CON-TEXTOS KANTIANOS.
International Journal of Philosophy
N.o 8, Dicembre 2018, pp. 303-318
ISSN: 2386-7655
Doi: 10.5281/zenodo.2383565
Uso logico e uso reale della ragione: origine e ruolo regolativo delle idee
LORENZO SALA*
Università degli Studi di Pisa, Italia
In questo articolo si analizzano congiuntamente l'origine delle idee e il loro uso regolativo. A questo scopo si comincia considerando la connessione tra uso logico della ragione e definizione della ragione in generale come facoltà dei principi. Si considera poi come la rappresentazione di un incondizionato derivi necessariamente dall'uso logico, e come quindi questo implichi necessariamente un uso reale della ragione. Si considera poi come le varie rappresentazioni dell'incondizionato diano origine alle idee trascendentali. Infine, si considera l'uso regolativo delle idee alla luce della pratica di inferire dal quale derivano.
Ragione, idee, incondizionato, uso logico, uso reale, uso regolativo
In this article I jointly analyse the origin of the ideas and their regulative use. In order to do this, I first consider connection between the logical and the real use of reason, and the definition of reason in general as “faculty of principles”. On these grounds, I then explain how the representation of something unconditioned necessarily derives from the logical use of reason, that is, how the real use of reason follows naturally from its logical use. Thereafter, I consider how the representation of the unconditioned gives rise to the three transcendental ideas. Finally, I consider the regulative use of ideas in light of that logical use of reason from which they arise.
*
Università di Pisa. Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, lorenzo7sala@gmail.com
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Lorenzo Sala
Reason, ideas, unconditioned, logical use, real use, regulative use
Per comprendere l'esigenza teorica da cui questo contributo prende le mosse può essere utile considerare la frase con cui si apre la prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura:
La ragione umana, in un genere delle sue conoscenze, ha un destino particolare: quello di essere gravata da questioni che essa non può evitare, poiché le sono assegnate dalla sua stessa natura di ragione, ma a cui non può nemmeno dar risposta, poiché tali questioni oltrepassano ogni potere della ragione umana. (KrV AVII)1
Il senso della parte finale di questo periodo è, almeno in linea generale, forse l'aspetto della filosofia di Kant sul quale si ha in assoluto il maggior consenso. Mostrando come la ragione, nella sua veste teoretica, non possa travalicare il campo dell'esperienza possibile, Kant decreta come irrisolvibili alcune delle questioni classiche della metafisica tradizionale. Essendo infatti le idee concetti di oggetti che non possono esser dati nell'esperienza, le domande su essi sono destinate a rimanere senza risposta: se l'anima sia immortale o meno, il mondo retto dal meccanismo, o Dio esista o meno, son questioni irrimediabilmente oltre la portata dei poteri conoscitivi della ragione.
Per quanto riguarda la prima parte di questo periodo la situazione è invece ben diversa: la questione di come certe questioni siano assegnate alla ragione dalla sua stessa natura, è infatti solitamente meno considerata e, anche quando questo vien fatto, la spiegazione kantiana (ovvero la sua teoria di come la ragione dovrebbe arrivare a partorire proprio quelle idee di anima, Dio e mondo che vengono trattate nella Dialettica) è considerata estremamente problematica.2 Questo secondo nucleo tematico – ovvero, la domanda su come si debba comprendere il fatto che la ragione giunga “per sua natura” a queste idee –
1
Per la Kritik der reinen Vernunft, Utilizziamo la traduzione italiana a cura di Costantino Esposito (Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2007). Esposito si avvale dell’edizione di W. Weischedel, Immanuel Kant. Werke in sechs Bänden, Insel Verlag, Wiesbaden 1956 (rist. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983). Nel prosieguo utilizzeremo lo stile di citazione più diffuso, ovvero utilizzando la sigla KrV, seguita da “A” o “B” (rispettivamente, per l'edizione del 1781 e 1787), e relativo numero di pagina. L’edizione generale di riferimento per le opere di Kant è invece Gesammelte Schriften. Akademie Ausgabe, Bd. 1-22 hrsg. von der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Bd. 23 von der Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, ab Bd. 24 von der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen, De Gruyter, Berlin 1910 –.
2
Tralasciando il tranciate giudizio di Bennet – “Kant's theory about how reason generates the problems treated in the Dialectic […] is a bad one” (Bennet,1974, 258) – un esempio più equilibrato è quello di Ameriks (Ameriks 2006, pp. 274 – 278).
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Uso logico e uso reale della ragione
rappresenta lo scopo principale di questo articolo. Contestualmente alla risposta a questa domanda, si vuole poi illuminare un aspetto riguardante il ruolo positivo nella conoscenza, ovvero come questo ruolo positivo faccia tutt'uno con l'uso logico della ragione, da cui le idee nascono. In particolare, per quanto in molti studi si sottolinei ormai come le idee abbiano appunto anche un ruolo positivo, che consiste nel dare unità all'operare dell'intelletto, rimane poi vago come questo avvenga in concreto, ovvero come si sostanzi nella pratica del giudicare.
In questo elaborato mi occuperò quindi congiuntamente di queste due questioni, ovvero dell'origine e del ruolo che le idee hanno per Kant nella nostra esperienza. In particolare, cercherò di mostrare come la concezione kantiana della ragione come facoltà di inferire sia la radice comune di queste due problematiche, e come quindi permetta una comprensione profonda e unitaria delle stesse.
