La
ricezione della Critica della facoltà di
giudizio
nell’ermeneutica
contemporanea (Heidegger, Gadamer, Figal)
The Reception of the Critique
of the Power of Judgment
in Contemporary Hermeneutics
(Heidegger, Gadamer, Figal)
Stefano Marino·
University of Bologna, Italy
Abstract
This
article deals with the question of the reception and “history of effects” of
Kant’s Critique of the Power of Judgment.
More precisely, in the present contribution I take into examination some
original and influential “appropriations” of Kant’s third Critique in the context of 20th-century and contemporary
hermeneutics, providing both a reconstruction and a critical interpretation of
the readings of Kant’s work provided by Martin Heidegger, Hans-Georg Gadamer
and nowadays Günter Figal. In the first section I basically offer an overview
of Kant’s conception of the power of judgment as an introduction to the topics
investigated into detail in the following sections of this article. Then, I
focus on the different interpretations of Kant’s Critique of the Power of Judgment offered by the abovementioned
hermeneutical philosophers, showing that, in a quite surprising and
theoretically stimulating way, in the development of a
phenomenological-hermeneutical aesthetics and/or philosophy of art from
Heidegger to Gadamer up to Figal, we can observe a progressive shift from a
sort of “disinterest” in Kant’s conception of aesthetics in favour of Hegel’s
philosophy of art (Heidegger), to an explicit critique of the supposed
subjectivization of aesthetics by Kant and its problematic consequences
(Gadamer), up to a full-blown rehabilitation and retrieval of the significance
of Kant’s treatment of beauty in the third Critique
as still essential for any serious philosophical aesthetics (Figal).
Keywords
Immanuel
Kant. Critique of the Power of Judgement. Aesthetics.
Phenomenology. Hermeneutics.
A Maria Teresa,
che per prima mi ha insegnato ad amare il pensiero di
Kant.
1.
Come
ha notato uno studioso estremamente attento del pensiero di Kant come Otfried
Höffe, «un kantiano ortodosso [è] costretto a leggere la storia dell’influenza
kantiana, persino in parti essenziali di essa, come storia di fraintendimenti
produttivi» (Höffe 2002, p. 263). Se una tale massima, secondo Höffe, vale per
la ricezione del pensiero kantiano in generale, nei più svariati ambiti della
filosofia otto- e novecentesca ed a partire da approcci diversi al filosofare,
possiamo dire che ciò appare tanto più vero nel caso di un’opera particolare di
Kant come la Critica della facoltà di
giudizio, la quale spicca per la sua complessità e, per così dire,
eterogeneità anche all’interno del corpus
stesso delle opere del filosofo di Königsberg. In linea generale, infatti,
se è vero che, quanto più un’opera è articolata e complessa, tanto più è
possibile che essa consenta (o addirittura esiga) interpretazioni diverse,
allora si può dire che, sotto questo riguardo, il caso della Critica della facoltà di giudizio è
davvero esemplare.
A
tal proposito, basti solo pensare a come, nel Novecento, la Critica della facoltà di giudizio sia
stata letta in maniere anche molto differenti fra loro da autori importanti
come Adorno, Arendt, Bourdieu, Cassirer, Cavell, Cohen, Danto, Derrida,
Deleuze, Dewey, Eco, Gadamer, Heidegger, Horkheimer, Lyotard, Marcuse,
Plessner, Weil e altri ancora, al punto che – in una maniera forse un po’
ambiziosa, ma al contempo veritiera – potremmo spingerci a dire che una
ricostruzione della ricezione novecentesca della terza Critica si presti bene a fungere da guida per un attraversamento
mirato di buona parte della filosofia del secolo scorso (cfr., su ciò, Marino e
Terzi 2020). Fra le letture un po’ più recenti – senza alcuna pretesa di
completezza, ma unicamente a titolo esemplificativo per il presente discorso
sulle diverse interpretazioni della Critica
della facoltà di giudizio – è possibile ricordare come «[l]a sua importanza
storica […] che ha ancora una sua attualità» sia stata individuata da
Jean-Marie Schaeffer, per esempio, «in ciò che essa ci può insegnare circa lo
statuto del discorso sull’arte»: più precisamente, nel fatto che «l’analisi
della problematica estetica da lui proposta nella Critica del Giudizio [fornirebbe] anticipatamente una critica dei
fondamenti logici della teoria speculativa dell’Arte» e, così, offrirebbe la
possibilità di articolare dei «prolegomeni kantiani ad una estetica analitica»
(Schaeffer 1996, pp. 9, 25; cfr. anche ivi,
pp. 31-108). Laddove altri studiosi – sempre a proposito della ricchezza e
pluralità delle interpretazioni recenti di questo testo kantiano – hanno scorto
«il significato della svolta estetica di Kant nella terza Critica nel suo protendersi verso la categoria del sociale, che
mancava nella precedente architettura filosofica di Kant» e che, secondo tale
lettura, consentirebbe di collegare la Critica
