CON-TEXTOS KANTIANOS.
International Journal of Philosophy N.o 9, Junio 2019, pp. 309-331
ISSN: 2386-7655
Doi: 10.5281/zenodo.3253125
Vita come scopo, scopo della vita: riflessioni sui §§ 79-84 della Critica del Giudizio
LUIGI IMPERATO
Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Italia
Nel mio articolo propongo una lettura dei §§ 79-84 della Critica del Giudizio, parte della sezione Metodologia del Giudizio teleologico. Dapprima mi interrogo sul significato di una Methodenlehre del Giudizio teleologico, che rintraccio in un’attività metariflessiva del Giudizio; procedo poi ad una lettura analitica del testo nelle sue varie articolazioni, nella quale passo in rassegna le questioni attinenti alla specificità dello statuto epistemologico della teleologia, alla possibile convivenza tra finalismo e meccanicismo nella scienza della natura, all’origine della vita, allo scopo ultimo della natura e allo scopo finale della creazione; approdo, infine, ad un’interpretazione per cui l’intera teleologia rationis humanae, che si estende dalla teleologia naturale alla teleologia morale passando per l’antropologia e per la filosofia della storia, viene in questa sezione riarticolata intorno ad un nuovo fulcro concettuale di livello trascendentale, che può garantire l’effettivo collegamento tra queste diverse parti della filosofia proprio perché esso non si esercita in forma di dominio legislativo, ma in forma di riflessione sul molteplice empirico e sulla causalità teleologica propria dell’uomo.
teleologia, natura, cultura, vita, libertà
In my paper I propose some considerations on §§ 79-84 of the Critique of Judgment, part of the Methodology of the Teleological Judgment. At first I try to make clear the meaning of a Methodenlehre of the Teleological Judgment, which I find in a meta-reflective activity of Judgment; I then proceed to an analytical reading of the text in its various articulations, in which I
Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”; luigi.imperato2@gmail.com
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face the questions concerning the specificity of the epistemological status of teleology, the possible coexistence between finalism and mechanism in the science of nature, the origin of life, the ultimate purpose of nature and the finale purpose of creation; finally, according to my interpretation, the entire teleologia rationis humanae, which from natural teleology reaches moral teleology through anthropology and the philosophy of history, in this section is rearticulated around a new conceptual fulcrum of transcendental level, which can realize the effective connection between these different parts of philosophy precisely because it does not give rise to a legislative domain, but to a reflection on experience, and on the teleological causality peculiar to man.
Keywords
teleology, nature, culture, life, freedom
La peculiarità dei paragrafi 79-84 della Critica del Giudizio, parte della Metodologia del Giudizio teleologico, è costituita dalla grande varietà di questioni affrontate, dalla teoria della biologia alle scienze della terra, dall’antropologia alla morale, che può ben risultare disorientante, ove non si riesca a rintracciare un filo rosso in grado di tenere insieme le diverse parti della trattazione in maniera non meramente esteriore.
Nel presente lavoro cercherò di dimostrare che nella Metodologia Kant si senta chiamato a riflettere non più soltanto sulla natura organica quale oggetto d’indagine del Giudizio teleologico, ma anche sulla teleologia e sulla sua specifica Denkungsart in quanto tali, in modo da poter esaminare nuovamente questioni già discusse in opere precedenti la terza Critica articolandole intorno ad un nuovo nucleo concettuale, di livello trascendentale, capace di rideterminare lo statuto epistemologico non solo della teleologia naturale, ma della teleologia rationis humanae nella sua interezza, e di ridefinire i contenuti di pertinenza della filosofia naturale e della filosofia morale nella loro distinzione e nelle loro zone di interferenza e di interazione. Analizzerò pertanto il testo mettendo in relazione le argomentazioni di tenore più analitico con il fondamento più squisitamente teoretico che dovrebbe sorreggerle, onde verificare se il nuovo punto di vista offerto dalla scoperta dei principî a priori del Giudizio riflettente riesca davvero, secondo la pretesa kantiana, a tenere in stretto collegamento scienze naturali, antropologia, filosofia della cultura e filosofia morale, nonché se, nonostante la visibile mancanza di unità tematica del testo, la sua composizione possa essere ritenuta il risultato non di una collazione arbitraria di materiali elaborati con intenti diversi, ma di un’esigenza teoretica che coinvolge gli aspetti più decisivi della speculazione kantiana, nei quali la teleologia riveste un ruolo di fondamentale rilievo.
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Vita come scopo, scopo della vita
La Metodologia del Giudizio teleologico, presentata da Kant come Appendice alla Critica del Giudizio teleologico, apre l’ultima parte della Critica del Giudizio, che si estende lungo i §§ 79-91 dell’opera. Kant non specifica il ruolo che tale sezione riveste nel quadro della considerazione teleologica della natura, perché probabilmente presuppone come acquisito dalla prima Critica il significato di una Methodenlehre nell’edificazione di un sapere scientifico; bisogna pertanto riferirsi proprio alla Critica della ragion pura per comprendere cosa distingua quest’ultima da una Elementarlehre. Egli intende per dottrina trascendentale del metodo «la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragione pura» (KrV A 707-708 / B 735-736; tr. it. Kant 2001: 709), dunque non un sapere di oggetti, bensì della struttura del sapere scientifico. Il fatto tuttavia che la teleologia non possa essere considerata una scienza naturale in senso proprio, considerato che i suoi principî hanno un legittimo domicilio nell’esperienza, che costituisce il loro territorio, senza potervi costituire un dominio legislativo1, implica che non si possano delineare metodicamente i sui principî se preliminarmente non si venga in chiaro sull’ambito di afferenza delle sue indagini, che possono ricadere soltanto nella scienza naturale (poiché essa ha come oggetto gli organismi, come esseri naturali) o nella teologia (poiché essa presuppone l’esistenza di un fine della natura, che potrebbe essere stato posto negli organismi da una intelligenza divina).
Poiché gli organismi, pur esprimendo una causalità teleologica, sono parte della natura, la teleologia afferisce all’ambito d’indagine delle scienze naturali; resta tuttavia, una volta che ciò sia assodato, la necessità di chiarire il modo in cui sia possibile abitare il territorio dell’esperienza da parte del Giudizio riflettente, pur senza avervi un dominio, ciò che è icasticamente descritto nelle righe finali del penultimo capoverso del § 79: «L’esposizione dei fini della natura nei suoi prodotti […] non appartiene propriamente se non alla descrizione della natura composta con un particolare filo conduttore» (KU, AA 05: 417; tr. it. Kant 1997a: 519, traduzione modificata). Questa caratterizzazione restituisce la natura composita della teleologia, che, quanto all’occasione che le dà origine (l’esistenza de facto degli organismi), è empirica2, ma, quanto al suo procedere, è normativa (un organismo non può essere considerato tale se non obbedisce alla regola della precedenza del tutto rispetto alle parti, dell’autocausalità secondo l’individuo e secondo la specie, della cooperazione e della reciproca produzione delle parti; si veda in proposito il § 65 di KU, AA 05: 369 ff; tr. it. Kant 1997a: 419 ss.); la teleologia è dunque una Beschreibung della natura non perché consista in una pura registrazione di dati, ma, in quanto si serve di un filo conduttore, può essere compresa come una conoscenza secondo principî, ma a partire da un peculiare tipo di dati empirici, quali sono gli organismi, motivo per cui «come scienza, non appartiene ad alcuna dottrina, ma solo alla critica» (KU, AA 05: 417; tr. it. Kant 1997a: 519). Essa quindi non è una vera conoscenza normativa o razionale, ex principiis, ma neanche una mera conoscenza storica, ex datis; più propriamente, potrebbe definirsi come una ἱστορία,
1 Cf. KU, AA 05: 174; tr. it. Kant 1997a: 17.
2 «Questo principio [della finalità interna degli esseri organizzati], se si guarda all’occasione della sua origine, è da ritenersi derivato dall’esperienza, cioè da quell’esperienza istituita metodicamente e che si chiama osservazione» (KU, AA 05: 376; tr. it. Kant 1997a: 433)
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qualora si prenda questa parola non nel senso della parola italiana storia, ma in quello genuinamente greco di una investigazione, anche di fatti, basata su principî scientifici e conoscitivi.
L’esistenza di principî teleologici della natura pone peraltro il problema della loro coesistenza con l’interpretazione meccanica dei fenomeni della natura organica. Il meccanicismo ha sì la prerogativa (Befugniß) di indagare tutti i prodotti naturali, anche quelli organici, dal suo punto di vista, ma non la capacità (Vermögen) di giungere ad una spiegazione dei prodotti naturali intesi come fini della natura: se la prima è in se stessa illimitata, la seconda è delimitata «con molta chiarezza dalla natura del nostro intelletto» (KU, AA 05: 417; tr. it. Kant 1997a: 519). È proprio nella differenza tra diritto e forza che si inserisce la possibilità di una considerazione teleologica della natura, giacché il mancato collegamento tra pretesa “giuridica” e capacità “fattuale” è effetto della specificità del sapere empirico, nella sua diversità rispetto al sapere dei principî, nel quale invece un diritto può sussistere come tale ove sia accompagnato da un effettivo potere di attuazione, per cui, come viene detto nel § D della Introduzione alla dottrina del diritto della Metafisica dei costumi, non può esservi diritto senza l’unione del principio di legittimità con una forza di coercizione3. Le categorie possono pretendere di racchiudere nei rapporti da loro istituiti tutto ciò che si manifesta nello spazio e nel tempo perché sono dei veri e propri principî normativi, nei quali la distanza tra fatto e diritto viene colmata dalla Deduzione trascendentale, che opera la giustificazione della loro pretesa di essere norma non solo di se stesse, ma anche del fenomeno. Ma le categorie, poiché si riferiscono ad un dato, possono solo regolare i rapporti empirici tra fenomeni, non dedurre il contenuto del dato4; in questo “spazio vuoto”5 tra categorie e dato si apre così la possibilità di un fatto cui il diritto non riesce a tener dietro.
Il fatto, che è qui l’esistenza di esseri organizzati, nei quali la rappresentazione del tutto dispone le parti, non può essere giustificato a partire dalle categorie matematiche, che operano una sintesi in cui il tutto è sempre risultato della composizione progressiva delle parti6, né sulla base della categoria della causalità, che è in linea di principio, ma non in linea di fatto declinabile in forma teleologica, perché essa si applica in forma costitutiva a rapporti di tempo, nei quali l’istante a, che contiene la causa, è congiunto linearmente e progressivamente all’istante b, in cui l’effetto si produce, laddove nella causalità finale, di forma circolare, è l’effetto ad essere rappresentato come ciò che induce la causa ad agire (cf. KU, AA 05: 372 f.; tr. it. Kant 1997a: 425 s.).
Dal momento, dunque, che la considerazione meccanica della natura ha dalla sua parte principî normativi dell’intelletto, essa reclama in maniera del tutto appropriata e con pretesa non esorbitante il diritto di ridurre a sé anche l’indagine sulla natura organica. In
3 A tal proposito, si veda MS, AA 06: 231; tr. it. Kant 1998: 36.
4 Lo metteva in evidenza, sebbene in relazione ai Principî metafisici della scienza della natura ed in funzione di una lettura antidealistica del problema della scienza della natura in Kant, già Luporini 1961: 338 ss.
5 Questo “spazio vuoto” è, in realtà, lo spazio del darsi effettivo dell’esperienza o di quello che Scaravelli 1973: 355 ha chiamato “terzo molteplice”, individuato come problema proprio della Critica del Giudizio.
6 KrV A 162 / B 203; tr. it. Kant 2001: 239.
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Vita come scopo, scopo della vita
particolare, l’archeologia della natura, ossia la ricostruzione degli antichi stati della terra, passata dai «più antichi cataclismi naturali» (KU, AA 05: 419; tr. it., Kant 1997a: 523) all’attuale configurazione attraverso diverse e traumatiche modificazioni, si affatica a dimostrare come la presente struttura della natura sia il risultato di cambiamenti spiegabili con leggi meccaniche, senza bisogno di ricorrere ad alcuna predeterminazione finalistica, in maniera da poter interpretare anche la varietà degli esseri viventi sulla base di un tema comune sviluppato attraverso una serie di variazioni, tale da collegare tutte le specie, «da quella in cui il principio dei fini sembra attuato al massimo grado cioè l’uomo, fino al polipo, e da questo ai muschi e alle alghe, e finalmente al più basso grado della natura, la materia bruta» (KU, AA 05: 419; tr. it. Kant 1997a: 521 s.) e da considerare gli esseri naturali una unica «famiglia di creature» (KU, AA 05: 419; tr. it. Kant 1997a: 523).
Il filo conduttore del meccanismo naturale, spinto oltre un certo segno, cessa tuttavia essere d’aiuto, perché realmente impossibile da compiere è proprio il passaggio che dovrebbe legare la materia bruta alla forma più bassa di vita; se anche si potesse, per questa via, arrivare ad una «madre universale» facendola uscire «dal grembo della terra», si dovrebbe «pure attribuire a questa madre universale un’organizzazione che abbia per iscopo» (KU, AA 05: 419; tr. it. Kant 1997a: 523) tutte le creature viventi, sicché il naturalista che voglia provare un tale esperimento, che Kant chiama «un’ardita avventura della ragione», non avrà fatto altro che spostare un passo più indietro la questione della possibilità del finalismo naturale.
La differenza tra natura inorganica e natura organica non è, infatti, di grado; Kant intende invece tale passaggio come un salto qualitativo, perché l’organizzazione, per quanto questa possa essere elementare, non è una prerogativa della materia inerte, mentre una volta che quel salto dalla materia inerte all’organizzazione sia compiuto si può facilmente immaginare un incremento quantitativo della complessità degli organismi, dal polipo, per l’appunto, fino all’uomo. In quest’ultimo caso non si percorre la via, impossibile, della generatio aequivoca, di una vita che nasce dalla mancanza di vita, ma quella della generatio univoca, della vita che deriva dalla vita, pur se noi abbiamo testimonianza solo di una generatio homonyma, della produzione delle specie non da altre specie, per trasformazione, ma di individui di una determinata specie da individui della stessa specie, sicché, «per quanto si estenda la nostra conoscenza sperimentale sulla natura, non si trova mai la generatio heteronyma» (KU, AA 05: 420; tr. it. Kant 1997a: 525). L’accenno all’“unica famiglia di creature” e alla possibilità di una generatio homonyma testimonia come Kant si riferisca ai generi e alle specie non come concetti puramente scolastici o classificatori, alla maniera di Linneo, ma li consideri come aventi reale valore biologico e ritenga in linea di principio non impossibile una loro costituzione storica7, per derivazione da un ipotetico, primigenio organismo semplice, a cui si perverrebbe grazie allo studio delle analogie di struttura anatomica tra i diversi esseri viventi.
Ma l’importanza di questa considerazione meccanica degli organismi, che sola ci tiene nei confini della scienza naturale ed è pertanto indispensabile, non elimina l’avversione di
7 Sul punto, vedi Düsing 1968: 133 ff.
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Kant per ogni forma di abiogenesi. La sua convinzione che mai ci sarà un Newton che possa spiegare l’esistenza anche solo di un filo d’erba «per via di leggi naturali non ordinate da alcun intento» (KU, AA 05: 400; tr. it. Kant 1997a: 483), si spiega con la sua concezione della materia, quale si può ricavare, per esempio, dai Principi metafisici della scienza della natura; caratteristica della materia è quella infatti di essere inerte, di subire passivamente il suo cambiamento di stato, la cui causa «non può essere interna […] perciò ogni cambiamento di materia si fonda su una causa esterna» (MAN, AA 04: 543; tr. it. Kant 2003: 307)8, così che «l’autocrazia della materia […] è una parola priva di senso» (KU, AA 05: 421; tr. it. Kant 1997a: 527). La ripetizione dello schema cartesiano, posto come argine contro ogni forma di materialismo inteso in senso ontologico, è utile ad opporsi anche ad ogni tendenza di stampo spiritualistico, giacché ipotizzare la presenza di un principio attivo nella materia significherebbe introdurvi una forma di animismo o di ilozoismo9; ma, d’altra parte, essa è pure la causa della singolare impasse della filosofia trascendentale nel dar conto di un altro comportamento della materia, non più passivo, ma attivo perché tendente alla forma, e della sua necessità di far ricorso al principio della finalità della natura vivente, sulla cui effettiva consistenza ontologica è costretta a non pronunciarsi10. La soluzione si attesta, quindi, sul livello epistemologico11: nessuna forma di realismo delle cause finali, che intenda queste ultime come parte della materia, sia nella declinazione propriamente panteistica di una sostanza che incorpora tutto che in quella spinoziana di molteplici determinazioni inerenti ad un’unica sostanza semplice, può risolvere questo problema, perché ciascuna di esse può nominare soltanto la relazione unitaria tra la sostanza e le sue articolazioni, ma non può spiegare il legame tra la sostanza e i suoi effetti come un legame finale, ciò che sarebbe effettivamente indispensabile, data
8 Nella Critica della ragion pura, nella sezione dell’Anfibolia dei concetti di riflessione, Kant scrive: «In tutte le parti dello spazio che essa [la materia] occupa, e in tutti gli effetti da essa esercitati […] io non ho davvero nulla di assolutamente interno, ma ho soltanto qualcosa di relativamente interno; a sua volta, questo qualcosa sussiste in rapporti esterni. Anzi, ciò che è assolutamente interno […] alla materia […] si riduce ad una semplice fisima» (KrV A 277 / B 333; tr. it., Kant 2001: 346-347)
9 Cf. KU, AA 05:374; tr. it. Kant 1997a:431.
10 In McLaughlin 2003 è contenuta un’interessante indagine sulla relazione, nell’approccio kantiano ai problemi biologici, tra paradigma riduzionistico cartesiano, scienza newtoniana (nella quale vengono inclusi i tentativi di rendere ‘newtoniana’ la biologia da parte dei vitalisti nel XVIII secolo) e concetto di causalità meccanica, insieme con il tentativo di rendere chiari i motivi della ‘rigidità’ di quest’ultimo, che lo rende di fatto inutilizzabile nelle scienze della vita.
11 Sul punto si veda Zammito 2006:351 ff., il quale ritiene che la concezione kantiana del vivente lo induca, proprio a causa della ‘povertà’ del suo concetto di legge naturale e di materia, a ipotesi metafisiche (come quella dell’epigenesi, su cui mi intratterrò più avanti nel testo), che egli cercherebbe di limitare, rifugiandosi in una soluzione di tipo epistemologico, grazie alla quale egli eviterebbe un impegno ontologico, che invece il suo pensiero gli richiederebbe. Su questa stessa difficoltà della filosofia trascendentale, a sua avviso risolta nell’Opus postumum, anche Mathieu 1958:133 ss. All’estremo opposto, Breitenbach 2009 tende ad enfatizzare l’aspetto epistemologico e a risolvere completamente, forse con argomenti non sempre convincenti, la teleologia kantiana nell’analogia, di valore puramente euristico, tra natura e ragione. Sull’utilizzo epistemologico del concetto di finalità un lavoro molto approfondito è Marcucci 1972.
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Vita come scopo, scopo della vita
l’indeducibilità da concetti di questo legame finalistico (cf. KU, AA 05: 421; tr. it. Kant 1997a: 527)12.
Il tentativo di venire in chiaro sul fondamento della finalità interna degli organismi viene messo a punto nel § 81, in cui Kant si confronta con le soluzioni proposte in merito dagli scienziati del suo tempo; il riferimento, diretto o indiretto, al dibattito scientifico- filosofico sull’origine della vita, che aveva visto protagonisti, tra gli altri, Maupertuis, La Mettrie, Needham, Boerhaave, Spallanzani, Maupertuis, C. F. Wolff, Blumenbach, Haller e prima ancora Stahl, Leibniz, Cudworth, oltre a chiarire il punto di vista kantiano, offre anche un interessante spaccato storico sull’emergere di scienze, come la biologia, per le quali il paradigma meccanicistico cartesiano non pareva più sufficiente, ma le cui problematiche, in assenza delle scoperte fondamentali della chimica organica, non potevano essere fronteggiate del tutto adeguata, né sotto il profilo strettamente sperimentale, né sotto il profilo più ampiamente teoretico13.
La visione che animava la teoresi kantiana in questo campo restava quella di non abbandonare completamente la spiegazione meccanicistica della natura, ma di integrarla facendo il minor ricorso possibile al soprasensibile, evitando di fare degli organismi esseri al di sopra delle leggi della natura. Si spiega così la simpatia di Kant per la teoria dell’epigenesi, a danno di tutte le altre forme di occasionalismo o di prestabilismo; con l’occasionalismo, che ritiene che il Creatore abbia predeterminato l’esistenza degli esseri organici, ai quali conferisce la vita in occasione del concepimento, il quale diventa così un atto che sfugge alle leggi di natura, e con il prestabilismo, per il quale tutto quello che riguarda gli esseri organici sarebbe stabilito da Dio in anticipo, mentre alla natura spetterebbe il solo compito di sviluppare per eduzione qualità già interamente formate, Kant reputa vada perduta ogni applicazione della ragione all’indagine della natura, perché essi rendono i processi naturali completamente superflui nella produzione di esseri organizzati. Ma il sistema della preformazione individuale, oltre ad avere un evidente difetto teoretico, è insostenibile anche perché rimane muto al cospetto di alcuni fenomeni naturali: come dar conto, per esempio, della nascita dei bastardi o dei mostri14, se non si ammette altro che una forma di accrescimento di caratteristiche già tutte teleologicamente determinate?
Kant ritiene di dover aderire alla teoria della preformazione generica o epigenesi, secondo la quale le disposizioni sono contenute solo in forma di germi e gradualmente portate a maturazione per produzione, perché il suo vantaggio sulle altre teorie è duplice: da un lato, riesce a dar conto in misura maggiore di quanto si verifica nell’esperienza (la già citata produzione di bastardi o quella, antifinalistica, dei mostri), perché i Keime sono disposizioni poste solo virtualmente nell’organismo, e dunque il loro sviluppo è sottoposto a fattori o, al limite, ad ostacoli contingenti; dall’altro, «la ragione sarebbe già
12 Sul punto occorre vedere anche le già esaustive osservazioni su ‘realismo’ e ‘idealismo’ della finalità che si trovano nel § 72, posto nella Dialettica del Giudizio teleologico; cf. KU, AA 05: 389 ff; tr. it. Kant 1997a: 459 ss.
13 Su questi temi, si veda l’accurata analisi storica contenuta nei capitoli 1-9 di Zammito 2018.
14 Problema su cui aveva per esempio già insistito Maupertuis 1745: 74 ss.
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pregiudizialmente orientata a guardare con maggior favore il suo modo di spiegare, perché questa considera la natura […] come produttrice per sé […] e non semplicemente come capace di sviluppare; e in tal modo […] lascia alla natura tutto ciò che segue al primo incominciamento» (KU, AA 05: 424; Kant 1997a: 533). Kant fa qui evidente riferimento a teorie, come quelle della vis essentialis di C. F. Wolff, peraltro non citato direttamente15, di Maupertuis16 e, più decisamente, del Bildungstrieb di Blumenbach17, l’unico scienziato ad essere direttamente citato18.
La propensione di Kant per la teoria della preformazione generica deriva da una certa consonanza tra questa e il suo modo di pensare: essa non indulge alla teoria della generatio aequivoca, tuttavia riesce a preservare l’autonomia delle leggi della natura ricorrendo a principî non meccanici solo quando sia l’esperienza stessa a richiederli; per questo, il filosofo ascrive apertamente alla teoria blumenbachiana del nisus formativus, l’impulso originario alla forma che si registra negli esseri organizzati, il merito di lasciare «al meccanismo della natura una parte che non si può determinare, ma che non si può neanche disconoscere» (KU, AA 05: 424; tr. it. Kant 1997a: 533)19, anche se egli non intende in senso realistico la tendenza della materia alla forma, sicché egli qui ribadisce che la sua soluzione non pretende di dire una parola definitiva sull’impulso alla forma della natura organica e tende a risolvere sul piano della pensabilità, piuttosto che sul piano dell’essere, un dato d’esperienza che non poteva fino in fondo essere giustificato dai risultati delle scienze del suo tempo né dai principî propri del suo sistema filosofico.
Il § 82 abbandona la questione della finalità interna degli organismi e discute la possibile finalità esterna degli enti di natura non organizzati rispetto a quelli organizzati, ossia la possibilità che la natura, nel produrre gli esseri inorganici, abbia avuto di vista gli scopi propri degli esseri viventi. Della differenza tra finalità esterna, o relativa, e finalità interna della natura Kant aveva già, peraltro, discusso nel § 63, negando che l’esistenza del primo tipo di finalismo potesse rappresentare una occupazione delle scienze della natura; tale problema ritorna nella Metodologia, dopo essere stato sostanzialmente abbandonato perché
15 A proposito della vis essentialis si veda Wolff 1764: 160, § 25. Goy 2014 rileva una differenza essenziale tra vis essentialis di Wolff e bildende Kraft di Kant: la prima sarebbe, a suo avviso, materiale, e ciò farebbe di Wolff un meccanicista, la seconda immateriale. Per l’influenza di Maupertuis su Kant, si confronti Zammito 2006.
16 Per il discorso relativo alla preformazione e alla sua confutazione, si veda soprattutto Maupertuis 1745: 77- 107.
17 Blumenbach 1781: 12 f.
18 KU, AA 05: 424; tr. it. Kant 1997a: 533.
19 Blumenbach ritiene, in maniera abbastanza simile a Kant, che il suo Bildungstrieb o nisus formativus si distingua nettamente dalla vis essentialis di Wolff o dalle tradizionali nature plastiche della tradizione neoplatonico-rinascimentale, rilanciate nel dibattito sulla vita organica da Cudworth perché tale forza si conosce dall’effetto, ignorandosene del tutto la causa, sulla quale egli sceglie di non pronunciarsi; in merito, Blumenbach 1791: 33.
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Vita come scopo, scopo della vita
eccedente i limiti di una teleologia che risponda ad una impostazione di tipo metodico e non metafisico, senza essere preventivamente giustificato o introdotto. Il passaggio a questo nuovo livello dell’argomentazione pare motivato dall’intento di saggiare l’idea che l’intera natura possa essere intesa come un sistema globalmente organizzato, nel quale tutte le cose si trovino in collegamento perché poste in un rapporto reciproco di mezzo a fine. Questo intento può essere ritenuto non del tutto arbitrario, se si considera che la questione di una organizzazione teleologica della natura nel suo complesso si trova già nell’Appendice alla Dialettica trascendentale della prima Critica e che è uno dei motivi a fondamento dell’elaborazione di una ulteriore Critica, giusta le affermazioni che si trovano nell’Introduzione all’opera
Una finalità esterna della natura può, a parere di Kant, essere pensata solo come posta a vantaggio degli esseri organici, perché questi solo sono possibili in virtù del concetto di scopo, ma la sua esistenza può essere asseverata molto difficilmente, perché l’esistenza dell’organismo non implica che questo sia in se stesso uno scopo, ma solo che, per poter sussistere, si debba configurare come uno scopo. Certo, la finalità esterna è necessaria, affinché possano aver modo di vivere esseri organici, che devono, a tale scopo, utilizzare ciò che trovano in natura; tuttavia, difficilmente ciò che funge da mezzo per i loro scopi potrebbe considerarsi un vantaggio ad essi intenzionalmente riservato. Ciò tuttavia non toglie che Kant ritenga sensato porre la domanda relativa all’esistenza di un ente a cui la natura possa aver riservato il privilegio di essere suo scopo, il quale, se si ritiene riposto all’interno dell’essere naturale, sarà uno scopo finale, mentre se lo si ritiene riposto all’esterno, sarà un mezzo necessario agli equilibri di un tutto finalisticamente organizzato. L’uomo, in quanto unico essere in grado di porsi fini, ha ben ragione di ritenersi lo scopo ultimo della natura, ma ciò non significa ancora che ne sia lo scopo finale, perché «se noi percorriamo tutta la natura, non troveremo in essa, in quanto natura, alcun essere che possa pretendere al privilegio di essere lo scopo finale della creazione» (KU, AA 05: 426; tr. it. Kant 1997a: 537). Una considerazione non antropomorfica della natura, contro cui Kant si era già espresso nella prima Critica 20 , porta infatti a ritenere che nessun essere sia designato come scopo della natura stessa, ma che, al contrario, tutti siano funzionali alla sua esigenza di addivenire ad un equilibrio complessivo, per il quale i singoli vengono sacrificati piuttosto che tutelati. Solo se si ammette che gli uomini debbano vivere sulla terra, Kant lo aveva già precisato nel § 63, non devono mancare i mezzi grazie ai quali possano sussistere come animali, «ma in generale non si vede perché […] debbano vivere uomini» (KU, AA 05: 369; tr. it. Kant 1997a: 419). In questo quadro l’uomo, che pur deve essere considerato lo scopo ultimo della natura affinché questa possa essere considerata un sistema di fini21, non assurge certo al rango di essere eccezionale:
Si potrebbe anche […] dire che gli animali erbivori esistono per moderare la vegetazione lussureggiante del regno vegetale, da cui parecchie specie sarebbero state soffocate, che i carnivori esistono per porre un freno alla voracità dei primi; e finalmente l’uomo, perché,
20 Cf. KrV A 647 / 675; tr. it. Kant 2001: 696.
21 Cf. KU, AA 05: 427; tr. it. Kant 1997a: 539.
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perseguitando questi ultimi e scemandoli di numero, stabilisca un certo equilibrio tra le forze produttrici e distruttrici della natura. E così l’uomo, per quanto sotto un certo rispetto sia degno di esser considerato come un fine, non avrebbe, sotto altro rispetto, se non il grado di un mezzo (KU, AA 05: 427; tr. it. Kant 1997a: 539).
Del resto, l’ordine attuale della natura, come già visto nel § 80, potrebbe essersi delineato storicamente sulla base di un principio interamente meccanico, attraverso una serie di distruzioni e catastrofi, alle quali l’uomo, se anche non vi fosse stato coinvolto, non potrebbe dichiararsi estraneo, considerato il suo legame con tutto il resto della natura, che, solo, rende possibile la sua sussistenza22. Non è dunque da escludere che quello che in natura appare conforme alla finalità esterna sia il risultato di rovinose trasformazioni, né tanto meno è lecito ridurre l’archeologia della natura, che tenta di ricostruire l’antico stato della terra, alla semplice storia della natura, tesa ad una descrizione empirica della condizione attuale della terra23. Kant è evidentemente influenzato dall’opera dei naturalisti del suo tempo; nel saggio Sull’impiego dei principî teleologici in filosofia, per esempio, egli cita il Manuale di storia naturale di Blumenbach24, che contiene una descrizione dei cambiamenti subiti dalla natura nel corso del tempo, e, nella Geografia fisica, in particolare nella IV sezione della prima parte (cf. PG, AA 09: 296 ff.) si confronta direttamente con quelle teorie che, dalla fine del XVII secolo, avevano cercato di dar conto dei cambiamenti della terra e del ruolo avutovi dalle inondazioni, dall’innalzamento e abbassamento del suolo, della presenza dei fossili marini sulla cima delle montagne, e così via, ripercorrendo, e talvolta confutando, i tentativi di ricostruzione offerti da scienziati come Scheuzcher, Moro, Burnet, Woodward, Whiston, Leibniz, Linneo e Buffon 25 . Scienze come la geologia e la paleontologia rendevano possibile una nuova visione della natura, non più pensata come un regno di essenze eterne e statiche, ma come il risultato di equilibri mutevoli, che mai conoscono configurazioni definitive, sicché nella Reflexion 93 Kant può affermare che «la terra non è dall’eternità», ma che ha una storia, e che «se noi vogliamo indagare la storia della terra dal punto di vista fisico, non dobbiamo […] rivolgerci alla rivelazione» (Refl 93, AA 14: 573 f.)26. Una tale archeologia della natura, che deve mirare alla costruzione di una scienza che vada «sotto il nome di teoria della terra», per quanto dia luogo solo a congetture e non a certezze, non è «un’investigazione
22 Cf. KU, AA 05: 428; tr. it. Kant 1997a: 541.
23 La distinzione tra archeologia e storia della natura è probabilmente introdotta da Kant non solo per richiamare il concetto della conoscenza storica come conoscenza di dati empirici, che non ha quindi necessariamente una connotazione temporale, ma anche per risolvere la difficoltà di delimitare i campi della descrizione della natura nella sua attuale configurazione e della ricostruzione della sua evoluzione, cui si trova di fronte nel saggio Sull’impiego dei principî teleologici in filosofia del 1788; si veda, in proposito, ÜGTP, AA 08:162 f.; tr. it. Kant 1991: 37.
24 Cf. ÜGTP, AA 08: 180; tr. it. Kant 1991: 55.
25 Sulla nascita della geologia e della paleontologia, sulle difficoltà teoriche e sperimentali che esse hanno dovuto affrontare e sulla difficoltà di conciliare le nuove teorie con il racconto della Genesi, ma anche sulla importanza che questo ha avuto nella formulazione di alcuni tentativi di ricostruzione dell’antico stato della terra, si veda il classico studio di P. Rossi 2003 (prima edizione 1979).
26 Sul punto, si veda Fischer 2007: 106 ff.
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della natura puramente immaginaria, ma […] uno studio a cui la natura stessa c’invita e ci esorta» (KU, AA 05: 428; tr. it. Kant 1997a: 541).
Ciò che rileva notare è che, per quanto qui si sia nel territorio delle congetture, queste supportano quel che la ragione già autonomamente è in grado di stabilire, ossia che, se si rimane sul terreno della natura, non può trovarsi alcuna conferma dell’esistenza di esseri che essa abbia eletto a suoi favoriti; anzi, emerge da queste pagine una visione profondamente sistemica della natura, per cui tutto quello che vi accade ha ripercussioni su tutti gli esseri viventi, tanto che l’uomo, pur godendo del privilegio di essere l’unico essere razionale sulla terra, non può ritenersi esterno agli equilibri naturali.
La chiave della negazione della possibilità di una finalità esterna, però, non è empirica, ma di principio: della natura, in quanto natura, non può mai essere affermato con certezza che agisca sulla base di cause non meccaniche, quindi essa non può produrre uno scopo finale. In altre parole, mai si può affermare l’agire con scopo da parte della natura, ma solo che alcuni esseri sono pensati, a fini conoscitivi, come scopi. E tuttavia né questa considerazione, né l’archeologia della natura, con la sua storia di devastazioni, catastrofi e cataclismi, escludono una spiegazione teleologica degli equilibri naturali, perché, ribadisce Kant, «l’unione di questi due modi di rappresentarsi la possibilità della natura può stare nel principio soprasensibile della natura» (KU, AA 05: 429; tr. it. Kant 1997a: 543): il meccanicismo naturale, infatti, è fondato nelle categorie, ma non è fondato in via assoluta, data la sua base fenomenica, e dunque relazionale, per cui deve accettare di convivere con la teleologia, con cui è negativamente compatibile.
Il punto di vista che, in ultimo, risulta dal § 82 è dunque ancora una volta negativo: esso elimina tutti gli argomenti contrari alla possibilità della coesistenza tra meccanismo e teleologia, ma di tale coesistenza non si può dire altro se non che la ragione non ci vieta di pensarla. Tuttavia, esso approda anche ad una ulteriore acquisizione, secondo la quale, se si vuole comprendere come la natura possa produrre la vita come suo scopo, bisogna comprendere anche la natura stessa come un sistema di scopi per la cui completezza è necessario uno scopo ultimo, che non può essere rintracciato sulla base di una considerazione meccanica della natura. Ma nel § 82 non è spiegato come possano conciliarsi queste due visioni dello stesso problema, se non, come testé detto, per via puramente negativa; se ne può, pertanto, dedurre che sia da percorrere un’altra via rispetto a quella della finalità esterna e che occorra sottoporre alla riflessione nuovi elementi, che saranno forniti nel § 83.
Nel § 83 vengono trattati molti temi antropologici e sfiorati argomenti di filosofia della storia e di filosofia politica, ma, e in ciò consiste la sua difficoltà, il collegamento del suo contenuto con quanto precedentemente emerso nella Metodologia del Giudizio teleologico non è sempre pienamente perspicuo. In questo paragrafo, come nel precedente, viene
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esperito il tentativo di trovare un fine ultimo della natura, che consenta di pensarla come un tutto teleologico, ma questa stessa via è percorsa nei due paragrafi in un senso completamente opposto: nel § 83, infatti, Kant non parte dal considerare la natura come sistema di mezzi e di fini che abbia al suo vertice un fine che sia nella e della natura, ma da un essere, l’uomo, che sia fine ultimo della natura non perché suo favorito, ma in quanto capace di instaurare un ordine globale di mezzi e di fini al quale assoggettare la natura stessa. La capacità dell’uomo di porre scopi, pur segnando una discontinuità con la parte restante della natura, è essa stessa una caratteristica naturale, che solo per questo rientra nella teleologia naturale e così realizza, per altra via rispetto a quella percorsa dalla finalità esterna, lo scopo ultimo della natura, dimodoché, si può affermare, l’unità tematica del paragrafo e la sua connessione con i temi della Metodologia si trova nell’esplorazione sistematica di questa capacità teleologica come fattore di unificazione del tutto naturale,
«in modo che rispetto a lui [l’uomo] tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini» (KU, AA 05: 429; tr. it. Kant1997a: 545).
La posizione di fini da parte dell’uomo rappresenta, dunque, il modo di esplicarsi della sua causalità, in quanto essere naturale dotato di volontà, ed è, al contempo, all’origine dell’articolazione del suo legame con la natura, il quale può essere solo di due specie: o tale che la natura abbia posto l’uomo al centro delle sue cure per soddisfare i suoi fini ovvero che l’uomo stesso possa utilizzare la natura per la soddisfazione dei suoi fini. Il primo modo di intendere il legame tra uomo e natura coinciderà con la felicità; il secondo con la cultura (cf. KU, AA 05: 430; tr. it. Kant 1997a: 545). Kant afferma, con toni quasi drammatici, che la felicità degli uomini non è affatto una preoccupazione della natura:
La natura è tanto lungi dall’averlo adottato come il suo particolare favorito […] che essa, nei suoi effetti rovinosi, la peste, la fame, l’inondazione, e il freddo, l’ostilità di altri animali grandi e piccoli, e simili, non lo risparmia più di qualunque altro animale; e per di più le contradizioni delle sue disposizioni naturali lo gettano in pene immaginarie, mentre le tribolazioni proprie della sua specie, con lo spirito di dominazione, la barbarie della guerra, etc., lo riducono in tale miseria, ed egli stesso […] si adopera tanto per la rovina della propria specie, che […] questa sulla terra non raggiungerebbe un sistema di felicità, perché la sua natura non ne è capace (KU, AA 05: 430; tr. it. Kant 1997a: 545 s.).
L’uomo dunque «è sempre soltanto un anello nella catena dei fini naturali» (KU, AA 05: 430; tr. it. Kant 1997a: 547). E tuttavia, nel negare che la felicità sia lo scopo ultimo della natura, Kant ha di vista anche la circostanza che essa non possa essere considerata una legge della ragione, ma un semplice ideale dell’immaginazione, formato da una mescolanza di due istanze, l’una che proviene dai sensi, l’altra dall’intelletto; essa non è, quindi, né un puro prodotto dell’istinto (di fatto, nessun animale aspira alla felicità, ma solo alla soddisfazione dei bisogni), né una legge identica per tutti gli uomini e in tutte le circostanze, ma la rappresentazione di uno stato duraturo di appagamento di tutti i propri desideri che, in quanto pretende di disporre conformemente ad essa tutti gli stati del proprio vivere, è un’idea, ma, in quanto si rivolge a materiale puramente empirico, può
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prendere forma in tante maniere diverse ed è così instabile «che, se la natura [vi] fosse sottomessa […] non potrebbe assolutamente accogliere alcuna legge determinata, universale e fissa» (KU, AA 05: 430; tr. it. Kant 1997a: 545). Se dunque natura è ciò che è conforme a leggi, suo scopo non può essere ciò che non è fondato su leggi rigorosamente intese, mentre, d’altra parte, proprio la rappresentazione di una natura finalisticamente orientata presuppone l’esistenza di leggi che dispongano le parti in ragione del tutto, e non, viceversa, che dispongano il tutto a partire dalla sua consonanza con la mutevolezza di un motivo empirico, quale è il desiderio umano.
La natura non può dunque che produrre il suo scopo ultimo preparando l’uomo, come unico essere in grado di porre scopi, «a ciò che egli stesso deve fare per essere uno scopo» (KU, AA 05: 431; tr. it. Kant 1997a: 547). Resta, così, non la materia variabile degli scopi, ma solo la loro forma, «vale a dire la facoltà di porsi fini in generale»; la capacità umana che ne deriva, «di servirsi della natura come mezzo conformemente alle massime dei suoi liberi scopi in generale» costituisce ciò che la natura può fare per preparare l’uomo «allo scopo finale che è fuori di essa, e che può esser riguardato perciò come il suo scopo ultimo» (KU, AA 05: 431; tr. it. Kant 1997a: 547). La libera posizione di scopi da parte dell’uomo dipende, quanto alla sua possibilità, dalla facoltà di desiderare, che, stando a quanto si legge nella Prefazione alla seconda Critica, è il potere, da parte di un ente, «di essere, mediante le sue rappresentazioni la causa della realtà degli oggetti di queste rappresentazioni» (KpV, AA 05: 9; tr. it. Kant 2006: 15). L’essere causa degli oggetti delle proprie rappresentazioni è ciò che rende il modo d’essere umano simile alla natura in quanto essa è produttrice, ossia in quanto la si pensi agire in maniera teleologica; si comprende, pertanto, che l’uomo ha in sé qualcosa che lo distingue da tutte le altre forme di vita, perché egli non è un semplice prodotto naturale, ma possiede la logica della natura, nella misura in cui essa ponga scopi. Se è lecito esprimersi in questo modo, negli uomini, quali esseri capaci di porsi fini, la natura o, meglio, il fondamento soprasensibile di essa, che agisce finalisticamente e che pone la natura come un sistema teleologico, si rispecchia; questo è ciò che fa dell’uomo un essere naturale che non è del tutto soggetto ad una natura intesa come un insieme di cause meccaniche, ma che agisce in virtù di un fondamento soprasensibile che è all’origine della stessa natura e che gli conferisce il diritto di definirsi il «ben titolato signore della natura» (KU, AA 05: 431; tr. it. Kant 1997a: 547).