Per fare questo, nella prima sezione comincerò considerando la seconda sezione dell'Introduzione alla Dialettica Trascendentale e considererò la distinzione tra “uso logico” e “uso reale” di una facoltà a cui Kant si richiama, mostrando la sua importanza per comprendere l'origine delle idee. Successivamente, nella seconda sezione, considererò l'uso logico della ragione e la relativa definizione della stessa come “facoltà di inferire”, mostrando la sua connessione con la definizione generale di ragione come “facoltà dei principi”. Su queste basi, nella terza e quarta sezione mostrerò, rispettivamente, come la rappresentazione di un incondizionato sia un correlato necessario dell'attività prosillogistica della ragione e, poi, come questo incondizionato sia da identificarsi nelle tre idee trascendentali che Kant espone nel Sistema delle idee trascendentali. Infine, nella quinta e ultima sezione, illustrerò come il ruolo regolativo delle idee faccia un tutt'uno con la pratica del ricondurre a unità le regole di cui le idee stesse sono un correlato, mostrando quindi in cosa consista, in concreto, tale ruolo regolativo.
Per considerare la questione dell'origine delle idee è utile iniziare dalla seconda sezione dell'Introduzione alla Dialettica Trascendentale. Se non è infatti in questa sezione che Kant introduce la nozione di idea e in particolare le idee trascendentali, è qui che conduce un'indagine fondamentale per comprendere a pieno il legame che c'è tra l'origine delle idee e il loro ruolo positivo. È infatti in questa sezione che, dopo aver introdotto nella prima la nozione di parvenza trascendentale, Kant conduce quell'indagine sulla ragione che ci spiega perché è proprio ad essa che vanno ricondotte le idee.3 La sezione in questione, intitolata “Della ragion pura come sede della parvenza trascendentale”, è a sua volta tripartita in tre sottosezioni, “Della ragione in generale” Dell'uso logico della ragione” e “Dell'uso puro della ragione”. Essa si apre con un parallelismo tra ragione e intelletto particolarmente utile per addentraci nel problema:
Sulla nozione di “parvenza trascendentale” si veda Grier 2001.
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Della ragione, come dell'intelletto, vi è un uso semplicemente formale, vale a dire un uso logico, in quanto la ragione astrae da ogni contenuto della conoscenza; ma vi è anche un uso reale, nella misura in cui la ragione stessa contiene l'origine di certi concetti e principi, che essa non trae né dai sensi né dall'intelletto (KrV A299/B355)
La distinzione tra uso logico e reale di una facoltà a cui Kant qui rimanda è una distinzione che egli già utilizzava già nella Dissertazione del '70, in cui la stessa è spiegata più diffusamente. Già allora, con “uso logico” di una facoltà era individuato in quello riguardante le relazioni logiche tra concetti, in particolare quello con il quale – nel caso dell'intelletto – “soltanto sono subordinati tra loro concetti dati, ovvero gli inferiori ai superiori (tramite le note comuni), e sono confrontati tra loro secondo il principio di contraddizione” 4 : facciamo quindi un “uso logico” dell'intelletto quando giudicando, sussumiamo un concetto sotto un altro, uso che può essere appunto detto “formale” (KrV A299) in quanto riguarda non tanto il materiale del giudizio (ovvero, le rappresentazioni che compongono il giudizio) quanto la loro forma, ovvero quelle relazioni che intercorrono tra le rappresentazioni unite nel giudizio e che vengono appunto considerate dalla logica generale, che è per questo formale.5
L'uso reale è invece di tutt'altro tipo e, anche in questo caso, la Dissertatio è particolarmente chiara a riguardo: “prima di tutto è bene notare che l'uso dell'intelletto, ovvero della facoltà conoscitiva superiore, è doppio: di cui, tramite il primo, che è l'uso reale, sono dati i concetti tanto delle cose che delle relazioni”6. Differentemente dall'uso logico, l'uso reale non consiste tanto nel dare forma al rapporto tra rappresentazioni altrimenti date (nel porle in certe relazioni), quanto nel fornire la materia stessa, ovvero nel produrre rappresentazioni. Riguardo a questa produzione, è particolarmente importante notare come l'uso reale non concerna, semplicemente, la formazione dei concetti in generale, ma sia quell'uso in cui i concetti vengono dati “tramite la stessa natura dell'intelletto”7, ovvero, a partire dalla natura stessa della facoltà in questione: è infatti per questo motivo che, per esempio, la formazione di un concetto empirico, per quanto sia tanto una produzione di un concetto che un qualcosa che vede l'intelletto protagonista non è un esempio di uso reale dell'intelletto: il concetto in questione non deriva infatti dal solo intelletto.8 È chiaramente a quest'ultimo tipo di uso, che, in particolare, Kant è interessato nella dialettica trascendentale. In particolare, come già fatto nell'estetica e nell'analitica per sensibilità e intelletto, Kant intende infatti ora sottoporre anche la ragione a scrutinio: 1) per indagare se di essa se ne dia un uso reale (ovvero: se contenga rappresentazioni a priori); 2) per enumerare, in caso di risposta affermativa alla prima domanda, queste
(Dissertatio AA 2:393), traduzione nostra.
Sulla concezione kantiana della logica si veda l'ottimo Capozzi 2002, in particolare pp. 185 – 220. Per quanto riguarda invece la formalità della logica, si veda McFarlane 2000.
2:393, traduzione nostra. Sul concetto di respectus e la sua importanza per l'uso logico della ragione, si veda Schulthess 1981 (in particolare pp. 61-62).