della facoltà di giudizio (soprattutto per via del suo ripensamento del
modo di concepire la natura rispetto alla Critica
della ragion pura) a certi sviluppi dell’estetica marxista, interpretando
originalmente e anche un po’ provocatoriamente alcuni concetti presentati nella
terza Critica come precursori di
tematiche marxiane/marxiste come il feticismo o la reificazione (Wayne 2016,
pp. 6, 45; su Marx e l’estetica, cfr. Gandesha e Hartle 2017). Ancora più di
recente, alcuni strumenti concettuali offerti dalla riflessione kantiana nella
prima parte della Critica della facoltà
di giudizio, cioè la Critica della
facoltà estetica di giudizio (Kant 1999, pp. 39-190), sono stati applicati
a un tentativo di comprensione dell’affascinante ma sfuggente «logica
dell’improvvisazione artistica» (Bertinetto e Marino 2020) oppure a un
confronto con una delle più recenti e influenti tendenze del dibattito estetico
contemporaneo come la Everyday Aesthetics
(Leddy 2020). Al contempo, però, bisogna anche dire naturalmente che, se la Critica della facoltà di giudizio, «a
ripercorrerne mentalmente le tante fortune e sfortune interpretative», può
anche apparire un’opera «difficilmente determinabile nel suo disegno
complessivo e nei suoi obiettivi salienti, disseminata di ambiguità e di
oscurità», ciò d’altra parte non deve
spingere affatto a trarre la conclusione che essa sia allora «interpretabile a
piacere»: infatti, pur trattandosi di «un’opera ricchissima […] e forse qua e
là anche un po’ disordinata e non completamente rifinita», la terza Critica è al tempo stesso un’opera «tematicamente
e teoreticamente compatta» (Garroni 2003, pp. 3-4).
In
parte, comunque, la suddetta complessità, articolazione e finanche eterogeneità
della terza Critica non si deve solo
alle sue numerose e variegate interpretazioni successive, ma scaturisce già
dall’assetto interno e dai contenuti del testo stesso di Kant. Com’è noto,
infatti, il fatto che Kant abbia dedicato solo tardivamente, cioè nel 1790,
un’opera alla seconda delle tre facoltà conoscitive superiori (intelletto,
facoltà di giudizio, ragione) elencate nella Critica della ragion pura e altrove, e cioè appunto alla Urteilskraft, non significa che tardiva
sia stata la sua scoperta di questa stessa facoltà, per così dire.
Dall’epistolario kantiano, infatti, sappiamo che risale soltanto al 1787 la
scoperta del fatto che, oltre a quelli già esaminati nelle prime due Critiche, vi sia anche «un tipo di
principi a priori nuovo rispetto ai precedenti» (lettera di Kant a C.L.
Reinhold del 28 dicembre 1787: in Kant 1990, p. 164). Un principio a priori, in
questo caso, costituito dalla “finalità” o “conformità a scopi” (a seconda
delle traduzioni del termine Zweckmäßigkeit)
e riconducibile alla facoltà dell’animo del sentimento di piacere e dispiacere,
la quale, a sua volta (facendo adesso riferimento non alla tripartizione delle
facoltà dell’animo, bensì a quella delle facoltà conoscitive), appare
caratterizzata da un legame intrinseco alla facoltà di giudizio (Kant 1999, § IX,
p. 33). Proprio a partire dalla scoperta del principio a priori della
conformità a scopi avviene il decisivo ampliamento del progetto iniziale
relativo alla terza Critica, per
diverso tempo concepita dallo stesso Kant come una semplice Critica del gusto. Infatti, ancora nelle
lettere a C.G. Schütz del 25 giugno 1787, a L.H. Jakob dell’11 settembre 1787
ed a C.L. Reinhold del 28 dicembre 1787, Kant afferma di doversi dedicare «al Fondamento della critica del gusto» e
alla «elaborazione della Critica del gusto»,
laddove nella lettera a Reinhold del 12 maggio 1789 egli parla ormai
definitivamente di una «Critica del
Giudizio (di cui la Critica del gusto
costituisce una parte)» (Kant 1990, pp. 154-156, 164, 188). Com’è noto, un
tale ampliamento del disegno originario dell’opera avviene solo col maturare in
Kant della «convinzione che giudizi estetici e giudizi teleologici siano due
diverse applicazioni della stessa facoltà di giudicare, sulla base dell’unico
principio a priori della finalità» (Menegoni 2008, p. 18).
D’altra
parte, dallo studio delle opere di Kant sappiamo bene che, a prescindere dalla
questione più complessa relativa alla presenza o meno di un principio a priori
autonomo della facoltà di giudizio, che è al centro della terza Critica (Kant 1999, p. 4), la semplice
“scoperta” di tale facoltà va fatta risalire perlomeno ai tempi della prima Critica. Qui, infatti, la facoltà di
giudizio fa la sua comparsa nella sezione intitolata Analitica dei principi, definita dallo stesso Kant come «un canone
per la facoltà di giudizio» (Kant 2004, A132/B171, p. 295), là dove le funzioni
di base di tale facoltà vengono individuate nel sussumere e distinguere
(Caygill 1995, pp. 269-270), e là dove per “canone” si intende «l’insieme dei
principi a priori dell’uso corretto» (ovvero, dell’applicazione) «di certe
facoltà conoscitive in generale» (Kant 2004, A796/B824, p. 1123). