La ricezione della Critica della facoltà di giudizio

nell’ermeneutica contemporanea (Heidegger, Gadamer, Figal)

 

The Reception of the Critique of the Power of Judgment

in Contemporary Hermeneutics (Heidegger, Gadamer, Figal)

 

Stefano Marino·

University of Bologna, Italy

 

Abstract

This article deals with the question of the reception and “history of effects” of Kant’s Critique of the Power of Judgment. More precisely, in the present contribution I take into examination some original and influential “appropriations” of Kant’s third Critique in the context of 20th-century and contemporary hermeneutics, providing both a reconstruction and a critical interpretation of the readings of Kant’s work provided by Martin Heidegger, Hans-Georg Gadamer and nowadays Günter Figal. In the first section I basically offer an overview of Kant’s conception of the power of judgment as an introduction to the topics investigated into detail in the following sections of this article. Then, I focus on the different interpretations of Kant’s Critique of the Power of Judgment offered by the abovementioned hermeneutical philosophers, showing that, in a quite surprising and theoretically stimulating way, in the development of a phenomenological-hermeneutical aesthetics and/or philosophy of art from Heidegger to Gadamer up to Figal, we can observe a progressive shift from a sort of “disinterest” in Kant’s conception of aesthetics in favour of Hegel’s philosophy of art (Heidegger), to an explicit critique of the supposed subjectivization of aesthetics by Kant and its problematic consequences (Gadamer), up to a full-blown rehabilitation and retrieval of the significance of Kant’s treatment of beauty in the third Critique as still essential for any serious philosophical aesthetics (Figal).

 

Keywords

Immanuel Kant. Critique of the Power of Judgement. Aesthetics. Phenomenology. Hermeneutics.

 

A Maria Teresa,

che per prima mi ha insegnato ad amare il pensiero di Kant.

 

1.

 

Come ha notato uno studioso estremamente attento del pensiero di Kant come Otfried Höffe, «un kantiano ortodosso [è] costretto a leggere la storia dell’influenza kantiana, persino in parti essenziali di essa, come storia di fraintendimenti produttivi» (Höffe 2002, p. 263). Se una tale massima, secondo Höffe, vale per la ricezione del pensiero kantiano in generale, nei più svariati ambiti della filosofia otto- e novecentesca ed a partire da approcci diversi al filosofare, possiamo dire che ciò appare tanto più vero nel caso di un’opera particolare di Kant come la Critica della facoltà di giudizio, la quale spicca per la sua complessità e, per così dire, eterogeneità anche all’interno del corpus stesso delle opere del filosofo di Königsberg. In linea generale, infatti, se è vero che, quanto più un’opera è articolata e complessa, tanto più è possibile che essa consenta (o addirittura esiga) interpretazioni diverse, allora si può dire che, sotto questo riguardo, il caso della Critica della facoltà di giudizio è davvero esemplare.

A tal proposito, basti solo pensare a come, nel Novecento, la Critica della facoltà di giudizio sia stata letta in maniere anche molto differenti fra loro da autori importanti come Adorno, Arendt, Bourdieu, Cassirer, Cavell, Cohen, Danto, Derrida, Deleuze, Dewey, Eco, Gadamer, Heidegger, Horkheimer, Lyotard, Marcuse, Plessner, Weil e altri ancora, al punto che – in una maniera forse un po’ ambiziosa, ma al contempo veritiera – potremmo spingerci a dire che una ricostruzione della ricezione novecentesca della terza Critica si presti bene a fungere da guida per un attraversamento mirato di buona parte della filosofia del secolo scorso (cfr., su ciò, Marino e Terzi 2020). Fra le letture un po’ più recenti – senza alcuna pretesa di completezza, ma unicamente a titolo esemplificativo per il presente discorso sulle diverse interpretazioni della Critica della facoltà di giudizio – è possibile ricordare come «[l]a sua importanza storica […] che ha ancora una sua attualità» sia stata individuata da Jean-Marie Schaeffer, per esempio, «in ciò che essa ci può insegnare circa lo statuto del discorso sull’arte»: più precisamente, nel fatto che «l’analisi della problematica estetica da lui proposta nella Critica del Giudizio [fornirebbe] anticipatamente una critica dei fondamenti logici della teoria speculativa dell’Arte» e, così, offrirebbe la possibilità di articolare dei «prolegomeni kantiani ad una estetica analitica» (Schaeffer 1996, pp. 9, 25; cfr. anche ivi, pp. 31-108). Laddove altri studiosi – sempre a proposito della ricchezza e pluralità delle interpretazioni recenti di questo testo kantiano – hanno scorto «il significato della svolta estetica di Kant nella terza Critica nel suo protendersi verso la categoria del sociale, che mancava nella precedente architettura filosofica di Kant» e che, secondo tale lettura, consentirebbe di collegare la Critica della facoltà di giudizio (soprattutto per via del suo ripensamento del modo di concepire la natura rispetto alla Critica della ragion pura) a certi sviluppi dell’estetica marxista, interpretando originalmente e anche un po’ provocatoriamente alcuni concetti presentati nella terza Critica come precursori di tematiche marxiane/marxiste come il feticismo o la reificazione (Wayne 2016, pp. 6, 45; su Marx e l’estetica, cfr. Gandesha e Hartle 2017). Ancora più di recente, alcuni strumenti concettuali offerti dalla riflessione kantiana nella prima parte della Critica della facoltà di giudizio, cioè la Critica della facoltà estetica di giudizio (Kant 1999, pp. 39-190), sono stati applicati a un tentativo di comprensione dell’affascinante ma sfuggente «logica dell’improvvisazione artistica» (Bertinetto e Marino 2020) oppure a un confronto con una delle più recenti e influenti tendenze del dibattito estetico contemporaneo come la Everyday Aesthetics (Leddy 2020). Al contempo, però, bisogna anche dire naturalmente che, se la Critica della facoltà di giudizio, «a ripercorrerne mentalmente le tante fortune e sfortune interpretative», può anche apparire un’opera «difficilmente determinabile nel suo disegno complessivo e nei suoi obiettivi salienti, disseminata di ambiguità e di oscurità», ciò d’altra parte non deve spingere affatto a trarre la conclusione che essa sia allora «interpretabile a piacere»: infatti, pur trattandosi di «un’opera ricchissima […] e forse qua e là anche un po’ disordinata e non completamente rifinita», la terza Critica è al tempo stesso un’opera «tematicamente e teoreticamente compatta» (Garroni 2003, pp. 3-4).

In parte, comunque, la suddetta complessità, articolazione e finanche eterogeneità della terza Critica non si deve solo alle sue numerose e variegate interpretazioni successive, ma scaturisce già dall’assetto interno e dai contenuti del testo stesso di Kant. Com’è noto, infatti, il fatto che Kant abbia dedicato solo tardivamente, cioè nel 1790, un’opera alla seconda delle tre facoltà conoscitive superiori (intelletto, facoltà di giudizio, ragione) elencate nella Critica della ragion pura e altrove, e cioè appunto alla Urteilskraft, non significa che tardiva sia stata la sua scoperta di questa stessa facoltà, per così dire. Dall’epistolario kantiano, infatti, sappiamo che risale soltanto al 1787 la scoperta del fatto che, oltre a quelli già esaminati nelle prime due Critiche, vi sia anche «un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti» (lettera di Kant a C.L. Reinhold del 28 dicembre 1787: in Kant 1990, p. 164). Un principio a priori, in questo caso, costituito dalla “finalità” o “conformità a scopi” (a seconda delle traduzioni del termine Zweckmäßigkeit) e riconducibile alla facoltà dell’animo del sentimento di piacere e dispiacere, la quale, a sua volta (facendo adesso riferimento non alla tripartizione delle facoltà dell’animo, bensì a quella delle facoltà conoscitive), appare caratterizzata da un legame intrinseco alla facoltà di giudizio (Kant 1999, § IX, p. 33). Proprio a partire dalla scoperta del principio a priori della conformità a scopi avviene il decisivo ampliamento del progetto iniziale relativo alla terza Critica, per diverso tempo concepita dallo stesso Kant come una semplice Critica del gusto. Infatti, ancora nelle lettere a C.G. Schütz del 25 giugno 1787, a L.H. Jakob dell’11 settembre 1787 ed a C.L. Reinhold del 28 dicembre 1787, Kant afferma di doversi dedicare «al Fondamento della critica del gusto» e alla «elaborazione della Critica del gusto», laddove nella lettera a Reinhold del 12 maggio 1789 egli parla ormai definitivamente di una «Critica del Giudizio (di cui la Critica del gusto costituisce una parte)» (Kant 1990, pp. 154-156, 164, 188). Com’è noto, un tale ampliamento del disegno originario dell’opera avviene solo col maturare in Kant della «convinzione che giudizi estetici e giudizi teleologici siano due diverse applicazioni della stessa facoltà di giudicare, sulla base dell’unico principio a priori della finalità» (Menegoni 2008, p. 18).

D’altra parte, dallo studio delle opere di Kant sappiamo bene che, a prescindere dalla questione più complessa relativa alla presenza o meno di un principio a priori autonomo della facoltà di giudizio, che è al centro della terza Critica (Kant 1999, p. 4), la semplice “scoperta” di tale facoltà va fatta risalire perlomeno ai tempi della prima Critica. Qui, infatti, la facoltà di giudizio fa la sua comparsa nella sezione intitolata Analitica dei principi, definita dallo stesso Kant come «un canone per la facoltà di giudizio» (Kant 2004, A132/B171, p. 295), là dove le funzioni di base di tale facoltà vengono individuate nel sussumere e distinguere (Caygill 1995, pp. 269-270), e là dove per “canone” si intende «l’insieme dei principi a priori dell’uso corretto» (ovvero, dell’applicazione) «di certe facoltà conoscitive in generale» (Kant 2004, A796/B824, p. 1123). Infatti, se l’intelletto, in generale, è definibile kantianamente come «la facoltà delle regole», la facoltà di giudizio è invece «la facoltà di sussumere sotto delle regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o non stia sotto una data regola» (Kant 2004, A132/B171, p. 295). Ecco, allora, che l’attenzione di Kant si sposta

 

dall’intelletto come facoltà delle regole al Giudizio come facoltà di sussumere sotto di esse. […] Tenuto conto che il problema da affrontare è quello dell’applicazione delle categorie ai fenomeni secondo una regola, va ora notato che da ognuno dei titoli (quantità, qualità, relazione e modalità), secondo cui sono raggruppate le categorie, possono essere ottenute regole tali che la sussunzione sotto di esse di un oggetto sanzioni l’applicazione a questo delle relative categorie. Si tratta di regole di connessione necessaria, non fondate esse stesse su conoscenze più alte e generali. Esse sono, cioè, dei principi. Un’analitica del Giudizio è dunque, necessariamente, un’analitica dei principi (Guerra 2007, p. 67; corsivi miei).

 

In questo contesto, mi preme sottolineare come emerga qui, quale compito dell’analitica dei principi in quanto «canone per la facoltà di giudizio», quello di insegnare alla facoltà di giudizio «come applicare ai fenomeni i concetti dell’intelletto, i quali contengono le condizioni per delle regole a priori» (Kant 2004, A132/B171, p. 295; sulla valenza applicativa della facoltà di giudizio, cfr. anche Kant 2012, § VI, pp. 69-71). Oltre a ciò, facendo sempre riferimento alla Critica della ragion pura e, nella fattispecie, alle indicazioni kantiane sul rapporto tra intelletto e facoltà di giudizio, c’è anche da osservare che, se il primo «è capace di essere istruito e attrezzato mediante delle regole», la seconda è invece per Kant una sorta di «talento particolare, che non può essere insegnato, ma solo esercitato» (Kant 2004, A133/B172, p. 295). Ciò trova conferma anche nell’Antropologia pragmatica, dove leggiamo:

 

il Giudizio (iudicium) non può essere istruito, ma soltanto esercitato; quindi il suo sviluppo si chiama maturità, ed è tale che non viene prima del tempo. […] Se [infatti] ci dovesse essere una istruzione per il Giudizio, allora ci dovrebbero essere delle regole generali, secondo cui si possa distinguere se qualche cosa rientra o no nella regola; il che rimanda la questione all’infinito. Il Giudizio dunque è quella forma di intelletto, di cui si dice che non viene prima del tempo; esso si fonda sopra una lunga esperienza (Kant 2009, § 42, pp. 85-86).

 

A questo punto, però, la trattazione kantiana della facoltà di giudizio nella prima Critica si interrompe improvvisamente, in una maniera che può apparire prematura, soprattutto se si tiene conto dell’importanza apparentemente assegnata a tale facoltà nel disegno complessivo dell’opera. Un’importanza, quest’ultima, che viene ribadita da Kant anche in un altro passaggio, in cui si afferma esplicitamente come l’analitica dei principi vada concepita nella sua interezza come una «dottrina trascendentale della facoltà di giudizio» (Kant 2004, A136/B175, p. 299). Alla luce di ciò, quindi, da un lato, «il concetto di facoltà di giudizio» sembra ricoprire quella che è stata enfaticamente definita «una posizione-chiave nella Critica della ragion pura» (Heintel e Macho 1981, p. 164); dall’altro lato, però, la lettura dei rapidi passaggi dedicati da Kant a questo argomento nella prima Critica rivela che probabilmente in quest’opera non era ancora possibile fornire un’effettiva fondazione trascendentale per la facoltà di giudizio. Infatti, se ci si pone la domanda su quale sia «la via che il Giudizio deve seguire […] per produrre contenuti di pensiero a livello di conoscenza e di scienza», si scopre inevitabilmente che, «a questo punto, sul Giudizio visto come facoltà» nella Critica della ragion pura «il discorso di Kant tace e non sarà più ripreso nel corso dell’opera» (Marcucci 1999, p. 96). Tenuto conto di tutto ciò, si può essere tentati di applicare anche alla facoltà di giudizio una considerazione di Oscar Meo originariamente sviluppata a proposito della nozione di schema nella prima Critica e dire che, «come tutte le strutture che in Kant operano una mediazione, il suo statuto non [è] chiaramente definibile» e presenta «qualche margine di indeterminatezza teoretica, di fluidità e di vaghezza» (Meo 2004, p. 91).

Ad ogni modo, ai fini del discorso che sto cercando di sviluppare in questo paragrafo introduttivo, ciò che conta maggiormente è che solo nella terza Critica, con la distinzione fra due modi di procedere della medesima facoltà di giudizio (cioè, determinante e riflettente), quest’ultima si spinge finalmente oltre lo statuto meramente applicativo fin qui delineato e acquista invece una funzione propria, spontanea, specifica e autenticamente “inventiva”. Soltanto adesso, cioè, il discorso sulla facoltà di giudizio sembra giungere a uno sviluppo pieno e completo nel pensiero di Kant (nonostante sia stato notato con accuratezza filologica che, a rigore, «sebbene la reflektierende Urteilskraft faccia la sua comparsa “ufficiale” molto tardi, soltanto nell’ultimissima fase di elaborazione dell’“estetica critica”, a stesura di KU già avviata, del suo affacciarsi all’orizzonte del pensiero di Kant si trova testimonianza o traccia [già] nei Kollegentwürfe, e non solo in quelli degli anni ’80, ma anche in quelli degli anni ’70»: Meo 2013, p. 12). Ad ogni modo, è bene specificare che, ammesso che si possa parlare qui di “compimento”, in questo caso tale termine non è affatto da intendere come sinonimo di “arresto” o “conclusione” nell’elaborazione concettuale, giacché nel caso della nozione di facoltà di giudizio mi sembra quanto mai pertinente ciò che ha scritto Hilary Putnam in altro contesto (cioè, a proposito della concezione kantiana dell’esperienza in generale): «Kant estende e approfondisce in continuazione la presentazione della sua concezione, e forse anche la concezione stessa» (Putnam 2013, p. 257). Oppure, addirittura, a questo riguardo si potrebbe essere tentati di applicare al caso specifico della facoltà di giudizio ciò che affermò Ernst Cassirer riguardo al particolare tipo di esperienza di lettura che si ha in generale con gli scritti di Kant, ovvero che

 

[s]i incontrano dovunque nuovi dubbi e questioni […]. Così i concetti divengono via via altri (da quello che parevano essere), a seconda del luogo in cui compaiono nella progressiva costruzione sistematica dell’insieme. Essi non sussistono fin dall’inizio come un sostrato immobile, quiescente, del movimento del pensiero, ma si sviluppano e si fissano solo in questo stesso movimento. Chi non tiene conto di questo tratto caratteristico, chi crede che il significato di un determinato concetto portante sia esaurito nella sua prima definizione e in tal senso cerca di tenerlo fermo e intatto lungo il procedere del pensiero come un termine immutabile – è già per forza di cose sulla strada di un’interpretazione errata (Cassirer 1997, pp. 170-171).

 

A tutto ciò che, fin qui, è stato detto a titolo meramente introduttivo a proposito della nozione di facoltà di giudizio che è al centro della terza Critica, bisogna poi ovviamente aggiungere, al fine di formarsi una prima idea della succitata articolazione e varietà interna dell’opera, il ben noto fatto che quest’ultima, una volta operato il passaggio dal progetto di una Critica del gusto a quello di una Critica della facoltà di giudizio, si viene a strutturare in due parti distinte, entrambe di notevole ampiezza e complessità. Due parti, com’è noto, rispettivamente dedicate alla facoltà estetica di giudizio e alla facoltà teleologica di giudizio come articolazioni particolari della facoltà riflettente di giudizio, la quale a sua volta, come si diceva poc’anzi, insieme alla facoltà determinante di giudizio costituisce una delle due modalità in cui si esplica l’operatività di questa facoltà conoscitiva. A ciò, però, bisogna poi aggiungere ovviamente che le stesse due parti della Critica della facoltà di giudizio, per parte loro, non appaiono affatto focalizzate semplicemente e univocamente su un’unica tematica ma, al contrario, comprendono al loro interno una pluralità straordinaria e, per così dire, irriducibile di temi e problemi, soprattutto nel caso della prima parte dell’opera, la Critica della facoltà estetica di giudizio. Una parte dell’opera, quest’ultima, alla quale ci si riferisce abitualmente con l’espressione “estetica kantiana” (sebbene, a voler essere rigorosi, la “vera” estetica di Kant rimanga l’Estetica trascendentale della prima Critica, laddove quella della terza Critica è appunto un’analisi critica della facoltà estetica di giudizio[1]) e la quale, com’è noto, include poi al suo interno riflessioni di enorme importanza su una varietà di questioni comprendenti l’analitica del bello e il giudizio di gusto nei suoi quattro momenti secondo la qualità, quantità, relazione e modalità (Kant 1999, §§ 1-22, pp. 39-76), l’analitica del sublime nelle sue due forme del sublime matematico e del sublime dinamico (Kant 1999, §§ 23-29, pp. 80-102), la natura comunicativa del gusto e il rapporto tra facoltà di giudizio e sensus communis (Kant 1999, §§ 39-41, pp. 128-134), il rapporto tra l’arte in generale, le belle arti e il genio (Kant 1999, §§ 43-53, pp. 139-166), la dialettica della facoltà estetica di giudizio e l’antinomia del gusto (Kant 1999, §§ 55-57, pp. 172-176), la relazione fra bellezza e moralità alla luce della distinzione essenziale fra schemi e simboli come «intuizioni, che vengono fornite a concetti a priori» (cioè, alla luce dell’idea secondo cui il «modo rappresentativo intuitivo […] può essere diviso in modo rappresentativo schematico e simbolico» e secondo cui solo quest’ultimo si applica in modo rigoroso al rapporto fra il bello e il bene: Kant 1999, § 59, p. 186), e molto altro ancora.

 

 

2.

 

Una volta esaurite queste premesse meramente introduttive sulla terza Critica, volte a chiarire molto rapidamente le affermazioni iniziali sulla complessità, articolazione e finanche eterogeneità di quest’opera di Kant, ritorniamo alla questione da cui avevamo preso le mosse: la questione, cioè, della ricezione novecentesca della Critica della facoltà di giudizio. Come evidenzia già il titolo di questo articolo, infatti, lo scopo limitato del presente contributo è quello di offrire una ricostruzione e un’interpretazione di un piccolo segmento della vicenda relativa alle avventure (e, qualche volta, disavventure) delle diverse letture della terza Critica che sono state offerte nella contemporaneità. Il piccolo e particolare segmento di questa vicenda, per così dire, che prenderò qui in esame è rappresentato dall’ermeneutica filosofica e, specificamente, da una delle varie linee interne a questa importante tradizione contemporanea di pensiero, a sua volta caratterizzata da una notevole complessità, eterogeneità e non di rado persino conflittualità (su ciò, cfr. ad esempio Bleicher 1986; Ferraris 1988; Bianco 1992 e 1998; Jung 2002). Mi riferisco, nel dire ciò, alla linea interna all’ermeneutica tedesca che, ancorando quest’ultima alla fenomenologia husserliana come perdurante fonte di ispirazione e come modello sul piano del metodo e dell’atteggiamento filosofico generale, a partire dalla riflessione di Martin Heidegger conduce al pensiero di Hans-Georg Gadamer e, al giorno d’oggi, alla proposta filosofica di Günter Figal[2]. Una linea interna all’ermeneutica contemporanea, quest’ultima, che appare anche singolarmente caratterizzata da una sequenza di rapporti diretti di discepolato, essendo Heidegger un allievo diretto di Husserl, Gadamer un allievo diretto di Heidegger e Figal un allievo diretto di Gadamer, e che, come vedremo, ha molto da offrire non soltanto sul piano del pensiero filosofico in generale, ma anche sul piano più particolare e specifico dell’interpretazione della terza Critica di Kant.

Prendendo le mosse da Heidegger e focalizzando la nostra attenzione, all’interno del suo pensiero e del corpus delle sue opere quanto mai vasto e labirintico (se si pensa al semplice fatto che il piano della sua Gesamtausgabe prevede ben 102 volumi), esclusivamente sui suoi principali scritti di filosofia dell’arte, è interessante notare come il primissimo paragrafo delle sue annotazioni del 1934 intitolate Per l’oltrepassamento dell’estetica. Note per “L’origine dell’opera d’arte” contenga un breve ma significativo riferimento a Kant. Scrive infatti Heidegger: «Il fatto storico che ogni estetica fondata in modo pensante (cfr. Kant) fa esplodere se stessa indica in modo infallibile che da una parte questo modo di interrogare l’arte non è casuale, ma che esso, d’altra parte, non è neppure essenziale» (Heidegger 2010, p. 37). È senz’altro utile fornire qui qualche rapido cenno e riferimento alle caratteristiche di questo testo, Per l’oltrepassamento dell’estetica. Note per “L’origine dell’opera d’arte”. Infatti, come spiega il curatore del testo, Friedrich-Wilhelm von Herrmann, le annotazioni pubblicate con questo titolo

 

sono tratte da una cartella a cui Heidegger ha dato il titolo complessivo Zur Überwindung der Aesthetik. Zu “Ursprung des Kunstwerks” 1934 ss. Questa datazione mostra che i lavori preparatori a Der Ursprung des Kunstwerks risalgono a prima del 1935, anno che nelle Nachweisen a Holzwege (GA 5) Heidegger ha indicato come quello della conferenza dal titolo Vom Ursprung des Kunstwerks, tenuta il 13 novembre 1935 presso la Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di Friburgo in Brisgovia. Nel vol. 5 (1989) degli “Heidegger Studies” è stata pubblicata la prima elaborazione di Vom Ursprung des Kunstwerks degli anni 1931 e 1932, che precede la conferenza di Friburgo, definita da Heidegger seconda elaborazione. Le tre conferenze tenute nel Freies Deutsches Hochstift di Francoforte sul Meno il 17, il 24 novembre e il 4 dicembre 1936, apparse in Holzwege con il titolo Der Ursprung des Kunstwerks, costituiscono, a detta dello stesso Heidegger, la terza elaborazione (Heidegger 2010, p. 37n).

 

Si tratta di considerazioni di rigorosa filologia heideggeriana, per così dire, che però risultano interessanti anche per gli scopi specifici del presente contributo. Infatti, come emerge chiaramente dal succitato riferimento a Kant nel passo sul carattere intrinsecamente problematico di «ogni estetica fondata in modo pensante (jede Aesthetik, die denkerisch gegründet ist)», nel momento stesso in cui Heidegger intraprende i primi passi nell’elaborazione della propria filosofia dell’arte in chiave “anti-estetica” o “oltre-estetica” – cioè, fondata sull’idea di un necessario “oltrepassamento (Überwindung)” o “superamento (Verwindung)” dell’estetica, in quanto parte anch’essa di quella tradizione metafisica che Heidegger mira appunto a “oltrepassare” o “superare” (cfr. Gentili 2003; Sallis 2005; Marafioti 2008, pp. 51-68, e 2010) –, egli si premura per prima cosa di prendere le distanze dall’estetica kantiana, seppure solo in forma di cenno rapido e, per la verità, anche un po’ criptico. Naturalmente, va notato che a una tale presa di posizione critica di Heidegger nei confronti di Kant e del suo «modo di interrogare l’arte (Fragen nach der Kunst)» si potrebbe facilmente obiettare che la terza Critica non è in prima istanza e a livello fondamentale una filosofia dell’arte, dato che, come abbiamo già visto, temi come quelli dell’arte e del genio fanno certamente parte della prima parte dell’opera (Critica della facoltà estetica di giudizio) ma senza svolgervi il ruolo principale e, anzi, risultando in parte marginali, o comunque meno essenziali, rispetto ai temi del bello (che per Kant include anche, se non soprattutto, il bello naturale accanto al bello artistico), del sublime, del gusto e del libero gioco tra facoltà conoscitive che si instaura nel concepimento e proferimento di un giudizio estetico, con tutto ciò che questo comporta anche al livello di un ripensamento generale della concezione della conoscenza.

Ad ogni modo, come risulta chiaramente dalle succitate considerazioni di filologia heideggeriana riguardo alle annotazioni del 1934 intitolate Per l’oltrepassamento dell’estetica. Note per “L’origine dell’opera d’arte”, già nel 1931 Heidegger intraprende la stesura di una primissima versione del testo che, con ampliamenti, approfondimenti e modifiche, nel giro di alcuni anni porterà gradualmente all’elaborazione di uno dei saggi più noti e influenti di tutta l’estetica novecentesca, cioè il testo L’origine dell’opera d’arte pubblicato poi nel 1950 come saggio d’apertura nel volume Sentieri interrotti. È bene tenere presente che solo due anni prima rispetto a quel 1931 Heidegger aveva dato alle stampe la sua celebre e controversa interpretazione della Critica della ragion pura nel libro Kant e il problema della metafisica, il che sta chiaramente a indicare che, soprattutto nel periodo immediatamente successivo a Essere e tempo, il confronto critico con la filosofia di Kant rappresentava per Heidegger una necessità imprescindibile al fine dello sviluppo del proprio stesso pensiero (sul confronto complessivo di Heidegger con Kant lungo tutto il suo Denkweg, cfr. lo studio oltremodo sistematico e completo di Marafioti 2011).

Alla luce di tutto ciò, da un lato, non stupisce il fatto che, nel 1934, il primo riferimento (seppur critico e criptico) di Heidegger alla tradizione estetica occidentale – che, non sapendo pensare l’arte e la bellezza in modo “originario” (nell’accezione heideggeriana del termine), farebbe «esplodere se stessa (sich selbst sprengt)» – sia proprio un riferimento a Kant. Sempre alla luce di tutto ciò, però, dall’altro lato, appare sorprendente che la lettura della versione definitiva di L’origine dell’opera d’arte evidenzi una sorta di “sparizione” del confronto critico di Heidegger con l’estetica di Kant. Nel saggio pubblicato in Sentieri interrotti, infatti, non sembra esserci alcuna traccia esplicita di un confronto approfondito di questo tipo con la terza Critica. Semmai, a emergere nel saggio L’origine dell’opera d’arte – che, com’è noto, si articola e si sviluppa principalmente intorno alla questione del rapporto fra arte e verità – è un riferimento importante all’Estetica di Hegel e alla sua celebre e variamente interpretata tesi della “fine dell’arte” o “morte dell’arte”, più che un riferimento alla Critica della facoltà di giudizio di Kant. Nel dire ciò, mi riferisco chiaramente alla tesi hegeliana del “carattere di passato (Vergangenheitscharakter) dell’arte”, con la quale il filosofo di Stoccarda intende fondamentalmente che, «[p]er noi, l’arte non è più il grado più alto per l’espressione dell’idea» (Hegel 2017, p. 4). Secondo Hegel, infatti, l’«arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza», giacché «[n]el progredire dello sviluppo culturale di ogni popolo giunge in generale l’epoca in cui l’arte rimanda oltre se stessa» e l’età contemporanea, a suo giudizio, corrisponde precisamente a una tale fase: «Si può, sì, sperare che l’arte s’innalzi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito» (Hegel 1997, p. 120). Scrive Hegel:

 

lo spirito del nostro mondo odierno […] appare come al di sopra della fase in cui l’arte costituisce il modo supremo di esser coscienti dell’assoluto. Il genere peculiare della produzione artistica e delle sue opere non soddisfa più il nostro bisogno più alto; noi siamo ben oltre il poter onorare in maniera divina e venerare le opere d’arte; l’impressione che esse fanno è di natura più ponderata, e quel che da esse è suscitato in noi richiede una pietra di paragone più alta e una conferma diversa. Il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato la bella arte. […] Qualunque atteggiamento si voglia assumere di fronte a ciò, è certo che ora l’arte non arreca più quel soddisfacimento dei bisogni spirituali, che in essa hanno cercato e solo in essa trovato epoche e popoli precedenti. […] Perciò il nostro tempo, per la sua situazione generale non è favorevole all’arte. […] Per tutti questi riguardi l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato. Con ciò essa ha perduto pure per noi ogni genuina verità e vitalità (Hegel 1997, pp. 14-16; su ciò, cfr. ad esempio Gethmann-Siefert 1993; Geulen 2002; Ophälders 2014; Vieweg, Iannelli e Vercellone 2015; Romagnoli 2016; Siani 2017[3]).

 

A tal riguardo, alla fine del saggio L’origine dell’opera d’arte Heidegger si richiama esplicitamente a quella che chiama la «meditazione più vasta – perché pensata in base alla metafisica – che l’Occidente possegga intorno all’essenza dell’arte, [le] Lezioni di estetica di Hegel», e si domanda appunto se l’arte sia «ancor oggi una maniera essenziale e necessaria in cui si storicizza la verità decisiva per il nostro Esserci storico» oppure no, concludendo che l’«ultima parola intorno a questa affermazione di Hegel [scil. quella del “carattere di passato dell’arte”] non è ancora stata detta» (Heidegger 1997, p. 63). Parecchi anni dopo, nella lettera a Rudolf Krämer-Badoni del 25 aprile 1960, Heidegger comunque specificherà:

 

nella postfazione al mio saggio [Holzwege, pp. 66-67] cito Hegel, concordando con la tesi secondo cui “quanto alla sua suprema destinazione, l’arte è per noi qualcosa che appartiene al passato”, [ma] ciò non vuol dire né aderire alla concezione hegeliana dell’arte né affermare che l’arte sia alla fine. Desidero piuttosto dire che l’essenza dell’arte è per noi degna di essere interrogata. Io non “posso fermarmi a Hegel” perché non sono mai stato con lui, lo impedisce l’abissale differenza nella determinazione dell’essenza della “verità” (Heidegger 2010, pp. 89-91).

 

Secondo Heidegger, com’è noto, l’«opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità (das Sich-ins-Werk-Setzen der Wahrheit)» (Heidegger 1997, p. 25). Al fine di articolare concettualmente e chiarire il rapporto tra opera d’arte e verità (intesa da Heidegger come Unverborgenheit, in quanto “traduzione” del greco aletheia), nelle prime parti del saggio L’origine dell’opera d’arte ci si serve soprattutto degli esempi della pittura di van Gogh e del tempio greco e si introduce una celebre coppia di concetti, quelli di “Mondo (Welt)” e “Terra (Erde)”, in riferimento ai quali Heidegger enuncia i «due tratti essenziali dell’esser opera dell’opera»: rispettivamente, l’«esporre un Mondo (Aufstellen einer Welt)» e il «porre-qui la Terra (Herstellen der Erde)». Di questi due “tratti costitutivi (Wesenszüge)” dell’opera d’arte, però, Heidegger non si limita a fornire delle descrizioni isolate ma ne ricerca piuttosto l’intima unità, la quale è rinvenibile proprio nella loro “lotta (Streit)”. Heidegger, infatti, afferma che «[i]l Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo», e che ciascuno dei due tratti, nella misura in cui mira a imporsi sull’altro, mostra al tempo stesso di averne essenzialmente bisogno, cosicché «[i]l contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta (das Gegeneinander von Welt und Erde ist ein Streit)» nella quale «ha luogo l’unità dell’opera» (Heidegger 1997, pp. 33-35). Sulla base della centralità assunta dalla questione relativa alla verità dell’opera d’arte e, come ho detto poc’anzi, sulla base della rielaborazione anche da parte di Heidegger della celebre questione relativa alla “fine” o “morte” dell’arte (così come da parte di Adorno, Gadamer, Gehlen, Danto e molti altri autori importanti del Novecento: su ciò, cfr. Valagussa 2013, Vercellone 2013), alla fine del saggio L’origine dell’opera d’arte emerge in modo esplicito il succitato rilievo conferito da Heidegger al confronto critico con la riflessione di Hegel su questi temi, laddove un confronto di pari livello e importanza con il pensiero estetico di Kant sembra essere assente in questo contesto[4]. Riferendosi proprio alla sorprendente e, a seconda dei punti di vista, forse anche problematica assenza di un confronto approfondito con la Critica della facoltà di giudizio nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, in un suo contributo recente Günter Figal ha parlato esplicitamente di uno “spazio vuoto (blank space)” che non manca di suscitare interrogativi a chi voglia occuparsi del rapporto tra la filosofia dell’arte di Heidegger e l’estetica di Kant. Scrive infatti Figal:

 

Heidegger presents the philosophical project of aesthetics without mentioning the book that in general is most closely associated with it: Kant’s Critique of the Power of Judgment. In Heidegger’s considerations on aesthetics and art Kant’s groundbreaking examination of aesthetic experience is just a blank space. […] As it seems Heidegger did not feel challenged by Kant’s third Critique; the book did not speak to him. […] Since Heidegger hardly could underestimate Kant’s contribution to modern philosophy of art, his understanding of aesthetics must be of such a kind that he saw no need to take Kant’s contribution into account or, even more likely, that he wished to avoid it. Since Heidegger could not seriously regard Kant’s contribution to aesthetics as marginal, he maybe skipped it because it might have been a serious challenge of Heidegger’s view on aesthetics and thus also of his own thinking on art (Figal 2020, pp. 61-62).

 

A tal proposito, tenuto conto anche della significativa contemporaneità fra la versione definitiva di L’origine dell’opera d’arte (1935-36) e il corso universitario La volontà di potenza come arte (1936-37) svolto da Heidegger presso l’Università di Friburgo, è importante non trascurare la sezione di quest’ultimo intitolata Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia dell’estetica. Qui, infatti, muovendo dalla premessa secondo cui «la riflessione nietzscheana sull’arte si muove in linea con la tradizione […] determinata nel suo carattere peculiare dal nome “estetica”» e secondo cui, pertanto, per poter comprendere fino in fondo «l’interpretazione nietzscheana dell’essenza dell’arte», è necessario prima «connotare l’essenza dell’estetica, il suo ruolo entro il pensiero metafisico e il suo riferimento alla storia dell’arte europea» (Heidegger 1994, pp. 86, 88), Heidegger offre una serie di osservazioni che, nonostante la loro brevità, si rivelano molto importanti e dense di contenuti. In estrema sintesi, i “fatti fondamentali” della storia dell’estetica elencati ed esaminati da Heidegger sono: (1) la mancanza di una «riflessione speculativo-concettuale» sull’arte nell’età della «grande arte greca», dovuta al fatto che una tale cultura possedeva «un sapere talmente originario e lucido, e una tale passione per il sapere, da non avere bisogno, in tale lucidità del sapere, di una “estetica”» (Heidegger 1994, pp. 88-89), cioè di una sorta di spiegazione o giustificazione concettuale “a posteriori” dell’arte; (2) la nascita della filosofia dell’arte greca «all’epoca di Platone e di Aristotele» – ovvero, dal punto di vista critico di Heidegger, «nel momento in cui la grande arte, ma anche la grande filosofia che le è parallela, si approssimano alla fine» – e la coniazione, in quel contesto, di una serie di «concetti fondamentali che da allora definiscono l’orizzonte di ogni posizione della questione dell’arte» (Heidegger 1994, p. 89); (3) l’imporsi, in età moderna, della soggettività come istanza filosofica fondamentale e la conseguente relegazione dell’arte «allo stato sentimentale dell’uomo, alla aisthesis»: il che, secondo Heidegger, segna per l’arte la perdita della «sua essenza, [del] riferimento diretto al suo compito fondamentale di rappresentare l’assoluto» (Heidegger 1994, p. 92); (4) la piena comprensione, nel diciannovesimo secolo, della «fine della grande arte», cioè del fatto che, «[n]el momento storico in cui l’estetica raggiunge la sua massima altezza, vastità e rigore di sviluppo possibili, la grande arte è alla fine», e la grande concettualizzazione di tale fenomeno fornita da Hegel in quella che Heidegger, come abbiamo visto, reputa l’«estetica ultima e massima dell’Occidente» (Heidegger 1994, p. 93); (5) il tentativo, nel corso di quello stesso secolo, di riesumare il fantasma di un’«opera d’arte totale» che riesca nuovamente a elevare l’arte al livello di «un bisogno assoluto» – laddove però bisogna constatare che per l’umanità dell’Ottocento «l’assoluto viene ormai esperito soltanto come il puro indeterminato, come la completa dissoluzione nel sentimento puro» (e qui Heidegger fa riferimento alla concezione wagneriana del Gesamtkunstwerk) – e, inoltre, a partire dal fallimento di una tale metafisica artistica, il progressivo sviluppo di un «sapere dell’arte» ormai inteso come mero «esperire e indagare i puri fatti della storia dell’arte», come «vera e propria indagine scientifica della storia dell’arte» (Heidegger 1994, pp. 96, 98); (6) infine, la trasformazione dell’estetica, operata proprio da Nietzsche, in «fisiologia dell’arte» e, con ciò, il definitivo compimento della «posizione estetica della questione dell’arte», la quale con il filosofo di Così parlò Zarathustra viene ormai «pensata fino in fondo nelle sue ultime conseguenze»: «l’estetica come fisiologia applicata» (Heidegger 1994, pp. 99-100).

Riassumendo, si può dire che lo schema heideggeriano relativo ai suddetti “fatti fondamentali” della storia dell’estetica sia quello di una progressiva decadenza riguardante l’arte e, soprattutto, la riflessione filosofica sull’arte, cioè appunto l’estetica, la quale, proprio in base al suo impianto generale, secondo Heidegger «assume l’opera d’arte come un oggetto, e precisamente come l’oggetto della aisthesis, della apprensione sensibile» che al giorno d’oggi «prende il nome di esperienza vissuta (Erlebnis)» (Heidegger 1997, p. 62). Con una frase indubbiamente molto forte e significativa che, volendo, è anche collegabile a certi sviluppi recenti del dibattito sulla cosiddetta estetizzazione del mondo e la parallela vaporizzazione dell’arte (cfr. Michaud 2019), Heidegger constata infatti: «l’“esperienza vissuta” in quanto tale diventa decisiva. L’opera è ormai soltanto un attivatore di esperienza vissuta» (Heidegger 1994, p. 95). Non è certo un caso, sotto questo punto di vista, che nel famoso saggio L’epoca dell’immagine del mondo Heidegger citi criticamente, fra le manifestazioni essenziali dell’età moderna, anche il «processo in virtù del quale l’arte è ricondotta nell’orizzonte dell’estetica [e] l’opera d’arte si trasforma in oggetto dell’esperienza vissuta» (Heidegger 1997, p. 72): un processo, quest’ultimo, la cui radice è individuata da Heidegger proprio nel costituirsi dell’uomo a “soggetto” nella modernità. Così come non deve affatto stupire, alla luce di quanto è stato detto fin qui, l’avvertenza di Heidegger al lettore, posta in apertura alla raccolta di saggi La poesia di Hölderlin, secondo cui le sue «Delucidazioni non pretendono di essere contributi alla ricerca storiografica sulla letteratura o all’estetica», giacché esse non sono l’esito di una mera indagine estetica (in base al punto di vista critico di Heidegger sull’estetica, chiaramente) ma, in maniera molto più enfatica e ambiziosa, «scaturiscono da una necessità del pensiero» (Heidegger 2001, p. 3). Forse persino più esplicita, per certi versi, è la presa di posizione critica di Heidegger in un altro corso universitario friburghese pressoché coevo agli scritti sull’arte e l’estetica precedentemente citati, cioè Introduzione alla metafisica del 1935, dove si legge che, mentre gli antichi Greci «intendono per “bellezza” il domare (Bändigung)», il «confluire insieme dei più cospicui sforzi antagonistici», per gli uomini moderni e contemporanei «il bello è invece ciò che rilassa, che riposa, e risulta per questo fatto per il godimento»: il che, secondo Heidegger, implica che l’«estetica intende tutto ciò», cioè l’arte e la bellezza, «in modo diverso» rispetto a come esse erano intese originariamente e ancora oggi andrebbero intese correttamente:

 

L’arte è per essa [scil. l’estetica] rappresentazione del bello nel senso di ciò che piace, del gradevole. Invece l’arte è il manifestarsi dell’essere dell’essente. Bisogna dare alla parola “arte” e a ciò che essa vuole significare, un nuovo contenuto, riguadagnando una posizione originaria di base per ciò che concerne l’essere (Heidegger 1990, p. 140).

 

Ora, tutto ciò è non soltanto interessante in sé, cioè in relazione allo studio e all’approfondimento della filosofia dell’arte di Heidegger in quanto tale, ma è anche significativo e ricco di implicazioni ai fini del nostro discorso sulla particolare (e spesso nient’affatto aproblematica) ricezione della Critica della facoltà di giudizio nell’ermeneutica contemporanea. Infatti, la dura e serrata critica di Heidegger all’impostazione fondamentalmente soggettivistica di tutto il pensiero moderno, compresa dunque l’estetica filosofica, va a ripercuotersi quanto meno implicitamente, e talvolta anche esplicitamente, pure sull’impostazione di fondo della terza Critica e, quindi, sul ruolo decisivo di Kant all’interno della nascita e dello sviluppo dell’estetica degli ultimi secoli. A tal proposito, è importante notare come nel succitato corso La volontà di potenza come arte, subito dopo la summenzionata sezione Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia dell’estetica, Heidegger inserisca una sezione specificamente dedicata al tema La dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e di Nietzsche. Qui Heidegger, pur soffermandosi principalmente su Nietzsche (dato che il contesto generale è appunto quello di una serie di lezioni universitarie sul filosofo di Così parlò Zarathustra), dedica comunque alcune riflessioni al modo in cui Kant avrebbe affrontato il tema della bellezza e al modo in cui, a suo avviso, andrebbe interpretata in particolare la dottrina kantiana del compiacimento estetico “disinteressato” al fine di mettere al riparo tale dottrina da facili ma altresì fatali fraintendimenti. Per prima cosa, Heidegger definisce molto nettamente la Critica della facoltà di giudizio di Kant come l’«opera nella quale è esposta l’estetica» (Heidegger 1994, p. 114), ovvero l’opera in cui sarebbe esposta, come abbiamo già visto, una concezione essenzialmente “errata” di determinate tematiche perché “viziata” da determinati pregiudizi che affondano le loro radici nella tradizione metafisica nel suo insieme, secondo il punto di vista critico di Heidegger sulla storia della metafisica come storia dell’“oblio dell’essere (Seinsvergessenheit)”. A ciò il filosofo di Essere e tempo fa seguire alcuni rapidi riferimenti ai §§ 2-5, 57 e 59 della terza Critica (Kant 1999, pp. 40-46, 173-176, 185-189), sempre al fine di mostrare come Schopenhauer e poi, sulla sua scia, anche Nietzsche avrebbero frainteso e distorto il significato autentico dei «concetti fondamentali kantiani di “piacere” e di “riflessione”», «come [già] per il concetto di “interesse”» (Heidegger 1994, p. 119). Neanche qui, dunque, si può dire che si giunga a un confronto approfondito da parte di Heidegger con la Critica della facoltà di giudizio nella sua interezza e complessità, o anche solo con la prima parte dell’opera nel suo insieme (cioè, quella sulla facoltà estetica di giudizio), a conferma della succitata diagnosi di blank space recentemente offerta da Figal. Ciononostante, rimane sicuramente degno di nota quello che Heidegger afferma a proposito di un momento specifico dell’analisi kantiana del bello in questa stessa sezione del corso La volontà di potenza come arte, là dove egli scrive:

 

per trovare bello qualcosa, [per Kant] dobbiamo lasciare che sia ciò in cui ci imbattiamo a venirci dinanzi puramente come tale, nel suo proprio rango e nella sua dignità. […] Il comportamento nei confronti del bello in quanto tale, dice Kant, è il libero favore (freie Gunst); dobbiamo lasciare libero in quello che è, come tale, ciò in cui ci imbattiamo. […] Ma questo libero favorire – domandiamo ora –, questo lasciare che il bello sia quello che è, è una sospensione della volontà, è indifferenza? O questo libero favore non è piuttosto lo sforzo sommo del nostro essere, la liberazione di noi stessi per lasciare libero ciò che ha in sé un propria dignità, affinché l’abbia soltanto in modo puro? […] [C]oncependo l’essenza dell’interesse in maniera più netta, ed escludendo quindi l’interesse dal comportamento estetico, Kant non fa di quest’ultimo qualcosa di indifferente, ma crea la possibilità che questo comportamento in rapporto all’oggetto bello sia ancora più puro e più intimo. L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere uomo, nel quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza (Heidegger 1994, pp. 116, 119).

 

Seppure sullo sfondo di un mancato confronto esplicito e approfondito con l’estetica kantiana da parte di Heidegger nei suoi testi principali (primo fra tutti, il succitato saggio L’origine dell’opera d’arte), e seppure sullo sfondo di una concezione fondamentalmente e finanche radicalmente negativa dell’estetica nel suo insieme per le succitate ragioni (in gran parte riconducibili all’idea heideggeriana della storia della metafisica come storia dell’“oblio dell’essere”), cionondimeno queste ultime osservazioni sul tema della freie Gunst sembrano dischiudere uno spazio parzialmente diverso. Ovvero, lo spazio per un confronto più proficuo fra l’atteggiamento disinteressato (e dunque libero) verso gli oggetti nel discorso di Kant sul bello, da un lato, e l’atteggiamento di libera apertura del Dasein all’accadere dell’essere nel pensiero di Heidegger, dall’altro, con conseguenze notevoli anche a proposito del ripensamento del concetto stesso di libertà (su ciò, cfr. La Bella 2017).

 

 

 

3.

 

Com’è noto, uno dei lasciti fondamentali di Heidegger alla filosofia contemporanea, oltre che nelle sue opere ovviamente, risiede anche nel suo magistero e nella sua influenza (soprattutto per via di alcuni suoi “leggendari” corsi universitari a Friburgo e Marburgo) su un ampio numero di studiosi di filosofia allora molto giovani e promettenti che, nei decenni successivi, avrebbero offerto contributi autonomi di notevole rilievo sul piano del pensiero. Fra questi allievi, perlomeno due si sono distinti anche per la loro importanza sul piano della ricezione novecentesca della Critica della facoltà di giudizio, dischiudendo linee interpretative originali rispetto al testo kantiano che, a loro volta, non hanno mancato di generare delle vere e proprie “storie degli effetti”. Nel dire ciò, mi riferisco a Hannah Arendt, con la sua ormai famosa interpretazione in chiave politica della nozione di facoltà estetica di giudizio nella terza Critica di Kant (cfr. Arendt 1990), e a Hans-Georg Gadamer, con la sua non meno influente lettura della Critica della facoltà di giudizio alla luce del perdurante significato della “tradizione umanistica” nella nostra epoca tecno-scientifica e delle sue implicazioni ermeneutiche (su ciò, cfr. Marino 2011).

Tralasciando di soffermarci qui sull’interpretazione arendtiana e addentrandoci invece nella lettura gadameriana della terza Critica (anche per via di alcune sue convergenze con le succitate prospettive della filosofia dell’arte di Heidegger), possiamo dire per prima cosa che uno dei punti centrali della cosiddetta “estetica ermeneutica” di Gadamer è rappresentato dall’idea di una perdita, che si sarebbe venuta a determinare negli ultimi secoli, del profondo significato dell’esperienza estetica, con il suo decadimento a «una specie di accessorio (Ergänzung), una molteplice modalità di sgravio (eine vielfache Art der Entlastung) dalla tensione provocata dall’esistenza» (Gadamer 1973, p. 25). Secondo Gadamer, l’origine di tale fenomeno andrebbe colta nel graduale imporsi, nell’Ottocento e nel Novecento, di un’inarrestabile tendenza a «slegare l’opera d’arte dall’unità del suo mondo» ed a prescindere «da tutto ciò in cui un’opera si radica come nel suo originario contesto vitale (ursprünglicher Lebenszusammenhang)», al fine di rendere «l’opera […] visibile come “pura opera d’arte”», «nel suo puro essere estetico» (Gadamer 2000, pp. 193-195). Tale operazione, significativamente denominata da Gadamer “differenziazione estetica (ästhetische Unterscheidung)”, si fonderebbe sul preliminare affermarsi, nel pensiero moderno soggettivisticamente e coscienzialisticamente impostato (secondo la visione critica della modernità offerta da Heidegger, che Gadamer almeno in parte riprende), dell’idea di “coscienza estetica (ästhetisches Bewußtsein)”, la quale secondo Gadamer costituirebbe appunto una tendenza ampiamente diffusa nel mondo moderno, la cui effettiva influenza sul rapporto che ciascuno di noi stabilisce con l’arte deriverebbe proprio dal fatto che una tale coscienza estetica «si crea anche una concreta esistenza esterna» e «manifesta la sua produttività approntando delle [apposite] sedi» (Gadamer 2000, p. 197). Fra queste sedi e istituzioni, ad esempio, spicca soprattutto il museo, inteso da Gadamer come un vero e proprio correlativo sociale della differenziazione estetica.

Com’è noto, il capolavoro filosofico di Gadamer, Verità e metodo, si apre con una prima parte dedicata al recupero dei concetti-guida umanistici, al trascendimento della soggettivizzazione dell’estetica inaugurata secondo Gadamer proprio da Kant, al recupero del problema della verità dell’arte e all’esplicazione di un’ontologia dell’opera d’arte (Gadamer 2000, pp. 31-361). «L’estetica deve risolversi nell’ermeneutica (Die Ästhetik muß in der Hermeneutik aufgehen)» (Gadamer 2000, p. 353) è la frase-chiave posta a sigillo di questa prima parte del libro. Quindi, Verità e metodo prosegue con una seconda parte dedicata a un’analisi critica dell’ermeneutica romantica e dello storicismo ottocentesco, alla trasformazione novecentesca dell’ermeneutica da metodica delle “scienze dello spirito (Geisteswissenschaften)” a dottrina filosofica universale e, infine, all’elaborazione di una teoria dell’esperienza ermeneutica incentrata sul recupero di alcune nozioni fondamentali (pregiudizio, autorità, classicità, distanza temporale, applicazione) che si connettono poi fra loro nella nozione più ampia e comprensiva di “coscienza della determinazione storica (wirkungsgeschichtliches Bewußtsein)” (Gadamer 2000, pp. 365-779). Dopo la seconda parte, sfociante nell’elaborazione del suddetto concetto di coscienza della determinazione storica, Verità e metodo si chiude quindi con una terza parte dedicata a un’analisi critica della filosofia del linguaggio occidentale e all’individuazione del possibile orizzonte di un’ontologia ermeneutica nella “linguisticità (Sprachlichkeit)” dell’uomo (Gadamer 2000, pp. 783-997). «La linguisticità del comprendere è il concretarsi della coscienza della determinazione storica» e «l’essere che può venir compreso è linguaggio (Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache)» sono la frasi-chiave poste a sigillo della terza e ultima parte del libro (Gadamer 2000, pp. 795, 965).

Come dicevamo poc’anzi, in Verità e metodo Gadamer prende posizione in maniera decisamente critica contro la cultura moderna, sia a un livello generale, per via della sua eccessiva tendenza a conferire un primato unilaterale al sapere tecnico-scientifico, e sia a un livello particolare, nel caso delle questioni estetiche che qui ci interessano, per via dell’inarrestabile tendenza moderna all’impoverimento dell’esperienza con l’arte, esemplificato da ciò che abbiamo precedentemente chiamato la “musealizzazione” di quest’ultima. In una tale tendenza moderna, infatti, Gadamer sembra scorgere una segreta volontà di neutralizzare il potenziale insito nelle creazioni artistiche e di confinare l’esperienza estetica entro le mura di un luogo “sicuro” e separato dal resto del mondo. Sia in Verità e metodo, sia in diversi contributi successivi, Gadamer sottolinea inoltre come l’artista stesso, nel corso dell’epoca moderna, sia andato progressivamente smarrendo il proprio posto nella società e, con ciò, il senso della propria attività. A prima vista, infatti, la cultura moderna sembrerebbe garantire unicamente maggiore libertà e indipendenza creativa e persino un innalzamento del ruolo sociale dell’artista, ma in realtà, dietro tutto ciò, per Gadamer è possibile scorgere la relegazione di quest’ultimo in uno spazio ristretto ed esclusivo dal quale non è più possibile esercitare una concreta influenza sul resto della società. Come si legge nel saggio L’attualità del bello, ad esempio, l’artista moderno

 

non vive più in una comunità, ma si crea egli stesso una comunità (er schafft sich eine Gemeinde), con tutto il pluralismo che consegue da questa situazione e con tutte le accresciute aspettative che vi sono necessariamente connesse […]. Questa è in realtà la coscienza messianica dell’artista […] che col suo appello rivolto agli uomini si sente quasi una specie di “nuovo redentore” (wie eine Art “neuer Heiland”): egli porta un nuovo messaggio di riconciliazione, e paga questa pretesa restando un estraneo nella società, in quanto con la sua artisticità egli è ormai soltanto un artista per l’arte (Gadamer 1986, p. 7).

 

Per queste e ancora altre ragioni, Gadamer ritiene in generale che, nell’«età industriale in cui viviamo», si vada diffondendo «una cultura estetica morente (eine absterbende ästhetische Kultur)» che «possiede più il carattere di una riserva ben protetta che non quello di appartenere al nostro mondo» (Gadamer 2002a, p. 174). In particolare, nel nostro mondo che «diventa sempre più uniforme in ogni sua parte» e che opera «un livellamento di tutte le forme vitali (Nivellierung aller Lebensformen)», si assisterebbe secondo Gadamer alla trasformazione dell’esperienza estetica in «semplice e casuale riempimento di spazi del tempo libero» (Gadamer 1996, p. 129). Ciò, ai suoi occhi, rappresenterebbe «inequivocabilmente un sintomo del venire meno dell’autentico significato dell’opera d’arte» e, addirittura, «una specie di sottosviluppo [della] nostra cultura» (Gadamer 2002b, p. 170). E ciò, ricollegandoci adesso al discorso svolto nei primi due paragrafi del presente contributo, spinge Gadamer a intraprendere un’operazione critica o persino “distruttiva” nei confronti di quella che gli sembra essere l’impostazione di fondo dell’estetica moderna, al punto che, a tal riguardo, alcuni interpreti hanno esplicitamente parlato di una «distruzione dell’estetica (Destruktion der Ästhetik) in nome dell’arte» compiuta nella prima parte di Verità e metodo (Grondin 2001, pp. 112-113)[5].

È proprio in questo contesto che il ruolo fondamentale svolto dalla Critica della facoltà di giudizio si appalesa anche agli occhi di Gadamer, il quale però, a differenza di Heidegger, non si sottrae a un esplicito confronto critico col testo kantiano e, anzi, si sofferma con attenzione e precisione (sebbene anche con una certa parzialità esegetica, perlomeno in alcune occasioni) sulla terza Critica. In estrema sintesi, il cuore dell’argomentazione di Gadamer risiede nella messa in luce di come il pensiero moderno, screditando progressivamente ogni forma di sapere differente da quello delle scienze naturali, sia pervenuto anche a una fatale svalutazione della nostra esperienza con l’arte. Secondo Gadamer, un ruolo-chiave in questa vicenda sarebbe stato svolto da quell’«avvenimento epocale (Epochenereignis)» rappresentato dal pensiero di Kant, che egli non esita a definire una vera e propria «rivoluzione nel modo di pensare», un’autentica «cesura a partire dal quale si calcola il prima e il dopo» (GW 4, p. 336). Se ciò, in generale, si applica a tutte le questioni filosofiche prese in esame da Kant, nel caso specifico delle questioni estetiche il riferimento è ovviamente alla Critica della facoltà di giudizio, in quanto opera fondamentale per la nascita e lo sviluppo dell’estetica moderna.

Bisogna dire che il confronto di Gadamer con la terza Critica è di lunga data – come testimoniato già dal saggio Zu Kants Begründung der Ästhetik und dem Sinn der Kunst (Gadamer 1939) – e, soprattutto, è molto ampio e complesso, nella misura in cui egli, soprattutto nella prima parte di Verità e metodo, prende in esame le dottrine dei rapporti tra gusto e genio, tra bellezza libera e bellezza aderente, tra bello di natura e bello artistico, e ancora altri aspetti del pensiero estetico kantiano (Gadamer 2000, pp. 109-135). Per gli scopi limitati del presente contributo, mi limiterò a dire che il punto fondamentale è probabilmente rappresentato dal fatto che Kant, secondo Gadamer, avrebbe sì legittimato l’autonomia della dimensione estetica, ma al prezzo di una significativa riduzione della sua rilevanza. Ciò, nel senso che kantianamente «il giudizio estetico non dà assolutamente alcuna conoscenza, nemmeno confusa, del suo oggetto», giacché l’autore della Critica della ragion pura avrebbe «considerato razionale solo il metodo delle scienze naturali e l’imperativo categorico morale, relegando nell’ambito della soggettività e del sentire, del genio e della coscienza estetica, l’esperienza dell’arte e l’esercizio del gusto critico» (Perniola 1997, pp. 83, 94). Il che, sulla base di quanto è stato detto poc’anzi, risulta problematico e persino gravido di conseguenze negative per un filosofo come Gadamer, il cui pensiero ermeneutico appare complessivamente orientato proprio dall’esigenza di riscattare e, anzi, valorizzare la verità extrametodica di ambiti quali la storia, le scienze dello spirito, il linguaggio e, appunto, l’arte: una verità, quest’ultima, non dimostrabile scientificamente né sfruttabile tecnologicamente, ma cionondimeno di vitale importanza per l’esistenza umana. Come è stato notato,

 

secondo Gadamer, Kant […] avrebbe favorito la diffusione dell’idea che l’arte e l’esperienza estetica costituiscano [solo] il “dominio della bella apparenza”, isolato da contesto storico e sociale dei suoi concreti rapporti con il mondo. […] Storicamente questo processo si affermerebbe con il sorgere delle moderne istituzioni artistiche (il museo e l’accademia, il teatro e la sala da concerto) con il loro atteggiamento distaccato nei confronti delle opere d’arte, e, sul piano teorico, soprattutto con la teoria kantiana del Giudizio estetico (Modica 1997, p. 78).

 

Oltre a ciò, un aspetto fondamentale dell’interpretazione gadameriana della terza Critica consiste nell’enfatica sottolineatura del fatto che Kant avrebbe sì recepito nella sua concezione del bello, dell’arte, del gusto e del genio la profonda e duratura eredità sedimentatasi nei cosiddetti “concetti-guida umanistici” (Bildung, sensus communis, gusto, facoltà di giudizio), ma – secondo Gadamer – avrebbe al contempo operato una radicale decontestualizzazione e finanche depoliticizzazione di tali concetti. Questi ultimi, infatti, un tempo densamente intessuti di aspetti non soltanto estetici ma anche etici, culturali e politici (tutti proficuamente intrecciati fra loro), con Kant e soprattutto dopo Kant sarebbero stati invece radicalmente soggettivizzati ed estetizzati, cioè ricondotti unilateralmente nell’ambito di un’esteticità problematicamente isolata da ogni contesto vitale al fine di coglierla in modo presuntivamente “puro”, in ultima analisi, nella presenzialità immediata e irrelata dell’Erlebnis (cfr. Gadamer 2000, pp. 85-145). Scrive Gadamer: «[l]a giustificazione trascendentale del Giudizio estetico fondò l’autonomia della coscienza estetica […]. La radicale soggettivizzazione che era implicita nella nuova fondazione dell’estetica operata da Kant ha fatto veramente epoca» (Gadamer 2000, p. 107).

Naturalmente, una tale lettura della terza Critica, oltre a risultare singolarmente diversa, se non proprio opposta, rispetto a quella di Arendt, incentrata viceversa sulla tesi di un’inedita politicizzazione del giudizio di gusto in Kant (su ciò, cfr. Marino 2012), non ha mancato di suscitare in generale dubbi e resistenze da parte di alcuni interpreti. A tal proposito, bisogna dire che lo stesso Gadamer in seguito ha parzialmente ritrattato la lettura della terza Critica offerta in Verità e metodo, ammettendo di aver interpretato in quel libro «la Critica della facoltà di giudizio [solo] sul suo significato per la filosofia dell’arte» e di averla quindi sottoposta a «un’interrogazione parziale» (Gadamer 2002a, p. 35), tenuto conto della varietà, complessità e finanche eterogeneità di quest’opera su cui abbiamo sinteticamente richiamato l’attenzione nel primo paragrafo del presente contributo. Estremamente interessante ed esemplificativo, in tal senso, può risultare il confronto fra un saggio di poco precedente rispetto a Verità e metodo, come La problematicità della coscienza estetica del 1958 (Gadamer 1986, pp. 61-70), che essenzialmente presenta in forma più sintetica alcune delle tesi-chiave esposte appunto nella prima parte di Verità e metodo, e un saggio molto più tardo come Intuizione e perspicuità del 1980 (Gadamer 2002a, pp. 23-40), nel quale si offre una prospettiva più ampia e si ammette che «la tradizionale collocazione della Critica della facoltà di giudizio nell’estetica e nella filosofia dell’arte resta parziale e problematica. La terza Critica di Kant non intendeva dare un nuovo fondamento all’estetica. Il suo oggetto aveva un significato di principio molto diverso» (Gadamer 2002a, p. 35).

Ad ogni modo, tenendo fermo qui all’interpretazione critica dell’estetica kantiana e postkantiana offerta da Gadamer in Verità e metodo (cioè nel libro che, a prescindere da parziali revisioni o ritrattazioni successive, rimane in ogni caso il contributo filosofico più importante fornito da questo pensatore), possiamo dire che, secondo la lettura offerta da Gadamer, «la fondazione dell’estetica nella soggettività delle energie dell’animo», elaborata nel modo più compiuto e sofisticato proprio da Kant, avrebbe dato il via a «una pericolosa soggettivizzazione» facilmente collegabile anche alla «teoria della sregolatezza del genio» (Gadamer 1987, pp. 88-89). Una soggettivizzazione, quest’ultima, destinata peraltro ad accentuarsi ulteriormente nel corso dell’Ottocento, sino a sfociare secondo Gadamer nella netta contrapposizione tra l’oggettività delle scienze e la (presunta) mera soggettività dell’arte, con la conseguente relegazione dell’esperienza estetica in un ambito di irrealtà ed extrarazionalità interpretabili, a seconda dei punti di vista, come detentrici di una superiore spiritualità e verità o, viceversa, di mera gratuità, irrilevanza e superfluità. Il punto, però, è che per Gadamer nessuna di queste due false alternative è in grado di rendere giustizia all’esperienza conoscitiva insita nell’arte. A suo giudizio, infatti, ciò che è necessario a tal fine è proprio spezzare il predominio di un’impostazione subordinata al “fatto delle scienze”, basata sulla dicotomia soggetto/oggetto e incapace di pensare in maniera alternativa rispetto a tali schemi. Sotto questo punto di vista, alcuni interpreti hanno affermato che «l’aspetto principale della discussione sull’arte svolta in Verità e metodo» consisterebbe in un vero e proprio «rifiuto dell’estetica, perché essa», considerata nel suo complesso, non avrebbe mai smesso di «orientarsi sulla base dei concetti di oggetto e di verità desunti dall’ambito delle scienze naturali» (Hammermeister 1999, p. 78). Secondo tali letture, anche Gadamer, al pari di Heidegger, riterrebbe che «la teoria estetica in generale [sia] un tentativo filosofico relativamente recente, reso possibile dal rivolgimento cartesiano verso il soggetto e sospinto da problematiche e preoccupazioni di tipo epistemologico», il quale riduce la complessità dell’esperienza estetica «al modo in cui l’opera d’arte appare al soggetto» (Hance 1997, p. 134). Sulla base di tutto ciò, ecco allora che, in Verità e metodo, alla “distruzione” della “coscienza estetica (ästhetisches Bewußtsein)” e della nozione di “differenziazione estetica (ästhetische Unterscheidung)” a essa correlata Gadamer fa seguire un’analisi fenomenologica dell’esperienza con l’arte che, infine, mette capo alla nozione di “non-differenziazione estetica (ästhetische Nichtunterscheidung)”. Una nozione, quest’ultima, che mira proprio a segnalare come, di fronte a «tutto quel che ha la stabilità di un’opera d’arte», si realizzi una «solidarietà nella ricezione», una «condivisione di ciò che è comune (Teilhabe an dem Gemeinsamen)», una «enunciazione (Aussage) nel segno di una comunanza e di una verità che unisce tutti» e che, pur non essendo metodicamente verificabile, è cionondimeno vincolante ed esistenzialmente rilevante: nell’esperienza estetica, dunque, si realizza qualcosa di simile a «un autentico dialogo, dove il colloquio procede in una direzione che non può essere preventivata» (Gadamer 2002a, pp. 46-50).

 

4.

 

Dopo avere sinteticamente esaminato, nel contesto del presente contributo sulla ricezione dell’estetica kantiana nel contesto dell’ermeneutica contemporanea, l’interpretazione critica della Critica della facoltà di giudizio offerta da Gadamer e il confronto con la terza Critica solamente accennato da Heidegger (perlomeno in termini espliciti, giacché non è naturalmente da escludere un’implicita eredità kantiana in diversi concetti heideggeriani), in quest’ultimo paragrafo intendo soffermarmi sul confronto esplicito (e, a differenza che nei primi due casi, positivo e costruttivo) con la Critica della facoltà di giudizio da parte di un filosofo contemporaneo attivo nell’ambito del pensiero ermeneutico attuale: Günter Figal. Studioso importante di Heidegger e autore di contributi significativi sul pensiero dell’autore di Essere e tempo (Figal 2006a, 2006b), nonché allievo diretto di Gadamer e prosecutore del discorso filosofico dell’ermeneutica (Figal 2007), negli ultimi anni Figal ha lavorato molto intensamente alla delineazione di un proprio percorso autonomo di pensiero all’interno della cornice di una fenomenologia ermeneuticamente orientata (o, se si preferisce, di un’ermeneutica fenomenologicamente orientata). Una siffatta esigenza di autonomia filosofica lo ha portato anche a prendere le distanze da diversi aspetti delle filosofie dei suoi autori di riferimento, cioè appunto Heidegger e Gadamer, e ciò, come vedremo, non manca di offrire spunti e rilievi interessanti ai fini di un confronto con la Critica della facoltà di giudizio in chiave fenomenologico-ermeneutica.

Su un piano filosofico generale, la succitata esigenza di autonomia filosofica ha trovato espressione soprattutto nell’ampio trattato sistematico Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia (Figal 2012), su cui mi soffermerò nella prima parte del presente paragrafo, laddove su un piano più specificamente estetico Figal ha poi sviluppato il proprio discorso nel libro Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia (Figal 2015), su cui mi soffermerò invece nel secondo sottoparagrafo. Proprio nella prima parte di Il manifestarsi dell’arte, come vedremo, trova posto anche un’approfondita disamina dell’estetica kantiana e, soprattutto, della concezione kantiana della bellezza, che Figal non esita a riprendere e rivalutare anche in funzione critica nei confronti delle filosofie dell’arte “anti-estetiche” (nell’accezione precedentemente chiarita) di Heidegger e Gadamer. Tuttavia, poiché Il manifestarsi dell’arte costituisce in un certo senso uno sviluppo in ambito specificamente estetico della concezione filosofica presentata in Oggettualità, prima di arrivare all’estetica e alla filosofia dell’arte di Figal (e, in particolare, alla sua interpretazione della Critica della facoltà di giudizio) sarà opportuno fornire alcuni cenni generali alla fenomenologia ermeneutica esposta per l’appunto in Oggettualità.

 

4.1.

 

Oggettualità presenta un quadro organico, completo e “totalizzante” (nell’accezione migliore del termine, da un punto di vista filosofico) del pensiero di Figal, nella forma classica del trattato filosofico e del discorso sistematico che, dopo aver chiarito nei primi capitoli in cosa consista l’annunciata transizione dall’ermeneutica filosofica alla filosofia ermeneutica e come vada inteso il fenomeno ermeneutico fondamentale (cioè l’interpretare, nella sua strettissima relazione con l’oggettualità), prende in considerazione, nell’ordine, i temi del mondo come spazio ermeneutico, della libertà, del linguaggio, del tempo e, infine, della vita. In Oggettualità Figal definisce esplicitamente il proprio pensiero come “filosofia ermeneutica”. Ora, a prima vista la dizione “filosofia ermeneutica” potrebbe anche non destare particolare attenzione, vista la frequente abitudine a usare in maniera piuttosto indifferente, e persino a scambiare tra loro, le nozioni di “ermeneutica filosofica” e “filosofia ermeneutica”. Per Figal, però, un siffatto uso dei termini nasconde sottili insidie ed è foriero di equivoci e incomprensioni su ciò che è realmente in gioco in queste due differenti possibilità del pensiero ermeneutico. Al chiarimento di questa complessa trama di relazioni, prospettive e sviluppi è interamente dedicato il primo e fondamentale capitolo  del libro, intitolato proprio Dall’ermeneutica filosofica alla filosofia ermeneutica e volto a delineare una sorta di itinerario che, muovendo dall’imprescindibile confronto con le principali tappe dell’ermeneutica filosofica otto- e novecentesca (l’ermeneutica delle scienze dello spirito di Dilthey e, in parte, ancora di Gadamer; l’ermeneutica della fatticità di Heidegger, ripresa ma anche trasformata in profondità da Gadamer, «senza che ciò [però] possa essere notato a prima vista» [Figal 2012, p. 31]; infine, l’ermeneutica come filosofia pratica, ancora una volta impostata dal giovane Heidegger negli anni Venti ma compiutamente ed esplicitamente dispiegata solo da Gadamer negli anni Sessanta-Settanta), approda infine a un’idea matura e compiuta di filosofia ermeneutica. Una filosofia ermeneutica che ha appunto nel problema dell’oggettuale il proprio cuore teorico e principale centro d’interesse, intorno al quale si irradia una molteplicità di temi coerentemente connessi fra loro. Secondo Figal,

 

nell’esperienza ermeneutica abbiamo a che fare con qualcosa di diverso da noi, con qualcosa che ci si oppone e che così facendo ci lancia una sfida. L’esperienza ermeneutica è esperienza dell’oggettuale – di ciò che è qui e ora, affinché corrispondiamo a esso, e che tuttavia non viene assorbito in nessun tentativo di corrispondere. Per questo, nella misura in cui costituisce il tema ermeneutico, l’oggettuale deve collocarsi al centro del pensiero ermeneutico. L’oggettualità è il tema capitale della filosofia impostata in termini ermeneutici. […] Come si mostrerà, l’interpretazione è l’esplorazione dell’oggettuale. Essa esplora l’oggettuale rappresentandolo (Figal 2012, pp. 9-11).

 

A giudizio di Figal, però, se ci si continua a muovere esclusivamente all’interno di un quadro di pensiero heideggeriano-gadameriano non risulta possibile rendere adeguatamente giustizia al tema-chiave dell’oggettualità. Innanzitutto, infatti, nonostante l’ermeneutica venga abitualmente identificata con una filosofia incentrata sul concetto di interpretazione, né Heidegger né tantomeno Gadamer, a suo giudizio, avrebbero adeguatamente tematizzato e valorizzato tale concetto. Addirittura, secondo Figal, «l’interpretazione non svolge alcun ruolo in Verità e metodo» (Figal 2012, p. 1267), il che, per certi versi, sembra trovare conferma anche nei rilievi critici di un’altra eminente esponente del pensiero ermeneutico contemporaneo, Donatella Di Cesare, secondo la quale l’ermeneutica di Gadamer «non è una filosofia dell’interpretazione. Non si è mai intesa in tal modo» (Di Cesare 2007, p. 282). Riguardo, poi, al tema specifico dell’oggettualità, come si legge nel § 13 di Oggettualità, «la filosofia moderna ha avuto difficoltà con l’oggettuale. […] Non appena nella filosofia moderna viene scoperta l’oggettualità, si pone subito il problema di come superarla» (Figal 2012, p. 367). Ciò contraddistinguerebbe, fra le altre, anche le filosofie di Husserl e Heidegger: in particolare, secondo Figal, le obiezioni rivolte da Husserl alla fondamentale tendenza matematizzante-oggettivante della scienza sarebbero state estese da Heidegger anche alla filosofia che, «con il suo atteggiamento teoretico nei confronti del mondo», avrebbe sviluppato «il modello per la scienza. In quanto “obiettivazione” l’atteggiamento teoretico in rapporto alla vita umana» equivarrebbe allora, per l’autore di Essere e tempo, «a una “devitalizzazione” che occulta l’esperienza vitale originaria» (Figal 2012, p. 377). Secondo Figal, Husserl e Heidegger riuscirebbero dunque a «distanziarsi dalle determinazioni dogmatiche della scienza» e a risalire «all’attuazione non obiettiva della vita o dell’esserci, per mettere in luce una connessione di senso in base a cui si può dischiudere il senso di ciò che si presume sia l’obiettivo», ma al tempo stesso lascerebbero senza risposta «il problema relativo alla possibilità della stessa obiettivazione. Non vi è nessuna via che conduca fuori dall’immanenza […] della vita o dell’esserci», anche se «d’altro canto non si può contestare che qualcosa sia “fuori”» (Figal 2012, p. 379).

Se, dunque, caratteristici del pensiero moderno sono quelli che Figal non esita a chiamare dei veri e propri «tentativi di de-oggettivazione» – fondamentalmente dovuti alla «preoccupazione che, nel rivolgerci verso l’elemento esteriore, ci consegniamo ad esso e possiamo perderci in esso» (Figal 2012, pp. 379, 387), ossia al timore che l’oggettivazione debba necessariamente sfociare nell’alienazione e nella reificazione –, allora ecco che la sua filosofia ermeneutica si ripropone, in un certo senso, un’autentica riabilitazione della centralità della nostra relazione agli oggetti. Ne scaturisce dunque una centralità dell’oggettuale, inteso come ciò che «si presenta di fronte […] e allora, almeno per un momento, si oppone»; una centralità, per la nostra esperienza del mondo in generale, «dell’esteriorità delle cose» e finanche del fatto «che noi stessi siamo anche una cosa fra cose» (Figal 2012, pp. 387, 391, 397). Per poter sviluppare appieno questa tematica e, in particolare, per poter afferrare in maniera adeguata la connessione ermeneutica fondamentale di «interpretazione, comprendere e oggettualità [che] si coappartengono» (Figal 2012, p. 411), secondo Figal è però indispensabile riabilitare anche un particolare tipo di impostazione filosofica, per così dire. Si tratta della «impostazione della contemplazione», di una contemplazione intesa come «delucidazione concettuale dell’ermeneutico in base alla sua possibilità nel mondo» e che è essenzialmente fenomenologica, nel senso che «in essa è in gioco una fenomenologia dello spazio ermeneutico inteso come mondo» (Figal 2012, p. 409).

Tutto ciò è intimamente connesso a un altro aspetto fondamentale della filosofia di Figal, emerso già nelle parti di Oggettualità in cui il filosofo tedesco si confronta criticamente con la succitata tendenza – propria sia di Heidegger, sia di Gadamer – a concepire l’ermeneutica filosofica «come una variante del sapere pratico», ossia in base al modello dell’etica aristotelica «come “filosofia pratica”» (Figal 2012, p. 83). In questo modo, secondo Figal, Heidegger e Gadamer manifesterebbero però implicitamente un pregiudizio antiteoretico – riconducibile alla loro (erronea) identificazione della teoria, in generale, con i metodi oggettivanti e con il «sapere meramente constativo, separato dal proprio essere», della «teoria scientifica» – e, soprattutto, cadrebbero nella difficoltà di non saper rispondere alla domanda su «come deve essere possibile una filosofia pratica senza il suo riferimento, per Aristotele essenziale, alla filosofia teoretica» (Figal 2012, p. 83). Figal, invece, parla senza mezzi termini di una «inaggirabilità dell’elemento teoretico» e di un’alternativa possibile «fra il sapere-per-sé» valorizzato dall’ermeneutica come filosofia pratica, da un lato, e «il freddo, disinteressato constatare» della scienza moderna, dall’altro (Figal 2012, pp. 85, 87). Si tratta, in sintesi, di quell’ideale di contemplazione di cui abbiamo parlato poc’anzi, che corrisponde «esattamente [a] quello che Husserl aveva definito come essenza dell’epoché» e che sfocia nell’idea di «un comprendere pensato in base alla fenomenologia e nel quale è già operante ciò che si può manifestare come atteggiamento specificamente fenomenologico. Con esso», continua Figal, si apre «la possibilità di un’ermeneutica come fenomenologia. Per questo essa dovrebbe, anche in base all’impostazione fenomenologica, potersi sviluppare come filosofia ermeneutica, invece di essere ermeneutica filosofica» (Figal 2012, p. 87). In altre parole, per Figal, l’interpretare va concepito

 

come un atteggiamento teoretico nel senso della theoria o contemplatio; è un conoscere libero da ogni volontà di modificare le cose e da ogni orientamento verso una meta. Interpretare qualcosa significa sempre: interrompere la comprensione immediata, rivolta all’applicazione e alla realizzazione, chiedendosi cosa è in verità ciò con cui abbiamo a che fare, quale significato e quale senso ha (Figal 2012, p. 1267).

 

Fondamentale, all’interno della filosofia dell’oggettualità di Figal, è in particolare la questione del rapporto fra le nozioni di mondo e vita, o più precisamente la questione della Lebenswelt. A tal proposito, Figal afferma chiaramente che il «problema conclusivo» del libro concerne «il concetto guida per la descrizione dell’“essere” nel mondo, che non è essere», come forse verrebbe spontaneo pensare seguendo Heidegger, «ma vita» (Figal 2012, p. 13). Non a caso, il settimo capitolo del libro, intitolato proprio Vita e ricco di riferimenti ad autori come Merleau-Ponty e Plessner, contiene alcune delle analisi più preganti e significative dell’intero libro, per esempio là dove Figal si spinge fino a definire l’uomo come «un essere vivente ermeneutico» per il fatto che «l’aspetto peculiare della vita umana risiede nel rappresentare (Darstellen)», nel «non poter fare a meno del rappresentare e di rappresentazioni» (Figal 2012, p. 1023); oppure, là dove egli prende in esame la differenza, centrale per l’intera tradizione della fenomenologia ma anche per l’antropologia filosofica novecentesca, tra la dimensione della corporeità racchiudibile nel concetto di corpo (Körper) e quella definibile col concetto di soma (Leib), ovvero corpo organico, corpo vivo, corpo vivente (cfr. Figal 2012, pp. 1107-1125). Da ultimo, nelle pagine conclusive del libro riemerge con forza il tema centrale di tutta l’opera, là dove si legge che «ogni ricognizione conduce là dove già sempre siamo prima di ogni relazionarsi a sé; conduce fuori, nel mondo delle cose»: gli oggetti «sono eminentemente i correlati della rappresentazione, vale a dire dell’interpretazione e quindi anche del comprendere. Nel loro opporsi ricordano l’originarietà della vita […]. La misura di tutte le cose non è l’uomo. Proprio nel momento in cui gli stessi oggetti rifiutano ogni risposta e tanto più un’ultima risposta, danno una misura, in base a cui l’uomo può rendersi conto della sua esteriorità»; in ultima analisi, allora, sono proprio gli oggetti che «ci fanno essere aperti al mondo e ci fanno continuamente scoprire quel senso del contemplare e rappresentare che entra in gioco in ogni vita umana» (Figal 2012, p. 1175).

 

4.2.