(Dissertatio AA 2:293), Traduzione nostra.
Sulla formazione dei concetti in generale, si veda l'eccellente Vanzo 2012.
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Uso logico e uso reale della ragione
rappresentazioni 3) per considerare, come propostosi fin dalla famosa lettera a Herz del '72 e come già fatto in estetica e analitica, se queste rappresentazioni a priori abbiano un valore oggettivo o meno.9
È quindi chiaro che per indagare l'uso reale della ragione, nella prima parte della Dialettica, come già fatto nell'Analitica trascendentale, Kant debba cercare di fornire una enumerazione completa dei concetti a priori che hanno origine in una facoltà – in questo caso la ragione – sulla base della natura della facoltà stessa. Se quindi, nell'Analitica, Kant riusciva ad individuare una definizione generale dell'intelletto e quindi indagarne l'uso reale (ovvero ad enumerarne i concetti puri) sulla base del suo uso logico, all'inizio della Dialettica Kant si imbarca in un'operazione analoga: quella di trovare una definizione generale della ragione per poi rinvenire i suoi concetti puri (le idee) sulla base del suo uso logico.10 Mentre nell'Analitica il punto chiave consisteva nella definizione dell'intelletto “in generale” come “facoltà di giudicare [Vermögen zu urteilen]” (KrV A69/B94)11 sulla base del fatto che i concetti si basano su “l'operazione che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune”(KrV A68/B93), nella Dialettica la connessione fondamentale è quella tra la ragione nel suo uso logico e il concetto generale della ragione, ovvero quella tra la ragione come “facoltà di inferire mediatamente” (KrV A299/B355)12 (sillogizzare) e la stessa come “Vermögen der Prinzipien” (KrV A299/B356) e, più specificamente, come “facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sotto principi”(KrV A302/B359).
Il modo più semplice per comprendere la connessione tra le due summenzionate nozioni di ragione – ovvero, quella logica di “facoltà di inferire mediatamente” e quella generale di
Questo schema interpretativo tripartito, che qua adottiamo, è proposto e difeso brillantemente in Förster 2012 (pp. 6-7) . A proposito della procedura investigativa in esso illustrata, è opportuno notare come un'indagine analoga a quella a cui Kant sottopone la sensibilità, l'intelletto (sensu strictu) e poi, come vedremo, la ragione, è compiuta da egli anche riguardo alla Facoltà di Giudicare. Per quanto concerne quest'ultima facoltà, però, nella Analitica dei principi della Critica della Ragion Pura, Kant risponde negativamente alla prima delle tre domande sopraindicate, negando quindi alla facoltà di giudicare un uso reale, e non avendo conseguentemente bisogno di alcuna deduzione trascendentale. Com'è noto, però, negli anni successivi alla pubblicazione della prima Critica egli cambierà opinione, e individuerà nel concetto di Zweckmässigkeit un concetto prodotto specificamente dalla facoltà di giudicare, anch'esso bisognoso di una sua deduzione trascendentale ed al centro della terza Critica kantiana. Sul sorgere di questa problematica e il relativo mutamento del quadro sistematico kantiano, si veda Sala 2018.
Cfr. KrV A67-69/B92-95. Su questa operazione nell'Analitica e il relativo concetto di “deduzione metafisica” si veda Caimi 2000.
È fondamentale non confondere l'intelletto (Verstand) come Vermöge zu urteilen con la facoltà di giudicare come Urteilskraft: per quanto infatti la definizione kantiana dell'intelletto come facoltà di giudicare possa risultare ambigua, intelletto e Urteilskraft rimangono due facoltà separate. Sulla definizione dell'intelletto come “facoltà di giudicare” si veda Wolff 1995 pp. 87-120.
Si noti che Kant utilizza “inferire mediatamente” in quanto intende considerare quelle inferenze che richiedono due premesse: quelle inferenze che non le richiedono (p. es. l'inferenza di “alcuni uomini sono mortali” da “tutti gli uomini sono mortali”) sono per Kant da attribuirsi all'intelletto. Su questa differenza, cfr. Logica, it 107-108 ( AA 9:114).
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“facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sotto principi” (KrV A302/B359) – è quello di considerare la ragione nel suo uso logico in relazione alla nozione logica – “comune” – di principio, da Kant introdotta appunto appena dopo aver definito la ragione come facoltà dei principi.
Per quanto riguarda l'inferire mediatamente, esso è definito in modo simile durante tutto l'arco del suo insegnamento logico. Ad esempio, nella Logik Jäsche, il sillogismo è definito come “la conoscenza della necessità di una proposizione mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola universale data” (Logica it. 112, AA 9:120)13, e la sua struttura è così illustrata:
Di ogni inferenza della ragione fanno parte i seguenti tre elementi essenziali:
una regola universale che viene detta la maggiore (propositio maior),
la proposizione che sussume una conoscenza sotto la condizione della regola universale e che si chiama la minore (propositio minor) (Logica it. 113, AA 9:120)
Prendiamo come esempio il sillogismo “tutti gli uomini sono mortali, gli ateniesi sono uomini, gli ateniesi sono mortali”: in questo caso “gli uomini sono mortali” è la “regola universale data” e, “essere uomo” è la condizione della regola: è in base appunto alla sussunzione di “Ateniesi” sotto la condizione “essere uomo” che, in questo caso, conosco la mortalità degli ateniesi.
