giorno, ad osservare il vecchio pastore: siccome «non chiede che d’essere ingannata, [la massa] antepone addirittura la volontà di inganno nei suoi confronti alla stessa capacità di attuarlo» (Pupi 1998: 26); dall’altra, Hamann critica lo stesso Komarnicki, nella misura in cui, per assecondare il pubblico, dà spettacolo di sé e trasforma la sua vicenda di vita in una
9 Cf. Dottarelli 2001; Kisker 1957; Kohns 2007; Papi 1969, 1992; Perez 2009; Rauer 2009.
10 Su quest’ultimo punto hanno insistito in particolar modo Dottarelli (2001) e Papi (1969, 1992). E. Oggionni (2012: 133-134) riconosce che le osservazioni kantiane concludano per un male che risiede nel corpo, ma sostiene che questo avvenga solo in ultimo, dopo aver «smentito» una tesi di stampo sociopatologico.
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«mascherata»: «L’ignoranza di cui fa pompa in molti casi, appare quanto mai dubbia e parimenti mediocre sembra il suo fanatismo» (ivi). C’è nondimeno un altro aspetto del resoconto di Hamann che vorremmo, con Cohen-Halimi, evidenziare. Apparentemente, il resoconto si limita a prender nota di tutta una serie di fatti, puri e semplici: Komarnicki,
«oltre all’orpello della barba va attorno vestito solo di rozze pelli: sempre in ogni stagione a piedi nudi ed a capo scoperto. […] Suo esclusivo nutrimento è latte burro e miele. […] Sua unica occupazione è la cura del bestiame, la lettura della S. Scrittura e l’approntamento di cucchiai di legno» (ivi);
è in pellegrinaggio da cinque anni, deciso a farne altri due, per rispetto a un voto fatto a Gesù Cristo, apparsogli in visione durante un periodo di grave malattia, etc. Ora, agli occhi di Hamann, molti di questi fatti – «l’indigenza, l’ascesi, la metamorfosi» – assumono un’elevata carica simbolica; la vicenda prende come le sembianze di una scena biblica, e così «la figura di Jan Komarnicki si sospende nel tempo e nello spazio per liberare la cifra di una profezia» (Cohen-Halimi 1994: 316), per divenire, cioè, il simbolo stesso del profetismo, della rivelazione, mentre la parola di Hamann che la racconta acquista il valore esemplificativo della parabola.
Se la reazione di Kant a questa vicenda, percepibile nel modo beffardo in cui chiama Komarnicki «fauno ispirato» (AA II: 488), dimostra, una volta di più, quale profonda comprensione egli avesse del rousseauiano «stato di natura», che non andava frainteso con l’auspicio di un retour à la nature, tale reazione dimostra, d’altra parte, come egli non desse per assodato né che un uomo in armonia con la propria Umwelt fosse per ciò stesso immune alle patologie psichiche, né, viceversa, che fosse senza dubbio la vita in società, per molti versi comunque deplorevole, la causa determinante di queste patologie. La semplicità d’animo che conviene alla «semplicità della natura» (VKK 269) può benissimo andare di pari passo con il fanatismo religioso, con la Schwärmerei, la quale, è bene ricordarlo, è annoverata dal Versuch tra le forme di follia, ed è ritenuta, per giunta, la più temibile: «La natura umana non conosce nessuna illusione che sia più pericolosa di questa» (VKK 267)11. L. E. Borowski, che ha reperito il Raisonnement e l’ha accluso in appendice
11 La questione della Schwärmerei ha attraversato tutto il XVIII e parte del XIX secolo tedesco, ed è stata affrontata nei più diversi ambiti disciplinari, dall’estetica alla teologia. In particolar modo, molti sono stati gli sforzi per distinguerla dall’entusiasmo, al cui valore positivo non si voleva rinunciare. Lo stesso Kant insiste su questa distinzione nelle Beobachtungen (GSE 251), nel Versuch (VKK 267) e nella Kritik der Urteilskraft (KU 124-126). Restituire il significato autentico della Schwärmerei, o tentarne una definizione concettuale perentoria, è ai limiti dell’impossibile: il termine soffre di una profonda indeterminatezza semantica, che lo rende però estremamente efficace, prestabile agli usi più disparati. Per rimanere a Kant, ad esempio, l’essere schwärmerisch accomuna i profeti, gli spiritisti, i geni, i folli, i maghi, i filosofi dogmatici… Maometto, Giovanni di Leida, Lao Tze, Swedenborg, Locke, Spinoza, Jacobi… tutti posti sotto il segno dell’eccesso, della smodatezza. D’altra parte, uno strato più antico del significato di Schwärmerei, che risale a Lutero, alla polemica contro gli anabattisti, e al biasimo delle folle esaltate al seguito di sedicenti predicatori, rimanda, invece, alla molteplicità. Coleridge (1907: 19) sosteneva che avesse origine onomatopeica dal ronzio degli sciami d’api. Un’eco di questo senso più remoto è ancora presente in Kant: nell’Anthropologie, egli ammira il carattere che sa prescrivere princìpi pratici alla volontà, poiché, in generale, «agire secondo princìpi fissi», anche se «falsi» o «difettosi», è meglio «che sobbalzare un po’ di qua e un po’ di là come uno sciame
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alla biografia di Kant che si accingeva a pubblicare nel 1804, l’anno stesso della sua morte, l’ha giustamente intitolato Raisonnement über einen schwärmerischen Abentheurer (Borowski 1804: 206). Il che ci porta a fare una considerazione a latere: nelle Beobachtungen, gli Abentheurers – i cavalieri, i crociati, gli eremiti, alla cui schiera appartiene in qualche modo Komarnicki, che Hamann, non a caso, dipinge nel suo immaginario come il «cavaliere errante» (Pupi 1998: 25) – sono sempre anche detti abenteuerlich, stravaganti, degenerazioni caricaturali del sublime (GSE 214). È senz’altro degno di nota come, nel Raisonnement, Kant sposti sin da subito la sua attenzione dallo Ziegenprophet al piccolo figlio di otto anni, e come egli ammiri, di questo «piccolo selvaggio», non solo l’«animo allegro» con cui «ha imparato ad affrontare tutti i disagi delle intemperie», ma anche la «franchezza» del viso, «che non ha nulla dell’attonito imbarazzo che deriva dalla schiavitù, o dall’acribia cui costringe una educazione raffinata», concludendo infine che «il piccolo selvaggio» «è, da quel che sembra, un ragazzo perfetto, così come può desiderarlo un moralista sperimentale, quando sia abbastanza equo da non annoverare le tesi del signor Rousseau fra le belle chimere, prima di averle esaminate» (AA II: 488-489): tuttavia, è altrettanto degno di nota come in questo breve Raisonnement non si faccia alcun cenno alle patologie psichiche, e come, in ogni caso, il «piccolo selvaggio» sembri soltanto essere ciò che il moralista può desiderare, e che forse non sarà mai in grado di trovare. Se Hamann, quindi, vede nel vecchio pastore
«Amos, Michea, Saul, o ancora Noè» (Cohen-Halimi 1994: 316), si capisce bene chi veda Kant nel fanciullo: Emilio. Ma fare di questo Raisonnement un passe-partout per decifrare l’intero testo del Versuch e ritenerlo una prova del fatto che Kant abbia voluto teorizzare un’eziologia sociale delle patologie psichiche, significa fare un passo di troppo. È molto più probabile, invece, che Kant abbia preso nota della malattia cui fece seguito la
«metamorfosi» di Komarnicki, per accreditare la tesi di una possibile origine gastro- intestinale della follia, tesi di cui venne a conoscenza dal periodico «Der Artz», del fisiologo Unzer12:
«Responsabile della metamorfosi di quest’uomo sarebbe una malattia da cui sarebbe stato colpito 7 anni orsono consistente in una affezione gastrica accompagnata da crampi e da emorragie. Dopo un digiuno di 20 giorni essendosi lasciato lusingare da ecclesiastici e parenti a riprendere il cibo, avrebbe avuto una ricaduta: nella quale circostanza si vanta di avere avuto tre apparizioni. Nelle prime due esaltazioni fanatiche pretende di avere veduto il Cristo in minima immagine e di averlo visto invece nella terza in completa misura d’uomo: stillante sangue e avvolto da un’aureola di luce…» (Pupi 1998: 26).
È opinione comune che Kant, nel Versuch, non abbia semplicemente espresso una dura condanna alla società civile, nella quale vedeva diffondersi in misura sempre maggiore l’apparenza, l’artificio e le cattive passioni, ma che abbia altresì individuato in
[Mückenschwarm]» (Anth 292). Alla repulsione nei confronti della molteplicità si unisce poi il terrore della diffusione epidemica, del contagio: vedi la lettera che Kant scrive a Borowski nel marzo del 1790 (Br 141- 143), dove la Schwärmerei è paragonata al «catarro russo». Per una panoramica storica della questione rimandiamo ai lavori di Büttgen (2002), Conrad (2008) e La Vopa (1997).
12 Kant fa riferimento ai numeri 150, 151 e 152 (VKK 270).
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essa la causa dell’insorgere della follia nell’uomo, peccando però in tal modo di incoerenza per essersi allo stesso tempo attenuto alle conoscenze psichiatriche della sua epoca che ne individuavano il focolaio morboso nel corpo13. Kant, è vero, non esprime un giudizio favorevole nei confronti delle complicazioni che le abitudini sociali impongono nel gusto, nella scienza e nella morale. La ricercatezza, i cerimoniali, il ragionamento prolisso (già criticato, due anni prima, nei sillogismi di tipo misto) degenerano facilmente in «tecniche della finzione» (falsche Kunstgriffe) che alimentano «inganni» (Betrüge), «disonestà» (Schelmerei), «scaltrezza» (Verschmitzheit), «furbizia» (Schlauigkeit) (VKK 259-261), senza contare le cattive inclinazioni cui danno seguito, e al servizio delle quali, anzi, si mettono. In questo senso, nella critica all’«opulenza», alla «ricchezza»14, non bisognerebbe leggervi, come invece saremmo portati a fare dalla nostra prospettiva tardo-moderna, una critica all’accumulazione inerte, al mero possedere, ma una critica alle complicazioni che essa comporta: più l’artificio cresce, più esso si arricchisce, più aumentano i termini per cui si deve passare, e questo vale per tutto, per le azioni morali così come per le belle arti e le conoscenze razionali. Foucault ha osservato giustamente che il XVIII secolo vive con un certo timore il moltiplicarsi delle mediazioni lungo le quali l’immediatezza, quella che Kant chiama «semplicità» (Einfalt), va perdendosi (Foucault 2008: 312-316)15. Tuttavia, se Kant esprime il suo dissenso nei confronti di tali abitudini sociali, non lo fa nella convinzione che queste, promuovendo ingegni sottili, amatori dell’arte, mentecatti e truffatori, creino le condizioni materiali per il prodursi della follia. Egli non si dilunga nella descrizione di talune maschere sociali né perché identifica in esse le cause determinanti delle patologie psichiche, né perché vi identifica le cause coadiuvanti, ma solo perché vi riconosce il preludio di qualcosa che è già in corso e il cui arrivo a destinazione è imminente. In linea di massima, non è possibile ravvisare alcuna incertezza, incoerenza o contraddizione nell’analisi eziologica kantiana – che si tratti di un suo vacillare tra il corpo e la società (Dottarelli 2001: 27; Papi 1969: 189-195; 1992: 15-16) o tra il cervello e l’apparato digerente (Desideri 1999-2000: 27) –, per il semplice motivo che nel Versuch, contrariamente a quanto hanno affermato pressoché tutti coloro che si sono occupati di questo testo, non c’è niente che voglia anche solo avvicinarsi a un’eziologia delle patologie psichiche:
«Ho inoltre prestato attenzione solo alle manifestazioni [Erscheinungen] [delle malattie] nell’animo, senza volerne scrutare la radice, che, a dire il vero, risiede certamente nel corpo, e che, per la precisione, ha la sua sede centrale più nell’apparato digerente che nel cervello…» (VKK 270).
13 Cf. supra, nn. 8-9.
14 Kant la ripropone nell’Anthropologie, dove sostiene che la «ricchezza della mente» e «l’ingegno fiorente» producono soltanto «vuote sofisticherie» e «vani sofismi»; non son altro che un «gioco», «una specie di lusso della mente» (Anth 201).
15 L’Einfalt, detta anche Naivetät, «questa nobile e bella semplicità che porta su di sé il sigillo della natura e non dell’artificio» (GSE 224), non va confusa con l’Einfältigkeit, l’ebetismo. Su questa distinzione, cf. Anth 210.
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Le patologie psichiche nel Versuch kantiano del 1764
E se si replica dicendo che proprio in queste righe Kant ne fornisce in verità una, quando parla del corpo e dell’apparato digerente, bisognerebbe prima aver chiaro che cosa significhi eziologia: non lo studio della sede della malattia, ma lo studio delle sue cause, e dire che una malattia ha sede nell’apparato digerente non significa ancora averne identificato la causa determinante. Nel Versuch si osserva, si nomina e, tutt’al più, si descrive: niente viene provato, niente viene dimostrato.
Rispetto a quanto sostenuto da Foucault, sotto la cui autorità gli studiosi italiani si sono posti con eccessiva sicurezza16, il Versuch di Kant rappresenta un’eccezione. L’«ambiente umano», ossia «l’ambiente costituito attorno all’uomo e dall’uomo», non è l’«a priori concreto di ogni possibile follia» (Foucault 2008: 316): è già follia. Se Kant sente il bisogno di stilare un secondo elenco a completezza della sua nomenclatura nosologica, ciò è dovuto al fatto che la società fa già mostra di certi sintomi, di certi effetti patologici. Entrambe le linee tracciate dal Versuch, la psicosociale e la biopsichica, riguardano solamente ciò che sussegue all’ammalarsi di un corpo; ne ordinano gli effetti sui due piani rispettivi dell’esterno e dell’interno. Il passaggio dall’uno all’altro, poi, non dipende da un rapporto di causalità, ma da un incremento di grado, dall’intensificarsi di qualcosa che agisce al di sotto di entrambi. M. David-Ménard (1990: 7-44) ha richiamato l’attenzione su come l’occhio clinico di Kant percepisca persino in tanta presunta normalità una follia non di molto affievolita. Ciò è evidente nel caso dell’«alienazione» (Verrückung), che ci rende tutti, «anche nella condizione più sana», dei «fantasticatori» (Phantasten) (VKK 264-265), in quanto sovraimprimiamo le nostre immaginazioni alle sensazioni provenienti dal mondo esterno.
Ma, allora, perché la ricca artificiosità della società civile è nociva? In che modo
«conduce» alle patologie psichiche?
La società, Kant lo dice espressamente, «non produce» (nicht hervorbringen) quei mali di cui le patologie psichiche sono la manifestazione più accesa, ma costituisce per essi un
«Gährungsmittel», un lievito, un agente di fermentazione, nella misura in cui essa li
«mantiene» (unterhalten), cioè li sostenta, e li «ingigantisce» (vergrößern) (VKK 269). Tutto ciò sta a significare che se la società fornisce determinate condizioni favorevoli, essa non le fornisce tanto alla malattia in sé, quanto a certe sue manifestazioni – le psichiche. E queste condizioni sono costituite proprio da quel mondo dell’artificio, della maniera, dello spirito (Witz), che apre uno spazio, in altri tempi e in altri luoghi impensabile, per le libere manifestazioni della follia, spazio in cui essa ha tanto più modo di apparire, di produrre i suoi effetti e i suoi giochi di luce, quanto più esso è saturo, costruito, ricco di mediazioni. In tal senso, il verbo «vergrößern», se lo si dovesse tradurre con «incrementare», o con
«accrescere», così come è stato fatto fino ad oggi, farebbe intendere che le abitudini sociali
16 Salvo poi rivolgergli un appunto non privo di una certa malizia: nella Storia della follia non si parla mai del Versuch kantiano. Non ne era a conoscenza? Se ne è dimenticato? Credo però che si debba tener conto del fatto che l’opera è stata tradotta e pubblicata in Francia per la prima volta solo nel 1977 – ne «L’évolution psychiatrique» –, sedici anni dopo la prima edizione della Storia della follia.
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agiscano direttamente sulla malattia, aumentandone il grado d’intensità, e dunque esacerbandola, mentre invece esse le danno soltanto risonanza, le consentono di espandere il suo riverbero per tutta l’ampiezza dei costrutti sociali e del sistema dispiegato delle facoltà conoscitive.
«Se si presta soltanto un po’ d’attenzione agli esempi ci si accorge che dapprima è il corpo a soffrire e, sviluppandosi inosservato il germe della malattia, si avverte solo un’ambigua stranezza che non lascia supporre ancora un disturbo dell’animo, e che intanto si manifesta in stravaganti grilli amorosi, o in una personalità piena di sé, oppure in un pensoso e inutile rimuginare. Solo col tempo la malattia erompe [ausbrecht] e induce a vederne la ragione in quello che era lo stato dell’anima immediatamente precedente. Tuttavia, si dovrebbe dire che un uomo è divenuto arrogante [hochmüthig] perché era già in certo grado disturbato, e non che sia ora soggetto a un disturbo perché è stato tanto arrogante» (VKK 270-271).
In questo passo c’è tutto: il seme della malattia che mette le radici nel corpo, il germoglio che spunta nell’animo sotto forma di arroganza, dandogli l’aspetto risibile del matto – l’arroganza, infatti, è una delle passioni su cui poggia la Narrheit –, lo schiudersi della malattia nella forma del vaneggiamento (Wahnsinn) – sappiamo, infatti, che «un arrogante [Hochmüthiger] è in certa misura un vaneggiatore [Wahnsinnig]» (VKK 268) –, e, infine, l’errore di attribuire all’arroganza, ovvero alla Narrheit, la causa del vaneggiamento, fermandoci a metà strada senza giungere all’effettivo punto d’origine che risiede precisamente nel corpo.