 

Fra i numerosi sviluppi che un pensiero filosofico come quello esposto in Oggettualità consente di intraprendere, spicca in particolare, come ho già detto, la prosecuzione di tale discorso nel campo dell’estetica, sulla base dell’idea secondo cui «le opere d’arte non sono solo oggettuali. Sono gli oggetti e così i correlati ermeneutici par excellence», ovvero sono «oggetti in senso eminente»: «le opere d’arte sono essenzialmente manifestazioni; la loro essenza è la fenomenicità» (Figal 2012, pp. 1269-1270). È un campo, quello dell’estetica filosofica, al quale Figal ha apportato un contributo significativo con il succitato libro Il manifestarsi dell’arte. Il punto di partenza dell’indagine di Figal in quest’ultimo libro è rappresentato proprio da un’iniziale ricostruzione storico-interpretativa di alcuni sviluppi novecenteschi dei rapporti tra filosofia e arte, e, di qui, a un chiarimento dei rapporti tra filosofia dell’arte ed estetica (Figal 2015, pp. 48-67), da concepire sicuramente come vicine e affini, eppure non come immediatamente coincidenti. Come spiega Figal fin dall’Introduzione a Il manifestarsi dell’arte, l’intento della sua ricerca è quello di

 

connettere fra loro i punti di forza della filosofia dell’arte e dell’estetica filosofica, evitando i loro punti deboli. Si tratta di descrivere, nel modo più preciso possibile, la costituzione essenziale delle opere d’arte, tenendo presente un punto: le opere d’arte sono identificabili come tali, perché richiedono da sé un atteggiamento specifico, vale a dire l’atteggiamento estetico (Figal 2015, p. 17).

 

Già una tale intenzione di non abbandonare sic et simpliciter il percorso dell’estetica filosofico, di non dichiararlo tout court “viziato” da certi pregiudizi del pensiero moderno e dunque incapace di insegnarci a concepire in maniera adeguata l’esperienza con l’arte, segna un’evidente presa di distanza, da parte di Figal, dalle filosofie dell’arte a carattere marcatamente “anti-estetico” di Heidegger e Gadamer, con tutte le implicazioni che ciò comporta anche per la ricezione della Critica della facoltà di giudizio. Il cuore profondo o, se si vuole, il centro teoretico dell’estetica di Figal può essere individuato nella nozione di “manifestazione” o, se si vuole, di “fenomeno”, cioè di Erscheinung, che è assolutamente centrale per Figal, come suggerito dal radicamento fenomenologico della sua indagine nonché dal titolo stesso del libro (Il manifestarsi dell’arte, nella felice scelta del traduttore italiano, laddove si deve tenere presente però che l’originale tedesco è Erscheinungsdinge, cioè “cose manifestative”). Figal definisce la manifestazione come «uno stato di cose complesso» in cui «una presenza [viene] tratta in risalto», in cui «qualcosa che si manifesta [è] presente per qualcuno»; la definisce come «il terzo elemento che abbraccia ambedue» questi elementi, «connettendoli fra loro», ovvero la definisce husserlianamente come «una correlazione» (Figal 2015, pp. 93, 95-96, 103 ss.). In tale quadro generale, il bello viene definito quindi come «manifestazione con massima intensità», come «un manifestarsi, che non è altro se non il manifestarsi stesso», e, a partire da qui, le opere d’arte appaiono dunque come «manifestazioni in sé», «pure manifestazioni» o anche «fenomeni par excellence», trattandosi degli «unici fenomeni che l’osservatore fenomenologico reperisce in un modo tale che, per riconoscerli come fenomeni, può far leva sulla “percezione originariamente offerente”» (Figal 2015, pp. 97-98, 110).

Alla luce dell’idea delle opere d’arte come «compagini manifestative» (Figal 2015, p. 113) si può dunque comprendere anche l’ambizioso sottotitolo del libro: Estetica come fenomenologia. Per Figal, infatti, non soltanto l’estetica deve avere un carattere e un approccio fenomenologico (senza che ciò si traduca peraltro nell’assunzione di un atteggiamento dogmatico che esclude a priori la proficuità di altre correnti di pensiero), ma «con il riferimento all’apparenza estetica e all’arte» si trasforma «la stessa fenomenologia» (Figal 2015, p. 101). Ciò è dovuto al fatto che gli oggetti propri dell’estetica, vale a dire le succitate “cose manifestative”, si rivelano essere determinanti e, dunque, imprescindibili per la fenomenologia in quanto tale, cioè per una migliore comprensione delle sue possibilità essenziali. A tutto questo segue, nell’elaborazione dell’estetica di Figal, un esame della fenomenicità dell’arte, sulla base dei concetti di “mostrare” e “mostrarsi”, che mette capo all’idea di un «mostrare auto-ostensivo delle opere d’arte», di un loro «mostrarsi che mostra»: in quanto «cose manifestative [esse] sono pure manifestazioni», «sono completamente ostensive», «mostrano qualcosa senza riserve» e senza alcun «rimando a qualcosa che si trova al di fuori di esse, bensì a guisa di un presentare» (Figal 2015, pp. 128, 139). Ne deriva il compito di «chiarire lo specifico carattere ostensivo» delle singole «forme fondamentali dell’arte» (Figal 2015, p. 139): un compito, quest’ultimo, che Figal affronta specificamente attraverso i concetti di “determinazioni essenziali” e “mescolanze” che gli consentono di distillare, per così dire, i caratteri o principi fondamentali del figurale, del musicale e del poetico, e di avviare quindi un’esplorazione del molteplice configurarsi di tali “forme manifestative” nel concreto realizzarsi dei prodotti artistici. L’ambiziosa tesi di Figal, allora, è quella secondo cui

 

tutte le opere d’arte deriv[a]no da una mescolanza delle tre forme illustrate. […] Un’opera d’arte si rivela allora determinata da più forme artistiche; è una mescolanza di queste forme. […] Quindi un’opera è bella, e con ciò una vera opera d’arte, solo nella mescolanza delle forme artistiche; questa stessa mescolanza è un ordine decentrato realizzato ogni volta in maniera individuale. Da un punto di vista formale, un’opera d’arte è tanto bella quanto più intimo è il nesso delle forme artistiche in essa (Figal 2015, pp. 184, 191, 194).

 

Da ultimo, in Il manifestarsi dell’arte Figal prende in esame la questione della «peculiare spazialità dell’opera d’arte» e, di qui, della stessa esperienza estetica, il cui chiarimento serve anche a rendere definitivamente comprensibile e coglibile «in modo adeguato alla cosa stessa» quello che l’autore chiama il «carattere manifestativo e oggettuale» dell’arte (Figal 2015, p. 252). L’idea di Figal, sintetizzando molto, è che le opere d’arte rendano possibile compiere «l’esperienza della spazialità […] in modo eminente», in maniera «particolarmente pronunciata», di modo che «la spazialità delle opere d’arte» (a cui Figal, sulla base di un concetto particolarmente ampio di spazio, sembra decisamente accordare una preminenza rispetto all’aspetto della temporalità, anche nel caso di arti come la poesia e la musica) diviene «la chiave per comprendere la spazialità» in generale, cioè il nostro stesso senso dello spazio (Figal 2015, p. 255). In altre parole, ogni opera d’arte per Figal «ha una propria spazialità fenomenica»: essa «non solo [accorda] uno spazio, ma [è] anche in sé spaziale», e «la spazialità appartiene all’essenza delle opere d’arte» (Figal 2015, pp. 268, 273-274). «Lo spazio dell’opera d’arte», spiega ancora Figal, «è determinato in quanto tale unicamente dal mostrarsi. È spazio deittico o fenomenico», e, a sua volta, affinché sia possibile il manifestarsi delle opere, è necessario che queste ultime abbiano un luogo adeguato per mostrarsi e che l’esperienza con esse – che per Figal, come abbiamo detto, è di tipo eminentemente contemplativo – sia compiuta a un’adeguata distanza (Figal 2015, pp. 265, 273). L’ultimo nesso concettuale che scaturisce a partire da qui è quello che conduce in modo molto suggestivo, e non senza riferimenti anche a forme di esperienza estetica proprie delle culture orientali, a prendere in esame il “vuoto” e il “qui”, ovvero l’assoluta presenzialità e dunque anche autonomia dell’opera d’arte. Per “vuoto”, spiega Figal, s’intende qui «ciò per cui qualcosa può essere ciò che è. Cosa è dobbiamo perciò pensarlo in base al vuoto. L’arte mostra come ciò sia possibile»: «il manifestarsi delle opere d’arte è […] un gioco di mostrarsi, mostrare e vuoto», di riempimenti e svuotamenti alternati, per così dire. Il vuoto non è quindi «un fondo oscuro o abissale», bensì

 

ciò che è semplicemente senza fondo, infondato, né fondante né fondabile. Lascia essere, nient’altro. […] Il libero manifestarsi, vale a dire la bellezza, viene dal vuoto. […] Nella bellezza, senza fondamento, senza scopo, come è, siamo massimamente vicini al vuoto. È così, perché l’esperienza del bello è una esperienza del lontano (Figal 2015, pp. 283, 288-289).

 

4.3.

 

Le lunghe digressioni a carattere ricostruttivo-interpretativo su Oggettualità e Il manifestarsi dell’arte a cui sono stati dedicati i precedenti sottoparagrafi erano necessarie al fine di preparare adeguatamente il terreno per un’esposizione, in quest’ultimo sottoparagrafo, dell’originale interpretazione della prima parte della Critica della facoltà di giudizio offerta da Figal nel contesto della sua serrata analisi del concetto di bellezza (Figal 2015, pp. 69-93). Il peculiare rapporto di affinità – attraverso l’indubbia eredità metodologica e continuità tematica – ma, al contempo, di divergenza – attraverso il ripensamento critico di vari contenuti e la conseguente presa di distanza – che lega la filosofia di Figal a quelle di Heidegger e Gadamer è già emerso a proposito della transizione dallo stadio dell’ermeneutica filosofica a quello della filosofia ermeneutica, e poi anche a proposito del differente modo di rapportarsi all’estetica e ai suoi temi e concetti fondamentali. Ciò, come si è detto, non manca di avere un riflesso anche sul piano del confronto con la terza Critica di Kant, che in questo contesto viene anzi a configurarsi come una sorta di cartina di tornasole per cogliere le ambizioni filosofiche e gli intenti originali del discorso fenomenologico-ermeneutico ed estetico-filosofico di Figal. In questo modo, uno sguardo alle diverse modalità di ricezione della Critica della facoltà di giudizio in una fra le principali vie dell’ermeneutica contemporanea si rivela essere proficuo sia per arricchire la propria conoscenza della Wirkungsgeschichte dell’estetica kantiana, sia per cogliere con maggior precisione determinati rapporti interni all’ermeneutica filosofica tedesca di matrice o ispirazione fenomenologica.

Come emerge chiaramente soprattutto nella prima parte di Il manifestarsi dell’arte, l’analisi del bello è centrale per l’estetica di Figal, in quanto il bello rappresenta per il filosofo tedesco «[il] come di un’opera d’arte», ciò in base a cui «si possono rivelare come specificamente estetici caratteri quali l’autonomia, l’inizialità, l’originarietà e la sensibilità» (Figal 2015, pp. 65-66). Le opere d’arte, scrive Figal, sono «essenzialmente belle» (là dove questo richiamo alla “essenzialità” va certamente enfatizzato, tenuto conto della centralità di questo motivo in tutto il pensiero fenomenologico e, nella fattispecie, del fatto che la questione dell’essenza dell’arte è la questione al centro di Il manifestarsi dell’arte): «il bello è presente nell’arte senza condizioni e senza riserve», sebbene esso non sia presente «solo nell’arte» bensì anche, seppure in diverso modo, «nelle cose d’uso e [nella] natura» (Figal 2015, p. 66). In questo senso, «l’esperienza estetica dell’arte è l’esperienza della sua bellezza» (Figal 2015, p. 67) e ciò, secondo Figal, vale anche nell’età che è stata definita da altri teorici come l’epoca delle “arti non più belle” (Jauss) o l’epoca dell’“abuso della bellezza” (Danto), nella misura in cui anche l’arte che si ripropone esplicitamente e intenzionalmente di contravvenire ai principi e ai canoni del bello – per apparire, ad esempio, disarmonica, dissonante, disorientante, disturbante o, in sintesi, “non-bella” – non può fare a meno di rinviare almeno implicitamente proprio al termine al quale intende opporsi, cioè appunto il bello, per non parlare del fatto che, a distanza di decenni, non è affatto infrequente che anche l’arte d’avanguardia che al suo primo apparire era apparsa scioccante o persino “brutta” venga gradualmente riassorbita nel campo di ciò che risulta accettabile e fruibile come “bello”. A sua volta, come essenza della bellezza – intesa come una sorta di «coerenza […] priva di regolamentazione» – viene individuato il carattere «eccedente, periferico», non esauribile, dell’ordine di cui consiste il bello: un ordine «irregolare in senso stretto», cioè nel senso che «a suo fondamento non c’è alcuna regola», che Figal definisce in modo pregnante come «ordine decentrato» (Figal 2015, pp. 87-89). Un tale ordine, per Figal, «è manifestazione» (nel senso che «un ordine decentrato sussiste manifestandosi») ed è quel tipo di ordine che non si riesce a «riconoscere direttamente, per così dire al primo sguardo. Cogliamo ordini decentrati solo entrando in relazione con essi e, assolutamente concentrati e non senza rigore, esperendoli nella coerente molteplicità delle loro relazioni» (Figal 2015, pp. 89, 93).