Su queste basi è facilmente comprensibile anche la prima nozione di principio che Kant introduce:
L'espressione principio ha un duplice significato: comunemente indica una conoscenza che può essere utilizzata come principio, sebbene in se stessa, e considerata nella sua origine, sia proprio un principium. Ogni proposizione universale, persino qualora sia derivata dall'esperienza (tramite induzione), può servire come premessa maggiore di un sillogismo, ma non per questo essa stessa un principium (KrV A300/B357)
La prima delle due definizioni di principio non è che la ripresa della nozione di principio utilizzata nel manuale del Meier su cui Kant insegnava: in questo senso, principio è semplicemente qualsiasi conoscenza che possa essere usata come premessa maggiore in un sillogismo: ad esempio, nel sillogismo sopracitato, il giudizio “tutti gli uomini sono mortali” costituisce il principio in base al quale io conosco, grazie alla loro sussunzione sotto la connessione, che gli ateniesi sono mortali.14 Chiaramente questa è una definizione di principio puramente formale, ovvero non concerne tanto il giudizio in quanto tale e i
Cfr. Logik Blomberg AA 24:282, Dohna Wundlacken AA 24:771.
Come possiamo leggere nel §356 dell'Auszug “quel giudizio che in un'inferenza della ragione è ottenuto da altri è la conclusione (conclusio, probandum, principiatum). Invece, i giudizi da cui è derivata la conseguenza sono le premesse (praemissae, data, sumtiones, principia)” (Traduzione nostra). (Meier 1752,
§356, p. 99).
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concetti che vi figurano, quanto il ruolo che il giudizio in questione ha in un sillogismo: riprendendo il nostro esempio precedente, il giudizio “tutti gli uomini sono mortali” potrebbe figurare come conclusione in un altro sillogismo, in cui viene derivato dalla natura animale dell'uomo e dalla mortalità di tutti gli animali.
In base a questa definizione di “principio” derivata direttamente dall'uso logico della ragione si può facilmente comprendere la definizione di questa come la “facoltà dell'unità delle regole sotto principi”. Se l'inferire sillogistico può infatti essere considerato come un modo per derivare delle conoscenze a partire da premesse (principi in senso logico), esso può essere concepito anche in senso opposto, ovvero come un modo per ricondurre molti giudizi a uno solo, che ne costituisce appunto il principio, ricercandone le condizioni: tornando ancora al nostro esempio precedente, riconducendo la mortalità dell'uomo alla sua condizione, ovvero la sua natura animale, unifico la regola “tutti gli uomini sono mortali” con tutte le regole analoghe che soddisfano la stessa condizione, ovvero il riguardare animali. In questo modo, tramite l'individuazione di una condizione, ottengo l'unificazione di molte diverse conoscenze (p. es. “i leoni sono mortali”, “i cani sono mortali”, etc.) sotto un principio (“gli animali sono mortali”), ovvero quella “unità delle regole sotto principi” che costituiva la definizione di ragione.
Comprese dunque la definizione generale della ragione sulla base del suo uso logico, possiamo finalmente rivolgerci all'uso reale della stessa. Come abbiamo osservato, essendo responsabile delle inferenze immediate, la ragione ha un duplice ruolo: quello di produrre inferenze, andando dall'universale al particolare, e quello di ricondurre diversi giudizi a un principio comune, unificando così in questo modo le varie regole altrimenti date; è su questo secondo ruolo della ragione che dobbiamo concentrarci per comprendere l'origine dell'uso reale della ragione.
Come Kant osserva, il processo di unificazione delle regole tramite ricerca di condizioni, è un processo reiterabile. Condotta una qualche regola a un'altra che ne è quindi il “principio in senso logico” di cui abbiamo detto sopra, “questa regola, a sua volta è sottoposta allo stesso tentativo della ragione, e con ciò deve essere cercata, fin quando è possibile (per mezzo di un prosyllogismus) la condizione della condizione” (KrV A308/B364)15. Emerge così un ulteriore parallelismo tra intelletto e ragione come, rispettivamente, “facoltà dell'unità dei fenomeni secondo regole” e “facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sotto principi” (KrV A302/B359): se l'intelletto “è sempre occupato ad investigare i fenomeni allo scopo di trovare in essi una qualche regola” (KrV A 126)16 si può dire che la ragione è
Primo corsivo nostro. Sulla nozione di prosillogismo, si veda Logica it. 128 (AA 9:134): “Nella serie delle inferenze composte si può concludere in due modi diversi: o scendendo dai fondamenti alle conseguenze, o risalendo dalle conseguenze ai fondamenti. La prima cosa ha luogo per episillogismi, la seconda per prosillogismi”. La procedura prosillogistica non è altro che la riconduzione delle regole a principi sempre più alti tramite la ricerca di condizioni superiori.
Traduzione modificata.
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sempre occupata ad investigare le regole dell'intelletto allo scopo di trovare per esse un qualche principio. Dato quindi un qualsiasi giudizio, la ragione lo sottopone al tentativo di ricondurlo a un giudizio superiore: tornando al nostro esempio precedente, dato il giudizio “gli ateniesi sono mortali”, la ragione ricerca una condizione in base al quale questo principio possa essere ricondotto (con altri) a un giudizio superiore che ne è così principio; in questo caso, la condizione era “gli ateniesi sono uomini” e il principio “gli uomini sono mortali”. Come abbiamo visto, la procedura è reiterabile e, in base a quanto emerso, sempre reiterata, almeno come “tentativo”: ancora nel caso dell'esempio, “gli uomini sono mortali” è ricondotto a “tutti gli animali sono mortali” sulla base della condizione “gli uomini sono animali”.
