CON-TEXTOS KANTIANOS.
Kant in Contemporary Philosophy
FEDERICO RAMPININI
Università di Roma “Tor Vergata”, Italia
Il convegno, tenutosi l’11 gennaio 2016 a Lucca per ricordare l’eminente figura di Silvestro Marcucci a dieci anza<º<ni dalla sua scomparsa, avvenuta il 26 dicembre 2005, ha costituito, come ricorda nella Prefazione Claudio La Rocca (pp. 7-22), l’occasione per rivivere l’ideale interpretativo dello studioso toscano, ovvero per «assumere su di sé le domande di fondo che Kant stesso poneva a sé e al mondo» (p. 7). Silvestro Marcucci, allievo di Luigi Scaravelli, sotto la guida del quale aveva portato a termine una tesi, che gli era valsa la dignità di stampa, dal titolo Il problema della conoscenza nel neopositivismo, professore di Filosofia teoretica all’Università di Pisa dal 1976 al 2005, e maestro di una folta schiera di studiosi italiani, ha segnato una traccia profonda nell’ambito degli studi kantiani. È doveroso ricordare che a lui si deve la fondazione nel 1988 della prima rivista dedicata a Kant al di fuori dei confini tedeschi e nel 1990 della “Società Italiana di Studi Kantiani”, costituita assieme a Franco Bianco ed Emilio Garroni. I suoi studi kantiani, ai quali egli non si volse presto, frenato com’era da un «sacro timore», furono caratterizzati
Federico Rampini ha conseguito sotto la guida del prof. Anselmo Aportone la Laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” con il massimo dei voti, la lode, e il riconoscimento della “dignità di stampa”. È autore del volume Musica e Utopia. Ernst Bloch e la filosofia della musica (Mimesis, Milano 2018) e di svariati saggi e recensioni pubblicati soprattutto su «La Cultura. Rivista di Filosofia, Letteratura e Storia», Rivista del cui Comitato di redazione fa parte.
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da un’appassionata ricerca del vero, che lo condusse a interrogare i testi con rigore e insieme con forte motivazione teorica. Marcucci, come ha notato Beatrice Centi,1 era un kantiano, non tanto perché aderisse al pensiero kantiano, quanto piuttosto perché era persuaso dell’impossibilità di non dirsi kantiani, nella misura in cui non è possibile, dopo Kant, accostarsi alle principali questioni filosofiche senza confrontarsi con la posizione kantiana. Proprio questo spirito viene raccolto e offerto al lettore in maniera elegante e diversificata dai sette contributi che compongono il volume curato da Claudio La Rocca.
La metafora nautico-geografica dell’esperienza come isola dai confini immutabili, al di là dei quali si estende il tempestoso oceano della metafisica, luogo delle apparenze, delle illusioni e delle vane speranze, guida il lavoro di Remo Bodei («L’isola dai confini immutabili»: tra Kant e Hegel, pp. 25-37). Egli, ripercorrendo la storia di questa immagine, prende in considerazione lo sviluppo durante gli anni jenesi della concezione hegeliana di esperienza e di metafisica, portato avanti attraverso un continuo confronto con la posizione kantiana. Se Kant non vuol certo venir meno al proprio motto “sapere aude!”, se alla domanda ob das Menschgeschlecht im beständigen Fortschritt zum Besseren sei replica positivamente, egli però ammonisce l’umana ragione, la quale, anche dopo aver scoperto l’illusione della metafisica, non cesserà di rimanerne affascinata (KrV, A 298/B 354-355); Hegel, da parte sua, sfida il monito kantiano di non abbandonare il solido terreno dell’esperienza, valicandone con la Phänomenologie des Geistes i confini. La dialettica, che Kant riteneva pura auto-illusione, assume ora la funzione di processo dinamico e risolutore dei concetti isolati e parziali grazie all’intervento della ragione. Il saggio di Bodei affronta dunque il tema proposto dal volume, «Imparare a filosofare», non guardando a quanto di Kant ci sia in uno specifico ambito della filosofia contemporanea, ma leggendo Kant attraverso la rielaborazione che del suo pensiero è stata effettuata da Hegel.