Ora, assolutamente centrale per la concezione di Figal del bello è proprio l’insegnamento kantiano contenuto nella prima parte della terza Critica. Come si legge in Il manifestarsi dell’arte, infatti, «la Critica del giudizio di Kant [è] il libro fondamentale dell’estetica filosofica»:

 

L’impostazione estetica ha fondato l’analisi filosofica moderna dell’arte. Tuttavia, in questo quadro è stata decisiva non tanto l’Aesthetica di Baumgarten, quanto la Critica del giudizio di Kant. Per quanto Kant eviti il concetto di estetica nel suo lavoro, con lui inizia l’estetica filosofica. Baumgarten è preistoria, mero oggetto di indagine storiografica. Kant, invece, con un decisivo lavoro di integrazione, ha recepito, raccogliendole in un progetto sistematico, le precedenti analisi del bello e della sua esperienza. Ma non si è limitato a questo. Egli ha inoltre conferito all’estetica filosofica un significato che concerne la stessa filosofia; occorre infatti sottolineare con forza un punto: con la Critica del giudizio Kant non fonda alcuna disciplina filosofica, bensì colloca la problematica estetica al centro di un’autochiarificazione della filosofia. […] Chi vuole descrivere e comprendere concettualmente l’esperienza estetica, deve cominciare con Kant [che] ha definito l’esperienza estetica in una maniera che continua ad essere determinante […]. Kant delimita in modo accurato l’esperienza del bello mettendola in luce nella sua unicità, rispetto a tutte le altre possibilità di riferimento affettivo, di percezione e di pensiero (Figal 2015, pp. 17, 49-50, 69; corsivi miei).

 

In primo luogo, dunque, ciò che emerge da questi passi è l’idea che, a differenza dell’estetica di Baumgarten o anche di altri autori, l’estetica di Kant (intendendo qui con questa espressione, come abbiamo visto, non tanto l’estetica trascendentale esposta nella prima parte della Critica della ragion pura quanto la critica della facoltà estetica di giudizio esposta nella prima parte della Critica della facoltà di giudizio) non sia oggetto di interesse solo da un punto di vista storico-filosofico ma anche da un punto di vista squisitamente teoretico, ovvero continui a rivelarsi ancora oggi un’inesauribile fonte di ispirazione e stimolo per il pensiero. Oltre a ciò, per Figal appare decisivo notare come l’estetica di Kant, pur avendo di fatto dato avvio all’estetica filosofica in senso forte, rigoroso e vincolante (cosa su cui anche Heidegger e Gadamer sarebbero certamente d’accordo), non soltanto non abbia per questo motivo gettato le basi per una comprensione “errata” o “viziata” dei fenomeni estetici e soprattutto artistici (come sembrano indicare concordemente le letture critiche di Heidegger e Gadamer, al netto delle varie differenze esistenti anche fra le loro rispettive concezioni), ma anzi abbia introdotto alcune nozioni preziose, se non proprio assolutamente fondamentali, per penetrare concettualmente l’essenza dell’estetico e dell’artistico. Particolarmente rilevanti, in tal senso, appaiono a Figal le analisi kantiane di aspetti quali il carattere disinteressato del giudizio estetico, la validità universale dell’esperienza del bello, il rapporto tra percezione e riflessione nel caso dell’esperienza estetica, la proficua paradossalità del carattere di “finalità senza scopo” che è proprio della bellezza, la relazione fra arte e natura e, soprattutto, il libero gioco che, per Kant, si viene a instaurare fra le nostre diverse facoltà conoscitive nell’esperienza del bello e anche del sublime (inteso però da Figal come una forma di compiacimento estetico che, in realtà, «non designa alcuna alternativa rispetto al bello, bensì solo una modificazione»: Figal 2015, p. 64).

A proposito di quest’ultimo tema, cioè quello del “libero gioco”, Figal sottolinea che ancora oggi, a dispetto di ogni possibile tentazione di screditare un pensiero risalente alla fine del Settecento come fatalmente “invecchiato”, bisogna invece «prendere sul serio la definizione kantiana della riflessione estetica come libero gioco delle facoltà conoscitive» e dimostrarsi all’altezza del tentativo kantiano di «rendere giustizia [alla] essenza assolutamente incomparabile del bello»:

 

concependo la bellezza come una qualità, come qualcosa nelle cose, Kant coglie un punto decisivo; l’esperienza estetica si riferisce a qualcosa che non si esaurisce nella normale determinatezza cosale e per questo solo in maniera approssimativa può essere caratterizzato come una “qualità” delle cose. […] Ciò che dice Kant sulla libera formazione e sulle idee estetiche rimane direttivo e indicativo. […] Kant ha colto l’essenza del bello in quanto ordine decentrato con eccezionale intuizione, cercando di definirla, per quanto glielo consentisse il linguaggio filosofico a sua disposizione. […] Kant ha mostrato che il bello non si può proprio fissare alle cose, nella misura in cui esse sono cose identificabili. Appartiene piuttosto alla loro periferia o ai loro spazi intermedi; si lega non a che cosa sono le cose, vale a dire alla loro determinatezza fissa, da cogliere concettualmente, bensì si trova nella superficie non dominata dal loro centro identico. […] Non da ultimo nei suoi esempi Kant fa una scoperta: il mondo non si esaurisce in ciò che, in esso, è determinabile, realizzabile rispetto a fini e disponibile. […] [N]onostante tutta la ritrosia speculativa, [quella di Kant] è la soluzione più radicale rispetto all’idealismo tedesco, quella che va più in profondità (Figal 2015, pp. 77, 79, 85, 88-89; corsivi miei).

 

Al pari che nella precedente lunga citazione su Kant tratta da Il manifestarsi dell’arte, anche nel caso di quest’ultima lunga citazione dal libro di Figal emergono chiaramente diversi aspetti di notevole interesse ai fini di una ricognizione sulla ricezione della Critica della facoltà di giudizio nel contesto del pensiero ermeneutico-filosofico contemporaneo. Come si può facilmente vedere, infatti, non soltanto – a differenza di quanto stabilito da Heidegger e Gadamer – per Figal non è necessario “distruggere” o “oltrepassare” l’impostazione di fondo dell’estetica moderna o prendere criticamente le distanze da essa, ma anzi (anche qui in disaccordo con i due grandi autori, rispettivamente, di Essere e tempo e Verità e metodo), al fine di descrivere e comprendere adeguatamente l’arte e l’estetico, appare indispensabile riallacciarsi proprio al testo fondamentale della tradizione estetica moderna, cioè appunto la terza Critica di Kant. Emerge quindi anche da qui, cioè dalle diverse forme che può assumere un libero confronto esegetico con un’opera come la Critica della facoltà di giudizio, il particolare rapporto di affinità e al contempo di divergenza che sembra caratterizzare il dispiegarsi e lo svilupparsi, nel corso dei decenni, di questa tradizione particolarmente significativa e autorevole del pensiero ermeneutico contemporaneo.

Quanto detto fin qui non esclude, naturalmente, che anche per Figal il testo di Kant presenti a volte dei lati oscuri e degli «aspetti problematici» (Figal 2015, p. 69) che ne rendono necessario un ripensamento critico e un superamento, ma sempre mantenendo un dialogo aperto e costante con tale testo, nella consapevolezza della sua perdurante attualità e imprescindibilità. Ad esempio, secondo Figal, «Kant intende l’esperienza estetica essenzialmente come un processo interno alla coscienza» e ciò può apparire problematico nel quadro di una filosofia come quella di Figal che, come abbiamo visto, risulta orientata a livello generale verso l’oggettuale, sebbene si debba anche aggiungere che, per Figal, il «presunto internalismo kantiano dell’estetico» di per sé «non esclude il riferimento oggettuale nel contesto dell’estetico» (Figal 2015, p. 69; cfr. anche ivi, p. 77). Ciò significa che, anche in questo caso, in ambito estetico per Figal non sembra possibile filosofare senza un saldo riferimento al pensiero di Kant ma, al contempo, bisogna essere capaci di spingere quest’ultimo oltre i suoi limiti o, per così dire, fargli compiere un passo avanti in direzione della fondamentale oggettualità dell’estetico. In maniera analoga, per Figal non si può non notare che «Kant non approfondisce il carattere cognitivo dell’esperienza indicato con la formula del libero gioco delle facoltà conoscitive» e, soprattutto, «non ha alcun concetto per [l’]autonomia» dell’opera d’arte come «ordine decentrato autonomo» (Figal 2015, pp. 75, 93), pur riuscendo ad avvicinarsi notevolmente a questa idea e quasi a sfiorarla attraverso la riflessione sul carattere di “finalità senza scopo” del bello.

Alla luce di ciò e anche di molti altri aspetti su cui non è possibile soffermarsi qui, se ne deduce che, per un filosofo come Figal, il tentativo di sviluppare oggi un’analisi del bello nel contesto di un’estetica fenomenologicamente-ermeneuticamente ispirata «conduce oltre Kant», ma – in una maniera senz’altro significativa ai fini di una ricognizione critica sulla “storia degli effetti” della Critica della facoltà di giudizio come quella tentata nel presente contributo – non al fine di abbandonare i risultati conseguiti dall’estetica kantiana, bensì «per sviluppare ulteriormente la definizione del bello ottenuta con Kant» (Figal 2015, p. 93; corsivi miei). Dal punto di vista di Figal – che, su un piano filosofico generale, eredita le grandi conquiste delle dottrine ermeneutico-filosofiche di Heidegger e Gadamer, e cerca di stabilire con esse un rapporto di aperta continuità su alcuni aspetti ma, al contempo, di altrettanto aperta discontinuità su altri aspetti – solo filosofando “con Kant” e insieme “oltre Kant” in campo estetico risulta possibile sviluppare una prospettiva adeguata sull’arte e sul bello, in grado di cogliere la reale essenza di tali fenomeni e non solamente le loro manifestazioni superficiali.

 

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· Associate Professor of Aesthetics at the University of Bologna, Department for Life Quality Studies. E-mail: stefano.marino4@unibo.it

[1] Una delle Riflessioni sull’antropologia di Kant risalente al 1769 stabilisce già: «Ogni conoscenza di un prodotto è o critica (giudizio [Beurteilung]) o disciplina {dottrina} (insegnamento) o scienza. […] Se i rapporti che costituiscono il fondamento della bellezza sono qualitativi, e di conseguenza oggetto della filosofia (per es., identità e differenza, contrasto, vivacità, ecc.), non è possibile alcuna disciplina, e ancor meno una scienza, ma solo una critica. […] Perciò si deve evitare la denominazione scolastica di “estetica”» in questo campo (Kant 2013, pp. 31-32). Com’è noto, poi, nella Critica della ragion pura Kant chiarirà: «Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità» e aggiungerà in nota: «I tedeschi sono gli unici, oggi, a servirsi del termine estetica per designare con esso ciò che altri chiamano critica del gusto. Alla base di questo sta la vana speranza, nutrita da quell’eccellente filosofo analitico che è stato Baumgarten, di ricondurre la valutazione critica del bello sotto dei principi razionali, e di innalzare le sue regole a scienza» (Kant 2004, A21/B35, p. 115).

[2] Naturalmente, il fatto di applicare in modo così diretto e immediato il termine “ermeneutica” alla filosofia di Heidegger potrebbe suscitare qualche obiezione e resistenza. Com’è noto, infatti, dopo avere inizialmente definito il proprio pensiero «ermeneutica fenomenologica della effettività» (Heidegger 2005, p. 32), «ermeneutica come autointerpretazione della effettività» (Heidegger 1992, pp. 23-28) o «fenomenologia dell’Es­serci» come «ermeneutica nel significato originario della parola» e come «elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca ontologica» (Heidegger 2008, p. 53), nella fase del suo pensiero successiva alla Kehre Heidegger «non [fa] più uso dei termini “ermeneutica” ed “ermeneutico”», abbandonando la posizione iniziale «non per sostituirla con altra, ma perché anche quella era solo stazione di un cammino» (Heidegger 1984, p. 91). In questo senso, rimane in un certo senso emblematico e vincolante il celebre passaggio della lettera di Heidegger a Otto Pöggeler del 5 gennaio 1973, in cui si legge: «La “filosofia ermeneutica” è cosa di Gadamer» (Pöggeler 1983, p. 395). Tuttavia, alla luce dell’indiscutibile influenza della riflessione heideggeriana per tutti gli sviluppi successivi del pensiero ermeneutico (Gadamer, Pareyson, Ricoeur, Vattimo, Rorty, ecc.), e alla luce della possibilità di servirsi della nozione di “ermeneutica” anche in un senso più generale che rende possibile includere al suo interno forme e declinazioni di tale pensiero anche molto diverse fra loro, non ritengo illegittimo inserire Heidegger all’interno di uno studio sulla ricezione della terza Critica di Kant nell’ermeneutica contemporanea.

[3] Per questi riferimenti bibliografici e alcuni spunti di revisione per migliorare la qualità del mio testo sono debitore nei confronti di uno dei tre reviewer anonimi che hanno valutato positivamente il mio saggio in occasione della submission a “Con-textos Kantianos” e che vorrei dunque ringraziare.

[4] A scanso di equivoci, ciò non significa che nei suoi corsi universitari o nei suoi scritti Heidegger tralasci del tutto di confrontarsi con la terza Critica di Kant, giacché ovviamente non è così e, infatti, è possibile trovare nei suoi testi diversi riferimenti di questo tipo. Si vedano, ad esempio, i riferimenti alla Critica della facoltà di giudizio nel volume 84/1 della Gesamtausgabe, comprendente i suoi seminari su Kant, Leibniz e Schiller, o nel volume volume 84/2 della Gesamtausgabe, comprendente anche un seminario del 1936 su Kant. Kritik der (ästhetischen) Urteilskraft (Die Frage nach der ‘Kunst’), al momento non ancora pubblicato ma comunque già annunciato nel Nachwort des Herausgebers nel succitato volume 84/1 della Gesamtausgabe. Per questi riferimenti bibliografici molto dettagliati sono debitore a Rosa Maria Marafioti, grande esperta del pensiero di Heidegger, che dunque ringrazio.

[5] La medesima espressione, cioè “distruzione dell’estetica”, è stata impiegata anche da altri interpreti (cfr. Liessmann 2003), laddove altri studiosi hanno preferito parlare di un “oltrepassamento dell’estetica (Überwindung der Ästhetik)” messo in atto da Gadamer (Fehér 2003, p. 26), facendo così riferimento alla categoria che, per certi versi, prende il posto della Destruktion nel pensiero di Heidegger successivo a Essere e tempo.