Per comprendere il sorgere delle idee, possiamo ora considerare cosa possa soddisfare questa ricerca di unità in principi della ragione, ovvero chiedersi cosa significherebbe effettivamente per la ragione ottenere il suo scopo: è infatti questo il nodo concettuale al centro di quel “principio proprio della ragione” da cui sorgono le idee considerate nella Dialettica. Questo principio è introdotto subito dopo la considerazione dell'operare prosillogistico della ragione che abbiamo appena considerato:
“il principio proprio della ragione in generale (nell'uso logico) è di trovare per le conoscenze condizionate dell'intelletto quell'incondizionato con cui venga compiuta l'unità della conoscenza stessa. Questa massima logica non può divenire in altro modo un principio della ragion pura, se non ammettendo che, se è dato il condizionato, è data anche […] l'intera serie delle condizioni subordinate le une alle altre; la quale serie è perciò essa stessa incondizionata. Un tale principio della ragion pura è però evidentemente sintetico; poiché se è vero che il condizionato si riferisce analiticamente a una qualche condizione, non si riferisce tuttavia all'incondizionato. (KrV A307-8/B364)
Riguardo a questo passaggio, è da notarsi non solo che il fatto che principio logico della ragione prescriva di “trovare l'incondizionato” pare a prima vista un'assurdità, ma anche che, poche righe dopo averlo affermato, pare essere Kant stesso a smascherarne l'infondatezza: “se è vero che il condizionato si riferisce analiticamente a una qualche condizione, non si riferisce tuttavia all’incondizionato” (KrV A308/B364). In altre parole, se è vero che per ricercare un qualche principio al quale ricondurre un certo giudizio io devo rappresentarmi questo giudizio come dipendente da esso, questo non sembra implicare né un qualche rapporto a un giudizio incondizionato.
Per comprendere come questa insensatezza sia solo apparente, è da tenersi presente come, seppure sia vero che il concetto di “condizionato” non rimanda a un incondizionato, ma solo a una condizione, questa ricerca delle condizioni è prescritta dalla ragione per un certo scopo, ovvero quello di avere una “compiuta unità della conoscenza”. Per quanto quindi quello che potremmo chiamare lo “schema” per il raggiungimento di questo fine possa essere considerato anche separatamente dall'incondizionato, il fine per cui questo schema è mezzo non può essere pensato che come incondizionato: se infatti la prescrizione di questa
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massima consiste fattualmente solo nel cercare, per ogni giudizio, un principio (relativo), il raggiungimento di una unità della conoscenza compiuta significherebbe il raggiungimento di un principio ultimo, per il quale la ragione non ha bisogno di cercare un principio ulteriore. Questo significherebbe però che, per questo principio, non si dà una condizione superiore in base al quale ricondurlo a un ulteriore giudizio, e quindi che il principio in questione è, appunto, incondizionato.
Questo rapporto con l'incondizionato ci permette di chiarire inoltre un altro aspetto a prima vista non facilmente intellegibile del passo in questione. Dopo aver infatti introdotto la prescrizione da parte del principio dell'uso logico della ragione di “trovare l'incondizionato”, Kant osserva “questa massima logica non può divenire in altro modo un principio della ragion pura, se non ammettendo che, se è dato il condizionato, è data anche […] l'intera serie delle condizioni” (KrV A307/B364). Per comprendere questo passaggio – come vedremo, fondamentale per comprendere l'illusione dialettica legata alle idee – è necessario tenere presente la distinzione tra “massime” e “principi oggettivi”. Una formulazione esplicita di questa differenza la possiamo trovare nell'Appendice alla Dialettica:
Chiamo massime della ragione tutti i principi soggettivi che non siano stati desunti dalla costituzione dell'oggetto, ma dall'interesse della ragione rispetto a una certa possibile perfezione della conoscenza di questo oggetto. Vi sono, quindi massime della ragione speculativa, le quali si fondano unicamente sull'interesse speculativo della ragione, sebbene possa sembrare che si tratti di principi oggettivi. (KrV A666/B694)17
In base a questo passo è facile vedere come, se quello che Kant aveva chiamato il “principio della ragione in generale (nell'uso logico)”, era propriamente una massima – esso non faceva infatti altro che prescrivere una certa attività ad una facoltà conoscitiva, in particolare quella di cercare di ricondurre i giudizi a principi sempre più alti allo scopo di unificarli tutti – assumere che quanto potrebbe soddisfare questo fine – l'unità incondizionata – si dia effettivamente significa passare da una massima a un principio oggettivo: significa passare dal cercare di sistematizzare i concetti al pensare tale sistema come effettivamente dato, e quindi pensare la realtà come tale sistema.18
Se quindi si ha un principio soggettivo dell'uso logico della ragione – una massima – che prescrive, per ogni giudizio, di cercare se esso non sia riconducibile a un principio, si ha anche un principio che si pretende oggettivo, che consiste nell'affermazione dell'effettivo
Il richiamo di Kant alla “perfezione della conoscenza” è da prendersi in senso tecnico, ovvero secondo la dottrina delle perfezioni logiche della coscienza. In particolare, dato il ruolo delle idee, sembra che le due perfezioni logiche con le quali sia più immediatamente facile mettere in relazione l'impiego delle stesse siano la perfezione logica secondo la quantità (l'universalità) e quella secondo la modalità (la certezza, in particolare per la sistematicità). Sul Tema delle perfezioni logiche della conoscenza, si veda Capozzi 2002, pp. 396 – 422 e 541-647.
Non deve dunque trarre in inganno il fatto che Kant parli prima di un “principio della ragione in generale (nell'uso logico)” e poi dello stesso principio come una “massima logica”: è infatti chiaro che, in questo caso, “principio della ragione in generale” sia da leggersi come “principio soggettivo”.
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darsi di quell'incondizionato che rappresenterebbe il raggiungimento di quello scopo da cui si origina la prescrizione, da parte del principio logico, di una certa procedura.19
Sulla scorta di quanto visto è ora facile comprendere quella genesi delle idee in cui consiste l'uso reale della ragione. All'inizio del primo libro della Dialettica, intitolato “Dei concetti della ragion pura”, Kant scrive:
Comunque stiano le cose a riguardo della possibilità dei concetti ricavati dalla ragion pura, rimane il fatto che essi non sono semplicemente dei concetti ottenuti mediante riflessione, bensì ottenuti mediante inferenza. I concetti dell'intelletto vengono pensati anch'essi a priori, prima dell'esperienza e in vista di essa, ma non contengono nient'altro che l'unità della riflessione circa i fenomeni […]. Solo tramite quei concetti diventa possibile la conoscenza e la determinazione di un oggetto: sono essi, a fornire innanzitutto la materia per le inferenze, e non sono preceduti da alcun concetto a priori di oggetti, dal quale potrebbero essere inferiti […]. Se essi [i concetti della ragione] contengono l'incondizionato, riguardano qualcosa in cui rientra ogni esperienza, ma che in quanto tale non sarà mai un oggetto dell'esperienza: qualcosa a cui la ragione conduce nelle sue inferenze a partire dall'esperienza, e secondo cui essa valuta e misura il grado del suo uso empirico, che però non costituirà mai un membro della sintesi empirica. (KrV A310-1/B366-7)
La distinzione tra “concetti ottenuti mediante riflessione” e concetti “ottenuti mediante inferenza”, a prima vista decisamente oscura, risulta facilmente comprensibile sulla base dei risultati delle sezioni precedenti. Kant definisce le idee trascendentali come i “concetti della ragion pura, in quanto considerano ogni conoscenza dell'esperienza come determinata per mezzo di una totalità assoluta di condizioni” (KrV B383-4). Come abbiamo visto, quella della totalità assoluta di condizioni è una rappresentazione connessa intrinsecamente con l'operare della ragione, in quanto è appunto la rappresentazione di ciò che soddisfa il suo interesse. È in questo senso che i concetti della ragion pura, le idee, sono ottenute “tramite inferenza”: la ragione conduce alle idee nelle sue inferenze non tanto perché esse siano una conoscenza data che venga trovata adeguata a fungere da principio a una qualche altra conoscenza altrettanto data – per tornare al nostro esempio, al modo in cui “tutti gli uomini sono mortali” era trovato come principio adeguato per “tutti gli ateniesi sono mortali” – quanto perché esse rappresentano ciò in cui il processo inferenziale troverebbe il compimento, ovvero il fondamento ultimo del condizionato. È quindi in un senso molto particolare che le idee sono “inferite”: esse sono un “qualcosa a cui la ragione conduce nelle sue inferenze a partire dall'esperienza” (KrV A311/B367) non in quanto si abbia un
Su questo, è importante fare attenzione alla distinzione kantiana tra oggetto dato tout court e oggetto dato “nell'idea”: nel secondo senso, infatti, si ha un senso in cui effettivamente gli oggetti delle idee ci sono dati. A riguardo, si veda Caimi (in via di pubblicazione).
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giudizio empirico che effettivamente venga ricondotto – ovvero: in quanto vengano trovate come principio adeguato alla derivazione di una qualche concetto dato – ma in quanto rappresentano il correlato dell'esigenza che ci spinge a ricercare principi per i giudizi, ovvero a produrre inferenze.
Per quanto concerne invece il fatto che siano i concetti puri “a fornire la materia per le inferenze”, questo può essere compreso a partire dalla precedente considerazione dalla nozione di “uso reale”. In particolare, ancora una volta, riesce utile un parallelo con l'uso reale dell'intelletto, tra l'altro suggerito da Kant stesso:
L'analitica trascendentale ci ha fornito un esempio di come la semplice forma logica della nostra conoscenza possa contenere l'origine di concetti puri a priori […] la forma dei giudizi (trasformata in un concetto della sintesi delle intuizioni) è ciò che ha prodotto le categorie […]. Allo stesso modo possiamo aspettarci che la forma dei sillogismi, qualora la si applichi all'unità sintetica delle intuizioni secondo la norma delle categorie, conterrà l'origine di particolari concetti a priori che possiamo chiamare concetti della ragion pura. (KrV A321/B379)
Come osservavamo, perché si possa parlare di un uso reale di una facoltà, le rappresentazioni devono essere non solo prodotte da essa, sulla base della sua natura, ma essere prodotte indipendentemente dai particolari contenuti empirici. Tuttavia, questo non significava affatto astrarre da ciò al quale l'attività della facoltà in questione si applica, che è anzi essenziale per l'uso reale dell'intelletto: il concetto dell'oggetto di una funzione implica necessariamente un riferimento a ciò a cui, appunto, la funzione si applica, così che il concetto dell'oggetto della funzione logica del giudicare è il “concetti di un oggetto in generale, per mezzo dei quali si considera l'intuizione di quell'oggetto in quanto determinata rispetto ad una delle funzioni logiche del giudicare” (KrV B128, corsivo nostro).20 Un rapporto analogo lo si ha nell'uso reale della ragione. Se l'intelletto si rivolge ai fenomeni per unificarli, la ragione si rivolgeva ai giudizi: nel primo caso, l'elemento puro era l'elemento a priori della sensibilità, in questo caso quello dell'intelletto, ovvero i concetti puri. Come quindi l'intelletto si rivolgeva all'intuizione a priori per pensare concretamente i concetti puri – passando p. es. da ciò che in un giudizio può figurare solo nella posizione di soggetto a ciò che permane nei mutamenti, la sostanza – così, per passare dall'idea di un giudizio che sia il fondamento ultimo di una serie al concetto dell'incondizionato come un qualcosa di reale, ovvero come un oggetto, la ragione si dovrà rivolgere all'intelletto, ovvero ai suoi concetti puri.