Il secondo contributo (Kant, i diritti umani, e la visione cristiana, pp. 39-71), ad opera di Marcello Pera, affronta la questione di diritti umani attraverso una prospettiva decisa e inusitata: l’autore è infatti convinto che «una visione cristiana sorregge tutti i pezzi della filosofia di Kant» (p. 51). Di conseguenza, egli cerca di rintracciare all’interno della posizione kantiana radici cristiane, che rendano ragione di posizioni che contrastano con la visione “secolarista” di Kant – considerato, dalla seconda metà del XX secolo, grazie a nozioni quali quelle di “dignità della persona” e di Stato liberale, il padre delle più diverse dichiarazioni dei diritti. Benché sostenesse il primato e l’autosufficienza della ragione nel campo della morale e della politica, Kant introduce l’idea di Dio come un postulato della ragione pratica: questa introduzione è letta da Pera come l’ammissione che senza Dio le leggi morali resterebbero inefficaci. Certamente Kant, riconoscendo l’utilità politica e sociale della religione, la considera sempre secondo l’ottica della «fede razionale», della
«religione nei limiti della sola ragione», e di un «Essere morale superiore», tutte espressioni tipicamente deiste. L’approccio kantiano alla religione è rigorosamente
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filosofico: isola l’idea regolativa originaria di religione e la distingue da ogni approccio teologico-confessionale. Nonostante ciò, a giudizio di Pera, quello che Kant propriamente intende e quello a cui deliberatamente tende «sono la religione e il Dio cristiani» (p. 49). Secondo questa personale lettura la lucida consapevolezza kantiana, secondo cui ad esempio la ragione non è in grado di far tutto da sé (WDO, AA VIII 146), è ricondotta all’interno del “secolarismo cristiano”, di quella «filosofia dell’uomo che si considera caduto nel secolo e precipitato nella storia, e che usa il dono più prezioso che Dio gli ha lasciato – la ragione – per risollevarsi» (p. 51). Cosicché di fronte ad affermazioni kantiane chiaramente imbarazzanti, quali quelle relative al ruolo della donna, alla prostituzione o all’omosessualità, Marcello Pera, anziché notare come esse siano il riflesso della mentalità conservatrice settecentesca, per certi versi fortunatamente distante da quella odierna, ritiene che esse siano la conseguenza coerente della sua nozione di persona, di dignità della persona e di rispetto della persona, che si oppone al «libertinaggio» (p. 55) e si avvicina invece a quel cristianesimo al quale oggi siamo malauguratamente avversi, poiché l’apostasia del cristianesimo è direttamente connessa con «l’attuale crisi spirituale dell’Europa» (p. 42).
L’interessante lavoro di Luigi Caranti (Kant e la filosofia politica, pp. 73-92) focalizza l’attenzione sul lascito kantiano riscontrabile nei temi maggiormente dibattuti oggi nell’ambito della filosofia politica. Il tema è chiaramente sconfinato, dimodoché Caranti si concentra su tre campi in cui l’influenza di Kant appare importante e foriera di sviluppi fecondi. Come è noto, la filosofia politica alle soglie degli anni settanta sembrava essersi insterilita: sull’onda lunga della riduzione neopositivista delle questioni accettabili a quelle verificabili, il problema della giustizia sembrava si dovesse ridurre a quello del bene e dell’utile. Rawl rivoluziona questo stato di cose nel 1971, con l’opera A Theory of Justice, ricuperando una premessa metodologica fondamentale, ovvero l’idea secondo cui la giustizia politica debba partire sempre da premesse indiscusse. Tuttavia, come nota puntualmente Caranti, se per Kant tali premesse si costituivano a partire dalla sua dottrina morale, per Rawls esse trovano il loro radicamento nelle idee di libertà ed eguaglianza delle società liberaldemocratiche, le uniche per le quali la sua concezione può esser applicabile. «Ma comune, e di dirimente importanza, è la scelta di discutere di giudizio con la fiducia che lo si possa fare rigorosamente» (pp. 75-76), e la convinzione che lo spirito razionale trovi un campo d’azione non solo nell’ambito più propriamente scientifico bensì anche in quello politico o morale. La filosofia rawlsiana che costituisce il canale privilegiato per il pensiero kantiano nel dibattito contemporaneo diviene l’«ostacolo da abbattere» (p. 77) per una teoria dei diritti umani, che, ispirandosi a Kant, si opponga alla concezione secondo cui i diritti derivano dal consenso fattuale della comunità internazionale, esautorando il concetto di “diritti naturali”. Autori come Woldron, Rosen o Kateb, ricusando l’interpretazione politica dei diritti umani, hanno recuperato l’intuizione kantiana secondo cui vi è qualcosa che fonda l’irriducibile valore dell’essere umano.
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Gli studi politici contemporanei, oltrepassando i confini classici della filosofia politica, hanno rivolto inoltre la loro attenzione al concetto di pace; questo filone di ricerca appare oggi fertile e importante, rappresentando allo stesso tempo un caso considerevole in cui l’influenza dei risultati accademici nelle scelte politiche è stata rapida e corposa. Ciononostante, come mette in luce Caranti, la mutuazione della concezione kantiana nelle pratiche politiche non è stata indolore e ha comportato con sé alcuni problemi. In primo luogo, si è compiuta una troppo rapida equazione fra liberal-democrazia e repubblica kantiana: quest’ultima prevede idealmente che i cittadini impegnati in politica rimangano distanti da spiriti e interessi di gruppo. In secondo luogo, la Federazione kantiana non è pensata come ristretta alle repubbliche, ma tale da includere anche gli stati dispotici; la pace kantiana non deve esser confusa con una “pace separata” fra alcuni stati democratici. In terzo luogo, si è ridotta la portata del diritto cosmopolita ad accordi di scambio commerciale.
Posto che il dibattito etico contemporaneo ha luogo, in larga misura, all’interno di quella tradizione che, non senza qualche approssimazione, può esser detta “analitica”, Luca Fonnesu (Kant e l’etica contemporanea, pp. 93-108) delinea nel suo contributo alcuni tratti generali del confronto che tale dibattito ha instaurato con l’etica critica. 2 Benché Sir William David Ross, autore di celebri volumi su Aristotele e di un commentario alla Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, con la sua opera The right and the good del 1930, ispirandosi a Kant, avesse avanzato la più rilevante teoria normativa deontologica, l’etica anglofona del XX secolo, dedicandosi all’elaborazione di varie forme di utilitarismo, sancisce presto un deciso allontanamento rispetto alla filosofia classica tedesca. All’interno del dibattito “metaetico” di matrice analitica aspra è la critica mossa all’oggettività dell’etica e dei valori morali kantiani, sulla base di un rifiuto dell’atteggiamento epistemologico kantiano e di un richiamo al sentimentalismo humeano. Alcuni mutamenti metodologici della tradizione analitica hanno contribuito però a una riconsiderazione dei cardini dell’etica kantiana. In primo luogo, l’attenzione all’analisi semantica viene progressivamente meno, con la conseguenza per cui lo studio del significato dei giudizi morali lascia il passo alla questione della loro oggettività, a cui il pensiero kantiano poteva fornire un contributo significativo. In secondo luogo, si è assistito al maturare di una maggiore consapevolezza storica in vista di una intersezione tra ricerca storico-filosofica e riflessione teorica. Il punto di partenza per questa rinascita degli studi teoretici e storiografici sulla filosofia kantiana è stato senza dubbio John Rawls; egli ha inoltre guidato due tesi di dottorato divenute successivamente opere di straordinaria importanza, ossia The Possibility of Altruism, 1970, di Thomas Nager, e Acting on Principle, 1975, di Onora O’Neill, vincitrice anche del Kant-Preis 2015. In particolare, in seguito anche a una ripresa del pensiero di Ross e a un mutamento di prospettiva nella lettura delle opere morali, il concetto di “dovere” è stato compreso nella sua ricchezza: esso non si riduce all’idea del divieto, ovvero del dovere negativo (come hanno creduto Nietzsche e Freud)
2 Tema che l’autore ha già affrontato anche in Kant e l’etica analitica, in M. De Caro-S. Poggi, La filosofia analitica e le altre tradizioni, Roma 2011, pp. 79-106.