La Herrschaft dell’uomo sulla natura potrebbe ben essere interpretata come diritto ad usufruirne e ad utilizzarla per gli scopi che più gli aggradano. Ciò pare confermato anche, per esempio, da quanto Kant afferma nello scritto Inizio congetturale della storia degli uomini, riferendosi ad una ben precisa prerogativa dell’uomo su tutti gli altri animali, che ha diritto di usare per i suoi scopi:
[L’]ultimo passo che la ragione compì, nel sollevare interamente l’uomo al di sopra della comunità con gli animali, fu questo: egli comprese […] di essere davvero il fine della natura […] La prima volta che egli disse alla pecora: il vello che tu porti, la natura non te l’ha dato
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per te, ma per me […] egli ebbe coscienza di una prerogativa che, grazie alla sua natura, aveva su tutti gli altri animali (MAM, AA 08: 114; tr. it. Kant 2004: 107-108).
L’asprezza di questa visione del rapporto tra uomini e natura pare del resto confermata dalla convinzione kantiana, espressa nella Metafisica dei costumi, che gli uomini stessi non abbiano doveri, né giuridici né morali, nei confronti degli animali, perché manca un rapporto di reciprocità, dal quale soltanto l’obbligazione può sorgere (cf. MS, AA 06: 241; tr. it. Kant 1998: 49). Tuttavia, tale asprezza può essere mitigata dall’esplicita indicazione kantiana, contenuta ancora nella Metafisica dei costumi, che gli uomini abbiano un dovere indiretto nei confronti degli animali, che abbiano sì diritto di usarli o di ucciderli per i loro scopi essenziali, ma non di procurar loro del male in forma gratuita, e che anzi spesso si abbia, nei loro confronti, quasi un obbligo di riconoscenza (cf. MS, AA 06: 443; tr. it. Kant 1998: 304 s.). Queste due opposte visioni trovano forse, agli occhi di Kant, giustificazione a partire dai diversi livelli argomentativi sui quali si può svolgere il discorso morale: dal punto di vista dei principî, non può, a suo parere, esistere una reciprocità tra uomini e animali, ma da un punto di vista affettivo e, indirettamente, anche etico (un uomo che incrudelisca sugli animali è un eticamente cattivo), non è ammessa alcuna indifferenza o cattiveria gratuita nei loro confronti27.
Per altro verso, bisogna dire l’indubbio antropocentrismo di Kant non apre ad alcuna forma di ‘specialità’ della posizione dell’uomo nel cosmo, in quanto semplice essere naturale; piuttosto, è una qualità naturale che pone l’uomo al centro della stessa natura. L’agire sulla base di fini, infatti, nella misura in cui essi ricadano nelle regole tecnico- pratiche (cf. KU, AA 05: 172; tr. it. Kant 1997a: 13), è parte della dotazione naturale dell’uomo, in virtù della quale egli è l’unico animale in grado di rielaborare il dato ambientale, come più ampiamente viene spiegato nella Terza tesi dell’Idea della storia universale dal punto di vista cosmopolitico, dove si afferma che la natura stessa ha voluto che l’uomo fosse da lei indipendente e capace di ricavare da sé, e non di attendere dall’ambiente, ciò che gli occorre (cf. IaG, AA 08: 19; tr. it. Kant 2004: 31). Questa capacità di rielaborazione dell’ambiente non è solo un incremento quantitativo di abilità, ma segna anche un discrimine qualitativo rispetto agli altri esseri viventi: l’ambiente, rielaborato, non è più lo stesso ambiente, e questa circostanza è all’origine del paradosso di un essere che, in virtù della sua dotazione naturale, pone tra sé e la natura una distanza che, una volta aperta, non è più colmabile, rendendo il percorso che va dalla natura alla cultura percorribile, per dir così, in una sola direzione. Cultura, dunque, come azione intenzionale del coltivare, è, letteralmente, trasformazione del terreno nel quale si è stabiliti, ed essa è il prodotto della facoltà produttrici di fini, intesa come facoltà di essere causa della realtà degli oggetti delle proprie rappresentazioni, perché questa trasformazione non può che
27 Korsgaard 2011 ritiene, a questo proposito, che lo spirito dell’etica kantiana, anche oltre la sua esplicita formulazione teorica, sia adattabile ad una visione non completamente antropocentrica della natura e del rapporto con gli altri animali. Le argomentazioni addotte, su cui non è possibile in questa sede ulteriormente dilungarsi, sono a tratti suggestive, a tratti discutibili, in ogni caso sicuramente ulteriormente sviluppabili.
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avvenire sulla base di una causalità in grado di dar vita a qualcosa che ancora non è o che ancora non è così.
L’uomo, tuttavia, come essere naturale, non cessa di essere vincolato all’ambiente, dunque non cessa di essere sistemicamente vincolato a tutti gli esseri organizzati e perfino alla natura inorganica, come Kant aveva del resto esplicitamente riconosciuto nel § 82 (cf. KU, AA 05: 428; tr. it. Kant 1997a: 541). L’antropocentrismo kantiano non si declina allora, se è lecito esprimersi in questo modo, secondo la materia, perché la natura è un insieme di connessioni nel quale l’uomo è a pieno titolo inserito, ma secondo la forma, perché è la forma finalistica quella con cui l’uomo si pone al centro della natura, non certo come suo signore assoluto, ma come essere che, ponendo tra sé e la natura una mediazione, rappresenta al suo interno un ineludibile punto di snodo28.
Vi è, infine, un punto ulteriore sul quale è necessario tentare di gettare luce. La cultura sembra qui pensata sul modello della relazione con le cose di tipo tecnico, grazie a cui, producendo, si modificano e/o si portano alla luce oggetti. Ci si può chiedere se tale relazione di tipo poietico non si configuri, implicitamente, in Kant, anche come modello della prassi. Attestandosi alla lettera del testo, non sembrerebbe che così possano stare le cose; Kant ritiene che soltanto una parte della cultura, che egli chiama dell’abilità, sia assimilabile al sapere tecnico, e che il suo limite essenziale consiste nell’incapacità di guidare la volontà nella determinazione dei suoi fini (cf. KU, AA 05: 431; tr. it. Kant 1997a: 549). Gli scopi tecnici sono infatti perlopiù arbitrari, e non possono vincolare la nostra volontà ad alcuna risoluzione; scopi non arbitrari, del resto, a voler prestare ascolto a quanto viene affermato nella Fondazione, sono soltanto di due tipi: quelli derivanti dalla ricerca della felicità, il cui oggetto è tuttavia contingente, e quelli determinati dalla legge morale (cf. GMS, AA 04: 415 f.; tr. it. Kant 1997b:63 s.), ragion per cui, si deve ritenere, gli scopi a cui deve essere subordinato il sapere tecnico devono provenire dall’uno o dall’altro ambito. La cultura dell’abilità è, in questo senso, incapace di promuovere positivamente scopi, e pertanto il suo esito più alto è negativo, ossia consiste in una mera disciplina delle inclinazioni.
La cecità della cultura dell’abilità rispetto agli scopi è dimostrata anche dalla circostanza che essa sia alimentata dalla diseguaglianza tra gli uomini, cioè da una condizione di ingiustizia che si oppone a quanto comandato dalla legge morale. La condizione dello sviluppo della società civile è infatti l’oppressione di una classe sociale su un’altra, che lavora per il «comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessarii della coltura, la scienza e l’arte», le quali ultime, come attività che portano al massimo grado lo sviluppo delle disposizioni umane, sono «il fine della natura stessa» (KU, AA 05: 432; tr. it. Kant 1997a: 549). Il trionfo della civiltà è tuttavia anche il trionfo il trionfo di alcune delle disposizioni peggiori dell’animo umano; e Kant non pare tanto lontano dagli accenti drammatici della denuncia dei mali della cultura di Rousseau, quando parla della “miseria dorata” a cui pare che essa inevitabilmente ci
28 In questo senso anche Höffe 2018: 278 ff., il quale parla di un antropocentrismo non meramente ‘biologico’ e non ‘assoluto’; a suo parere, infatti, l’antropocentrismo kantiano è di tipo ‘ontologico’, fondato su principî, che non porrebbe l’uomo fuori o al di sopra della natura.
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destini. Egli però, a differenza di Rousseau, tiene fermo che questa sofferenza provocata dallo sviluppo della cultura sia necessaria per il raffinamento dello spirito, che costituisce la preparazione per la liberazione dal dominio degli appetiti naturali sul nostro animo. La corruzione della cultura può dunque essere accettata solo se essa conduce ad uno stato altro della civiltà, ossia al raggiungimento di «quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, in un tutto che si chiama società civile» (KU, AA 05: 432; tr. it. Kant 1997a: 547- 549). Solo in una tale costituzione, che deve assumere una dimensione cosmopolitica per evitare i rischi derivanti dalla guerra, è possibile un pieno, non costretto sviluppo della libertà umana. Kant riprende, dunque, in queste poche pagine i temi che aveva trattato con maggiore dovizia di particolari negli scritti di filosofia della storia degli anni Ottanta, nei quali aveva spiegato l’importanza dell’antagonismo tra gli uomini per il raggiungimento di una costituzione civile in grado di tutelare libertà e diritti di tutti, allo stesso modo in cui aveva ritenuto di aver dimostrato che proprio la guerra, per la maturazione della contraddizione che reca in sé, dovesse un giorno indurre gli uomini, per necessità se non per saggezza, a rifuggirla attraverso un’unione cosmopolitica tra gli Stati.
La cultura tuttavia, pur se con il raggiungimento di una costituzione civile e di un ordine cosmopolitico conduce ad una completa “umanizzazione dell’uomo”, non conduce al gradino più alto delle possibilità umane, perché resta vincolata alla condizionatezza della natura; il suo ruolo è soltanto quello di preparare l’uomo, attraverso la disciplina delle inclinazioni e lo sviluppo dei talenti, «alla signoria assoluta della ragione», vale a dire della legge morale, la quale costituisce il vertice della teleologia della ragione umana. Lo “scopo ultimo” apre così alla possibilità di uno “scopo finale”, che non appartiene più al regno della natura, ma della libertà.
Il finalismo della natura organica aveva già posto, in sede di Dialettica del Giudizio teleologico, la necessità di innalzarsi al concetto di una natura intesa nella sua interezza come sistema di fini e, contestualmente, ad un intelletto archetipico in grado di organizzarla in questo modo. Un sistema di fini è tale se è in se stesso conchiuso, pertanto deve essere posta la questione di uno scopo finale che lo conchiuda e che sia la causa che spinga la causa intelligente del mondo a creare la natura:
Quando si è pensato una sola volta un intelletto, che deve esser considerato come la causa della possibilità di tali forme [finalistiche], quali si trovano effettivamente nelle cose, si deve anche domandare quale principio oggettivo abbia potuto determinare questa intelligenza produttrice ad un effetto di questa specie; principio che poi è lo scopo finale per cui queste cose esistono (KU, AA, 05: 434 f.; tr. it. Kant 1997a: 555)
Lo scopo finale non può quindi in alcun modo essere proprio della natura, giacché essa può sempre essere vista in un modo duplice, o come un sistema di fini, o come un insieme di cause cieche. Solo se si ammette l’esistenza di un essere che è sottoposto anche alla
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legislazione della libertà la natura può essere riguardata come il prodotto di una causa intelligente, capace di porvi uno scopo finale29. Sotto questo riguardo, non ci si può del tutto liberare dall’impressione che la cultura come scopo ultimo della natura conservi un certo grado di non oggettività: di fatto, l’uomo è scopo ultimo della natura «sempre condizionatamente, cioè a condizione che sappia e voglia dare alla natura e a se stesso una finalità sufficiente per se stessa e indipendente dalla natura, e che quindi possa essere scopo finale, il quale però non deve essere cercato nella natura» (KU, AA 05: 431; tr. it. Kant 1997a: 547).
Scopo finale è quello «che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità» (KU, AA: 05: 434; tr. it. Kant 1997a: 553), e nessuno scopo naturale può essere di questo tipo, poiché «non v’è nulla in natura […] di cui il principio determinante […] non sia a sua volta condizionato» (KU, AA 05: 435; tr. it. Kant 1997a: 555). Per Kant gli unici esseri che possano indurre la causa intelligente del mondo alla creazione sono quelli che «si rappresentino la legge secondo cui devono determinare i propri fini, come posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalla condizioni della natura, eppure come in se stessa necessaria. L’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno» (KU, AA 05: 435; tr. it. Kant 1997a: 555). Lo scopo finale, dunque, è uno scopo della libertà, e solo in questa misura può essere realmente finale, anche per la ragione che, come scopo appartenente alla filosofia pratica, origina non dal Giudizio riflettente, ma da principî incondizionatamente validi del Giudizio determinante.
Queste considerazioni aprono lo spazio per un duplice ordine di interrogativi: in primo luogo, come può la morale kantiana innalzarsi ad una considerazione teleologica complessiva del reale, al punto da asseverare la presenza di uno scopo finale della creazione, con il quale si compia il sistema teleologico della ragione umana? In secondo luogo, per quale ragione il concetto di scopo finale, di competenza della filosofia pratica, viene svolto nel contesto di un’opera che si occupa di teleologia naturale e non in un’opera che, come la Critica della ragion pratica, abbia specificamente ad oggetto la fondazione della morale secondo i principî della filosofia trascendentale?
In merito al primo problema, si deve mettere in evidenza che tutto il sistema morale kantiano è percorso da una vena teleologica30, che non è estranea alle riflessioni della Fondazione e della seconda Critica e che è evidente, nel brano sopra richiamato, dal fatto che Kant metta in relazione legge morale ed agire finalistico. Non intendo, con questo, affermare che la morale kantiana sia tout court una morale teleologica, che cioè presupponga un fine che preceda la legge, o che si fondi su un bene che possa determinare moralmente l’arbitrio; ma la ragione, in quanto contiene un principio puro rivolto alla sfera
29 Guyer 2005: 334 f. si chiede se l’idea di uno scopo finale della natura non sia in contraddizione con la precedente negazione che la felicità dell’uomo possa essere lo scopo della natura; egli nota, però, che la centralità dell’uomo nella natura come scopo finale della creazione non allude alla felicità naturale, ma all’esigenza di felicità che conclude il sistema morale come parte del sommo bene, legato al compimento del sistema finalistico della morale. Sulla questione del sommo bene e della concordanza possibile tra natura e libertà a partire dal loro comune fondamento soprasensibile avrò modo di tornare nelle pagine finali di questo scritto.
30 Sulla presenza di una teleologia morale nel pensiero di Kant insiste molto Cunico 2001.
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pratica, contiene una forma determinante una molteplicità di interazioni pratiche che sono di portata teleologica perché costituite da scopi, volizioni, desideri. La legge morale è, precisamente, la forma determinante, interamente apriorica, di questa molteplicità di scopi, volizioni e desideri, i quali, poiché appartengono ad esseri come gli uomini che sono in un rapporto di reciproca influenza, devono essere posti in un legame reciproco, tale da dar vita ad un mondo pratico31. È questo il senso in cui, nella Fondazione, si dichiara che con l’idea del regno dei fini, corrispondente pratico della teleologia naturale, la quale considera la natura effettivamente esistente come un regno dei fini, «ciò che non esiste può […] diventare reale attraverso il nostro fare ed omettere, e appunto così da attuarlo in modo conforme a quest’idea» (GMS, AA 04: 436; tr. it. Kant 1997b: 107). Questo implica che legge, come connessione di un molteplice, non si può identificare con la norma, qualora questa sia intesa come semplice precetto o imperativo 32 . Di fatto, che il comando sia soltanto un momento applicativo e non fondativo della legge, risulta in maniera evidente dalla circostanza che questa è valida anche per una volontà santa (per esempio quella di Dio), per la quale non ha alcun senso parlare di un precetto morale al quale debba sottoporsi, dato che le sue «massime si accord[a]no necessariamente con le leggi dell’autonomia» (GMS, AA 04: 439; tr. it. Kant 1997b: 113). La legge si pone, cioè, su un livello trascendentale, mentre il comando su un livello antropologico. D’altra parte, e da diverso punto di vista, si può ancora ricordare che, come ricorda il saggio Sul male radicale nella natura umana, il fondamento morale dell’agire non sono il precetto, la regola, il comando, ma la Gesinnung, l’adesione del cuore ad un certo ordine ideale, nel quale i rapporti umani siano improntati ad una piena e completa reciprocità. Il cuore non può essere giudicato a partire dalle semplici azioni, perché il Sinn che noi conferiamo al nostro comportamento vale incomparabilmente di più rispetto alla norma a cui pure dobbiamo sottoporlo33, sicché la legge non contiene soltanto il fondamento di ciò che ha da essere, ma è anche il fattore motivante la massima soggettiva; se le cose stessero diversamente, sarebbe possibile un’osservanza della lettera della legge tale da ignorarne completamente lo spirito, dunque, completamente priva di valore morale (cf. KpV, AA 05: 73; tr. it. Kant 2006: 157).