Su queste basi, possiamo quindi comprendere la prima delle due tricotomie alla cui connessione Kant riconduce le tre idee trascendentali, introdotte rispettivamente nella seconda e nella terza sezione del primo libro della dialettica. La tricotomia in questione, introdotta sulla base dell'osservazione che “un concetto razionale puro può essere per spiegato per mezzo del concetto dell'incondizionato, in quanto esso contiene un
20 Cfr. KrV A76/66-B103 e A147/B186-7.
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fondamento per la sintesi dell'incondizionato”, è la seguente:
Quante sono le specie di relazione che l'intelletto si rappresenta tramite le categorie, tanti saranno i concetti razionali puri; e così si dovrà cercare e così si dovrà cercare in primo luogo un incondizionato della sintesi categorica in un soggetto; in secondo luogo, un incondizionato della sintesi ipotetica dei membri di una serie; in terzo luogo, un incondizionato della sintesi disgiuntiva delle parti in un sistema. Esistono infatti tante specie di sillogismi, ognuna delle quali procede attraverso prosillogismi verso l'incondizionato: l'una procede verso il soggetto, il quale non è più esso stesso un predicato; l'altra procede verso un presupposto che non presuppone più nient'altro; e la terza procede verso un aggregato dei membri della suddivisione, a cui non si richiede più nulla per completare la suddivisione di un concetto. (KrV A320/B379-80)
Come abbiamo visto, la rappresentazione di un incondizionato in cui abbia il completamento dell'attività unificatrice della ragione è intrinseca all'attività stessa, come rappresentazione di ciò in cui tale attività giungerebbe appunto a compimento. È quindi chiaro che, per ognuna delle tre possibili forme di sillogismo – ovvero, per ognuno dei tre rapporti che si può avere tra condizione e condizionato – ci sarà un diverso modo di rappresentarsi l'incondizionato in cui il risalire di inferenza in inferenza si compirebbe. In base alle precedenti considerazioni, tuttavia, è parimenti chiaro come questa semplice indicazione di un ruolo dal punto di vista logico non consista ancora nella rappresentazione di un oggetto: come, nel caso dei concetti puri, (p. es.) la sostanza è ben più della rappresentazione di un qualcosa che, nel rapporto logico soggetto-predicato, può figurare solo come soggetto (ma comporta un relazione al tempo), così è chiaro che anche il concetto puro della ragione sarà ulteriormente determinato rispetto al ruolo di (p. es.) “incondizionato della sintesi categorica”, e richiederà una determinazione di quest'ultimo rispetto alle categorie.21
Esaurita l'analisi di come la concezione kantiana della ragione come “facoltà dei principi” spieghi il sorgere delle idee, ci limitiamo a osservare come l'identificazione dei tre tipi di incondizionato indicati con le tre idee trascendentali richieda per Kant un passo ulteriore, compiuto combinando questi modi di pensare l'incondizionato con tre diversi tipi di relazione: “ogni relazione delle rappresentazioni, di cui noi possiamo formarci o un concetto o un'idea, è triplice: 1) relazione al soggetto, 2) relazione al molteplice dell'oggetto, 3) relazione a tutte le cose in generale” (KrV A334/B391). Per quanto, intuitivamente, è facile notare una corrispondenza tra i tre ambiti delineati e le tre idee trascendentali, il fatto che Kant introduca questa seconda tricotomia ex abrupto e, quindi, senza portare una particolare giustificazione, rende difficile comprendere il perché Kant utilizzi proprio questa tripartizione, lasciando in questo modo spazio a molte ipotesi
21 Parallelo ma non meno importante è come la nozione kantiana di “idea” si inserisca nella sua teoria della rappresentazione e come questo si relazioni al contesto delle teorie della rappresentazioni a lui disponibili. A riguardo si vedano Rumore 2007 e Hinske 1998.