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ma «prende in considerazione la promozione di valori e fini» (p. 104), come emerge chiaramente da Die Metaphysik der Sitten.
L’ambito tematico della teleologia in Italia per gran parte del XX secolo è stato studiato in connessione con la filosofia morale e col giudizio estetico; gli studi di Marcucci,3 rispetto a questo stato di cose, hanno rappresentato una novità, contribuendo a portare in primo piano gli aspetti epistemologici della finalità: si comprese così come gli interessi scientifici non erano affatto limitati al cosiddetto periodo precritico, al contrario essi erano presenti durante tutto lo sviluppo del progetto trascendentale. Eppure, come ricorda Francesco Camera (Kant e la religione oggi, pp. 109-130) la connessione che la teleologia intrattiene con la morale e con la religione non viene trascurata da Marcucci, il quale, benché con un solo lavoro, si oppone alla lettura di Pantaleo Carabellese.4 Secondo Kant l’idea di Dio
«geht aus der Moral hervor und ist nicht die Grundlage derselben» (RGV, AA VI 5). Questa concezione, a giudizio di Carabellese, reintrodurrebbe nella morale proprio quei fini eteronomi che la filosofia critica vuole escludere, finendo per ammettere la religione come fondamento della morale, dal momento che se la religione è «Erkenntnis aller Pflichten als göttlicher Gebote» (KpV, AA V 129), i doveri cessano di esser indipendenti: Kant confonderebbe di conseguenza il piano noumenico della virtù con quello fenomenico della felicità. Diversamente, Marcucci, considerato la relazione che il “fine” può instaurare con la volontà ed escluso che in tale rapporto l’idea di fine possa essere antecedente, dunque determinante (altrimenti la morale diverrebbe appunto eteronoma), ha sostenuto come il “fine” sia «nicht als auf den Grund, sondern als auf die nothwendigen Folgen der Maximen» (RGV, AA VI 4). Marcucci fa notare come per Kant – il quale cerca così di conferire un contenuto effettivo alla sua trattazione morale, rispondendo ad un’esigenza che in anni successivi sarà profondamente sentita da Hegel – «bedarf es zwar für die Moral zum Rechthandeln keines Zwecks […] Aber aus der Moral geht doch ein Zweck hervor; denn es kann der Vernunft doch unmöglich gleichgültig sein, wie die Beantwortung der Frage ausfallen möge: was dann aus diesem unserm Rechthandeln herauskomme» (RGV, AA VI 4-5). A questa domanda Kant risponde introducendo la nozione di sommo bene, concentrando l’attenzione, oltre che sul concetto di dovere, anche su quel concetto ‘concreto’ di felicità e dando luogo, sul piano teoretico, ad un transitus fra livello formale e livello reale. Kant vede l’uomo nella sua concretezza, con le sue incertezze, le sue mancanze e i suoi problemi, cosicché intende la religione come soccorso della buona condotta.
3 Aspetti epistemologici della finalità in Kant, Firenze 1972; Studi kantiani, Lucca 1988; Scritti su Kant. Scienza, teleologia, mondo, a cura di C. La Rocca, Pisa 2010. Marcucci ha intrapreso un sentiero indicato già dal maestro Luigi Scaravelli. Cfr. L. Scaravelli, Opere, vol. II, Scritti kantiani, a cura di M. Corsi, Firenze 1968, pp. 337-528.
4 Si veda S. Marcucci, Alcune osservazioni storico-critiche sul rapporto morale-felicità-religione in Kant,
«Studi kantiani», 7 (1994) pp. 103-110; e P. Carabellese, La filosofia di Kant. I. L’idea teleologica, Firenze 1927.