Il livello trascendentale-pratico non chiude, ma apre ad una particolare considerazione pratico-teleologica, perché il principio puro di determinazione del mondo pratico, del mondo degli scopi, dei desideri e delle volizioni, intanto può esistere, in quanto deriva dalla volontà, cioè della capacità di agire non in base a leggi, ma in base alla rappresentazione delle leggi (cf. GMS, AA 04: 412; tr. it. Kant 1997b: 55 s.): caratteristica che fa della volontà una facoltà dei fini (cf. KpV, AA 05: 58 f.; tr. it. Kant 2006: 127). La legge, quale legge della volontà autonoma, in grado di connettere sistematicamente gli arbitri dei singoli, non può certo presupporre un fine, pena la sua caduta nell’eteronomia,
31 Sul punto è assai utile vedere quanto scrive Ivaldo 2012: 25.
32 Lo mette bene in evidenza Paton 1971: 70. È questa la base a partire da cui Vorländer 2003 si contrappone alla convinzione che una concezione formale dell’etica, quale quella kantiana, sia condannata a restare prova di contenuti.
33 Cf. RGV, AA 06: 30-31; tr. it., Kant 1995:30
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ma deve produrlo, se deve potersi porre non solo come norma esteriore, ma anche come movente interiore dell’agente morale; in quanto legge valida incondizionatamente, poi, il fine che essa deve produrre è altrettanto incondizionato, ossia è un fine in sé, valido soltanto negativamente, perché esso va soltanto rispettato e non realizzato (cf. GMS, AA 04: 437; tr. it. Kant 1997b: 109). L’uomo, in quanto essere razionale, trova nella legge morale il fine incondizionato del suo agire, e proprio per questo si sa, egli stesso, fine incondizionato, dimodoché dispone di un oggetto incondizionatamente finalistico del proprio agire, l’uomo stesso, che è tale solo perché egli è anche soggetto di questo fine incondizionato, senza che ciò voglia dire che sia l’origine della legislazione morale, come si comprende anche dalla circostanza che egli non è solo soggetto della legge, ma anche soggetto alla legge.
Il fine in sé diventa, nella Critica del Giudizio, scopo finale perché l’angolo visuale dal quale viene osservato è diverso rispetto a quello della Fondazione, in forza della circostanza che il compito del pensiero teleologico è quello di comprendere se nella natura intesa come intero finalistico si dia qualcosa come uno scopo finale di un’intelligenza divina. Il punto d’innesto dell’analisi è cioè, in questo caso, empirico (la natura come dato), per innalzarsi solo in una seconda fase ad un punto di vista interamente trascendentale pratico; il concetto di scopo finale è quindi oggetto del Giudizio riflettente, pur essendo un concetto pratico, perché non può non riferirsi alla natura come suo correlato. Il concetto, pratico, di scopo finale, in altre parole, viene svolto nella teleologia naturale perché ad esso si giunge non per la via che va dal principio morale all’azione nel mondo, bensì, direttamente, dal rapporto che unisce una natura teleologicamente intesa, quale luogo favorevole alla realizzazione del principio morale, e uomo, quale essere libero, attraverso la mediazione offerta dalla causalità teleologicamente incondizionata che gli è propria34 . È a quest’altezza del discorso, dunque, che il ponte tra filosofia teoretica e filosofia pratica, natura e libertà può dirsi effettivamente edificato; esso però non dev’essere riguardato come una riassunzione dell’una nell’altra, ma come articolazione di un passaggio che non può fondarsi su principî legislativi, perché questi, nel dare vita ad un nuovo dominio della filosofia, porrebbero soltanto come una ulteriori confini tra le parti che compongono il sistema del sapere razionale.
Senza il concetto di scopo finale, in definitiva, la teleologia della natura «non avrebbe un vero principio» (KU, AA 05: 435; tr. it. Kant 1997a: 557), perché non è possibile pensare il mondo come un intero teleologico se il complesso delle cause finali non viene riguardato come in sé conchiuso, ed è per questo che di esso «non si può ancora domandare per qual fine (quem in finem) esiste» (KU, AA 05: 435; tr. it. Kant 1997a: 555), pena la sua degradazione a mezzo per il fine per il quale esiste. Paradossalmente, però, lo scopo finale, che consente di determinare in maniera oggettiva la catena delle cause finali naturali, non è un essere solo naturale, ma è l’uomo «in quanto soggetto della moralità»
34 Brandt 2007: 485 ff., in merito all’assunzione, nella teleologia naturale, di un concetto determinante pratico come quello di scopo finale, sostiene, con argomentazioni non del tutto opposte, ma nemmeno del tutto sovrapponibili a quelle qui prodotte, il ruolo fondamentale del “Giudizio riflettente pratico”, cui Kant accenna in KU, AA 05: 456.
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(KU, AA 05: 435; tr. it. Kant 1997a:557), cioè in quanto soggetto ad un’altra legislazione, fondata sulla libertà. Lo scopo finale non può essere uno scopo naturale, perché solo uno scopo incondizionato conferisce senso al finalismo di una natura intesa come un totalità che tende all’organizzazione, che tale non potrebbe esser considerata in assenza di un terminus ad quem di tutta la sua organizzazione, che funga da riferimento nella sua opera per una suprema causa intelligente del mondo.
È soltanto dopo aver svolto queste considerazioni intorno allo scopo finale della creazione che risulta chiaro perché il concetto di fine non possa essere costitutivo per la filosofia naturale. Il concetto di un mondo sensibile finalisticamente organizzato coinciderebbe con quello di una volontà che, nel porre i suoi scopi, li realizzasse sotto forma di natura. Poiché però una tale volontà non può essere la nostra volontà, che, in quanto causa naturale, può bensì trasformare, ma non creare il mondo naturale, e, in quanto causa libera, può bensì essere incondizionata nel determinarsi, ma non incondizionatamente potente nella produzione di effetti nel mondo sensibile, questa può essere soltanto una volontà divina, collocata in un mondo soprasensibile, al di là di tutte le nostre conoscenze. Kant ha chiamato il mondo soprasensibile, che conterrebbe il legame tra natura e libertà, in modi diversi nelle sue opere precedenti la Critica del Giudizio: mondo morale, inteso come un mondo intelligibile nel quale i fini siano posti in unità sistematica, alla maniera di un regnum gratiae, nel Canone della ragion pura, regno dei fini nella Fondazione della metafisica dei costumi, sommo bene nella Critica della ragion pratica. La ricerca del legame tra natura e libertà risponde ad un’esigenza pratica più che teoretica: la legge morale, come forma unitaria di un molteplice, deve poter mirare al concetto di una totalità determinata, cioè a qualcosa che abbia la forma di un mondo; ma poiché questo mondo, che non è sensibile, non è, ma ha da essere, il punto di passaggio dal teoretico al pratico è oggetto di riflessione e non di piena conoscenza. Le riflessioni kantiane sullo scopo finale della creazione sono proprio per questo seguite da un paragrafo, il § 85, dedicato alla fisico-teologia, e, nei §§ 86-91, da una nuova formulazione di questioni etico-teologiche indispensabili per una piena e completa comprensione non tanto della teleologia naturale, che, come ‘speciale’ scienza della natura, gode della sua autonomia, ma di una visione compiutamente teleologica del reale, che risalga a Dio come suo fondamento mirante non alla conoscenza, ma alla saggezza35.
L’interrogazione sullo scopo finale della creazione, in definitiva, consente di vedere nel Giudizio riflettente qualcosa di teoreticamente più ricco di un semplice strumento epistemologico per inquadrare nei giusti schemi conoscitivi la natura organica, anche se non permette certo di trovarvi un mezzo col quale estendere la nostra conoscenza alla sfera
35 Goy 2018:234 ff. afferma, in un senso non troppo dissimile, che, sebbene solo regolativamente, la teleologia naturale può essere compresa come momento subordinato della teleologia morale e che a sua volta la libertà umana, in quanto propria di un essere finito, rimane una ‘causa seconda’ che, per essere pensata come pienamente inserita in un ordine di cause finali, ha bisogno di Dio come causa prima.
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del soprasensibile; se vogliamo prestare fede alla lettera del testo kantiano, secondo cui il Giudizio è in grado di collegare, senza fonderle, natura e libertà, bisogna rivolgersi con molta attenzione alle pagine della Metodologia del Giudizio teleologico, nelle quali viene delineato il passaggio dalla teleologia naturale alla teleologia morale e, con ciò, viene contestualmente disegnato l’intero orizzonte della teleologia rationis humanae, che può essere saldamente fondata solo in grazia di un principio pratico incondizionato, anche se la sua fondatezza di principio non è la garanzia del suo compimento nel mondo, perché costruire un ponte tra natura e libertà non vuol dire che la natura divenga tout court conoscibile o esperibile come un regno dei fini. Tuttavia, la teleologia rationis humanae può dirsi unitaria nella sua polivocità perché, infine, unitariamente convergente nella sfera del pratico, pur se ad essa non completamente riducibile.
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