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interpretative.22
Per concludere, possiamo infine rivolgerci a quell'uso regolativo delle idee da Kant esposto principalmente nell'Appendice alla Dialettica Trascendentale, per illustrarne alcuni aspetti alla luce della nostra precedente analisi dell'operare della ragione. Com'è noto, nell'Appendice, dopo aver nel secondo libro della Dialettica smascherato l'illusione che sorge quando si consideri l'incondizionato come realmente dato, Kant ribadisce con forza come le idee, per quanto non abbiano un valore costitutivo, abbiano comunque un ruolo “regolativo vantaggioso e assolutamente necessario” (KrV A644/B672).23 Se per lungo tempo questo ruolo era quasi sistematicamente ignorato, è ormai piuttosto comune sottolineare come le idee non siano semplicemente una sorgente di illusioni, ma siano anzi necessarie per la possibilità stessa della conoscenza, in quanto svolgono un ruolo di organizzazione che è necessario per la possibilità stessa della conoscenza. Tuttavia, osservando molti studi sul tema, si può però osservare come questo ruolo regolativo delle idee, per quanto ribadito, rimanga poco spiegato: se si sottolinea infatti come esse servano a dare unità all'operare dell'intelletto, come servano da focus imaginarius e come questo sia necessario per la possibilità della conoscenza, non si spiega come questo avvenga in concreto, ovvero come si sostanzi nella pratica del giudicare. Di fronte a questo problema, non ci si può semplicemente rifugiare dietro alla natura regolativa e quindi in un certo grado indeterminata delle massime della ragione. Per quanto infatti esse siano regolative in un senso ancor più marcato delle categorie dinamiche e quindi rappresentino una rete “dalle maglie più larghe” persino rispetto a queste, se ad esse deve davvero dato un ruolo di questo tipo esso deve essere comunque concretamente indicabile. In base alla nostra analisi precedente possiamo rimediare a questa carenza illustrando in concreto il significato e l'importanza di questo ruolo, spiegando tanto in che senso esso sia “regolativo” e “vantaggioso” quanto in che senso sia necessario “necessario”: le due cose, infatti, coincidono.
Il ruolo regolativo delle idee è specificato, nell'Appendice, come il compito di “dirigere l'intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole concorrono verso un unico punto, il quale, pur essendo solo un'idea (focus imaginarius) – cioè un punto da cui i concetti dell'intelletto non derivano realmente – tuttavia serve a fornire a tali concetti la massima unità ed estensione” (KrV A644/B672). Sulla base delle nostre precedenti considerazioni diviene semplice dare un significato concreto all'idea – a prima vista piuttosto vaga – di un focus imaginarius come “un punto da cui i concetti
A riguardo si vedano Guyer 2000, e Rohlf 2010.
Come nota Ferrarin (cfr. Ferrarin 2015), questo ruolo necessario delle idee rende il fatto che Kant tratti questa sezione come una semplice “appendice” particolarmente infelice: questo ruolo delle idee è infatti tutt'altro che un semplice qualcosa in più rispetto a quanto stabilito dall'analitica, ma è anzi parte fondamentale dell'intelligenza del mondo. Cfr. anche Rauscher 2010.
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dell'intelletto non derivano realmente”, ma che dia a questi “massima unità e estensione”.24 Come abbiamo visto, infatti, l'idea di una totalità incondizionata è un correlato necessario dell'attività prosillogistica, l'attività della ragione per cui, per ogni giudizio dato, essa ricerca se esso sia riconducibile a un giudizio superiore: sebbene dall'idea di una totalità incondizionata (p. es.) dei fenomeni non sia in grado di inferire alcunché sulla natura dei fenomeni – questa rappresentazione non è infatti costitutiva, e questa totalità non è un qualcosa che ci sia mai effettivamente dato – pure, è solo grazie a questa rappresentazione che, per una certa legge dei fenomeni io ricerco un principio superiore: è solo perché mi rappresento le regole come derivanti da un principio – originantesi da “un punto” – che io, per ogni giudizio, ricerco sempre una condizione più alta tramite cui ricondurlo a un altro. Per usare un esempio concreto, era solo in quanto si rappresentava tutte le regole come fondate in regole superiori, ovvero in quanto si rappresentava la natura come organizzata secondo un sistema di regole, che Newton poteva pensare di ricondurre le regole di fenomeni a prima vista lontanissimi come il moto dei corpi che esperiamo quotidianamente e quello celeste ad un unico principio, quello della gravitazione universale.
In questo modo si chiarisce anche il particolare tipo di necessità che hanno le idee. Sebbene esse non siano, come le categorie, necessarie per la possibilità di un oggetto di esperienza – non sono infatti affatto condizioni affinché gli oggetti possano “appartenere a una coscienza empirica possibile” (KrV A310/B367) – esse sono comunque condizioni di possibilità del modo in cui, effettivamente, operiamo nella conoscenza.25 Come abbiamo visto, se è l'intelletto (e la facoltà di giudicare) a cercare e rilevare le regolarità in ciò che ci si presenta – tanto al modo di sussumere il particolare sotto i concetti, quanto nella formazione dei concetti empirici – è solo grazie alla rappresentazione dei vari ambiti della realtà come sistematicamente unitari (e quindi alle idee) che ricerchiamo una connessione tra le regole che vada oltre al semplice dato. Per quanto dunque le idee non abbiano valore costitutivo e non siano quindi principi in senso oggettivo, è per questo motivo che Kant può scrivere che “procedere secondo tali idee costituisce una massima necessaria della ragione” (KrVA671/B700), e che proprio questa necessità costituisce “la deduzione trascendentale di tutte le idee” (Ibidem): senza le idee non sarebbe possibile quella ricerca per cui l'uso logico della ragione è spinto oltre le connessioni già date tra i concetti, e che è essenziale al modo in cui concretamente operiamo nel conoscere.
Cfr. La Rocca 2011.
È a partire da questa necessità che, nella rielaborazione della problematica che troviamo nella Critica del Giudizio, si porrà il problema di una vera e propria deduzione trascendentale del principio di finalità. Per una considerazione della relazione tra le due problematiche, si veda Horstmann 1989. Per una considerazione del senso di questa necessità in base alla prospettiva della terza Critica si veda invece La Rocca 1999.
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