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Per inquadrare meglio questo quadro concettuale all’interno di una problematica più ardua e complessa, Francesco Camera, presentando brevemente la concezione della religione per Kant, discute il ruolo che tale riflessione svolge all’interno del dibattito contemporaneo. Il merito di aver richiamato l’attenzione sulla distinzione kantiana tra reine Vernunftreligion e Kirchenglaube, rivendicandone l’importanza metodica per la comprensione delle dinamiche e dei fenomeni religiosi nel contesto della società contemporanea, deve esser attribuito a Jürgen Habermas. In opere quali Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, il filosofo tedesco elogia Kant in modo particolare per aver sostenuto con forza l’indipendenza delle motivazioni morali rispetto agli influssi dogmatici delle confessioni religiose. Proprio la posizione kantiana a favore della religione razionale (RGV, AA VI 12 e 107), rispetto a quelle positive, viene valorizzata da Habermas, in quanto costituisce una via tanto più percorribile oggi quanto più si pone l’attenzione al pluralismo di confessioni e visioni del mondo, che caratterizza la società contemporanea.
L’importanza di Kant per la riflessione odierna non si esaurisce negli ambiti della filosofia politica, della religione o morale: la teoria estetica ha rappresentato da sempre un centro d’interesse fondamentale per la riflessione teorica ed ermeneutica: l’influenza della prima parte della Kritik der Urteilskraft è tangibile sia nei pensatori che si sono confrontati esplicitamente con Kant, sia in quelli che hanno taciuto il suo nome nelle loro opere. Il lavoro di Gabriele Tomasi (Il gusto può essere oggettivo? Una possibile risposta kantiana a una domanda di Greenberg, pp. 131-154) mette in rilievo la presenza kantiana all’interno del dibattito contemporaneo non attraverso una panoramica del suo influsso, bensì attraverso l’esame di un problema paradigmatico (quello della soggettività del giudizio estetico) letto in dialogo con le tesi del celebre critico d’arte statunitense Clement Greenberg. La presunta soggettività del giudizio di gusto può apparire un problema specialistico, ma le sue conseguenze sono tutt’altro che settoriali: secondo la prospettiva di Greenberg, affermare che il gusto è soggettivo è come dire che non c’è affatto gusto, dunque che non c’è arte. Tomasi tornando su questioni già affrontate, 5 riesamina la soluzione di Kant rispetto al problema del giudizio di gusto, ritenuto soggettivo ma nondimeno universale. Secondo Tomasi, la difficoltà insita nella soluzione kantiana, ossia il contrasto fra la diversità fattuale dei giudizi estetici e la loro presunta universalità, non viene tuttavia risolta da Greenberg, il cui modo di pensare i problemi estetici era in verità diverso da quello kantiano. Egli riteneva crocianamente possibile assumere l’oggettività dei giudizi di gusto come un dato empirico provato dal diffuso consenso storico: nel corso del tempo l’arte apprezzata per ragioni non estetiche, vale a dire morali, politiche, religiose, perde gradualmente la sua presa sul pubblico oppure arriva ad essere apprezzata per il suo valore estetico. Il modo in cui Greenberg recepisce la nozione di sensus communis tradisce la diversità delle posizioni: esso non è certo ciò che Kant postula per affermare l’oggettività dei giudizi di gusto, bensì, a mio avviso, la stessa facoltà di giudizio, dunque una facoltà originaria che proprio per la natura particolare del suo principio va sviluppata e raffinata all’interno della dimensione sociale. Ad ogni modo il
5 L’oggettivismo debole di Kant in estetica, «Estudos Kantianos», 5 (2017) pp. 89-106.
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problema che pone Greenberg è di assoluta importanza, ed è sentito profondamente dal contesto ermeneutico e filosofico anglofono, laddove numerose sono state le critiche rivolte a Kant relative proprio alla presunta soggettività universale dei giudizi di gusto. Traendo ispirazione da alcune idee di Elisabeth Schellekens, 6 Tomasi propone di distinguere il piano della critica come arte e quello della critica come scienza, ovvero il piano della pratica critica e quello dell’analisi trascendentale. «La critica come scienza deriva la possibilità delle valutazioni del gusto dalla natura delle nostre capacità conoscitive; individuando le condizioni sottostanti alle comuni pratiche di valutazione estetica […] Naturalmente i risultati dell’analisi trascendentale non sono privi di conseguenze per la pratica valutativa. Oltre a porre dei vincoli, essi possono anche avere effetti correttivi» (p. 149). La critica come arte si occupa di come il gusto procede de facto, esaminando i prodotti delle belle arti.