La conclusione del Versuch, che è passata agli occhi di molti per un’apologia del bon sauvage, a maggior gloria di Rousseau, non intende mostrare come l’uomo ridotto allo stato di natura sia necessariamente più sano, ma come manchi di quello spazio, che solo una cultura avrebbe potuto fornirgli, in cui gli effetti della sua malattia possono a modo loro, e nella loro tipica tonalità, manifestarsi. Come potrebbe il selvaggio essere un fabulatore (Wahnwitzig), o uno stravagante (Aberwitzig), senza essere cresciuto tra gente dotata di spirito (Witz), senza che lo si sia educato all’intelligenza e al giudizio sopraffino? Ciò non esclude che il seme della malattia possa attecchire sul suo corpo. In lui, una volta ammalatosi, ci sono invero degli effetti in grado di apparire. Questi effetti, scrive Kant, sono due, e due soltanto: «Se malato di mente egli sarà o stupido [blödsinnig] o forsennato [toll]» (VKK 269). Il motivo è evidente: nel primo caso si tratta di una patologia deficitaria, che inabilita determinate funzioni psichiche – e perché ciò sia possibile non è richiesta civilizzazione di alcun tipo –; nel secondo caso si tratta di un sintomo che è lo stesso corpo a manifestare – un’agitazione convulsa, un accesso di violenza che coglie l’individuo sopraffatto dalla furia.
È merito di O. Meo l’aver per primo riconosciuto che in Kant lo stato di natura non è necessariamente sinonimo di sanità mentale (Meo 1982: 34-35, ma cf. anche Panarra 2010: 201-212), correggendo in tal modo l’interpretazione che ne hanno dato alcuni storici della
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medicina psichiatrica, frettolosi di farne il precursore della moderna psicologia genetica17. Meo ne ritrova però la ragione nel fatto che la malattia mentale non potrebbe colpire quelle facoltà di cui l’antropologia kantiana priverebbe ipso facto il selvaggio sulle basi di una supposta inferiorità razziale, come se la natura non fosse stata altrettanto prodiga con lui che con un qualunque citoyen (Meo 1982: 35). Ma poco importa che una psiche sia più o meno fertile, più o meno talentuosa: essa non è mai colpita direttamente dalla malattia, pur non essendo vero che ne resti, comunque vada, illesa. Bisogna piuttosto affermare che, a seconda dell’estensione psichica del singolo individuo, a seconda del livello di sviluppo organico delle sue facoltà, la malattia guadagna un certo campo di apparizione che sarà più o meno ricoperto, più o meno alterato, in base al grado di intensità con il quale essa alligna nel corpo.
Esiste, insomma, una malattia la cui sostanza materiale è capace di appropriarsi della psiche come dello spazio supplementare in cui far mostra di sé dando luogo a tutto un insieme particolare di sintomi, nel quale soltanto si dovrebbe far consistere ciò che prende il nome di follia.
AA = Akademie-Ausgabe
Anth = Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (AA VII) Br = Briefwechsel (AA X-XIII)
DfS = Die falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren erwiesen (AA II) GSE = Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (AA II)
KrV = Kritik der reinen Vernunft (AA III-IV) KU = Kritik der Urteilskraft (AA V)
Refl = Reflexion (AA XIV-XIX)
TG = Träume eines Geistersehers, erläutert durch die Träume der Metaphysik (AA II) VKK = Versuch über die Krankheiten des Kopfes (AA II)
17 «[…] Kant avanza l’ipotesi che la malattia mentale abbia qualcosa a che fare con l’influenza che esercitano sull’uomo le esigenze vitali, con le richieste che gli derivano dall’ambiente che lo circonda, o con la frustrazione a cui lo sottopongono. Questo pensiero, come molti altri espressi casualmente e frettolosamente dalle menti più illustri, fu compreso e apprezzato solo molte generazioni dopo. Non fu chiarito, e l’uomo primitivo non diventò argomento di particolare attenzione da parte dello psichiatra, fino al XX secolo, quando studi di psicologia genetica gettarono piena luce su tutte le malattie mentali, dalle neurosi più miti alle rovinose schizofrenie. Kant immaginò l’uomo primitivo mentalmente sano, cioè del tutto in armonia con il suo ambiente…» (Zilboorg, Henry 1963: 271).
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CON-TEXTOS KANTIANOS
International Journal of Philosophy N.o 7, Junio 2018, pp. 234-251
ISSN: 2386-7655
Doi: 10.5281/zenodo.1299098
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