La parcellizzazione in ambiti del lavoro filosofico non deve mettere in ombra l’unità complessiva cui le diverse modalità di approccio al mondo (conoscitivo, morale, estetico) inevitabilmente rimandano, come rammenta Kant dichiarando nella Kritik der reinen Vernunft come ogni dicotomia presupponga un’unità originaria che si vuole dividere (KrV A 290/B 346). Attraverso una messa a punto del concetto kantiano di filosofia, nella prospettiva di una ricognizione dell’unità possibile della ragione, Alfredo Ferrarin ha sottolineato due particolarità “antimoderne” di Kant, che si distanziano dalla concezione moderna della ragione. Se a partire da Galilei la scienza e la filosofia dovevano unirsi per costruire modelli di spiegazione della natura, in grado di comprenderla metodicamente come un «meccanismo legiforme riconducibile a cause» (p. 158), secondo Kant l’attenzione degli scienziati è assorbita dal loro oggetto e incapace di volgersi al tutto. Questa mossa, afferma Ferrarin (che tuttavia avrebbe forse potuto esplicitare meglio questo punto), non è un ritorno alla tesi classica della superiore dignità della filosofia sulle scienze, perché non si basa su una nozione di sophia come visione pura e senza impedimenti, ma su una concezione di filosofia come «scienza più comprensiva» (p. 158). In secondo luogo, la ragione recupera ora «sentimenti e bisogni», «impulsi e aspirazioni» (p. 158): «la ragione cerca se stessa nel mondo nella forma di un ordine stabile e necessario perché sa che può comprendere solo quello che ha prodotto lei stessa secondo il suo progetto» (p. 159); eppure, se la ragione cerca una regolarità e una legalità nei suoi oggetti, non può trovare requie in essi né soddisfazioni nel suo uso empirico. Una ragione così compresa conduce Kant a intendere la filosofia «più [come] una prassi ispirata dall’idea di mondo […] che una conoscenza determinata che pretenda di valere per sé». Proprio questo aspetto – non privo certo di tensioni, come quello «tra una ragione che si ritrova, come un organismo, con una vita che non ha fatto lei e una ragione che non è altro che ciò che fa di se stessa» (p. 164) – costituisce, a mio modo di vedere, una parte cospicua dell’enorme eredità spirituale che Kant ci ha lasciato, come bene hanno inteso nella diversità delle loro letture alcuni filosofi novecenteschi come Ernst Bloch.
6 Towards a Reasonable Objectivism, «British Journal of Aesthetics», 46 (2006) pp. 163-177.
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Se è vero che Kant, e con lui ogni pensatore, ha bisogno della riflessione contemporanea per non essere dimenticato, è ancor più vero che essa ha bisogno di Kant. Come ha rilevato La Rocca nella sua Introduzione, «imparare a filosofare si può farlo in mille modi […] Farlo con l’aiuto del grande patrimonio di pensiero che Kant ci ha lasciato si è dimostrato spesso particolarmente produttivo» (p. 22). In un momento storico in cui il confronto con Kant si svolge a tutto campo, al di là dei limitati schemi dello “zurück” o del “good-bye”, il volume curato da Claudio La Rocca costituisce una verifica del peso che la riflessione kantiana assume per il pensiero contemporaneo. Nel complesso un volume ricco, pregevole e stimolante, nonostante alcuni consapevoli limiti naturali, come l’impossibilità di considerare tutte le prospettive alle quali il pensiero kantiano apre, che offre una panoramica generale sul confronto che la riflessione contemporanea intrattiene, in maniera esplicita o implicita, con Kant.
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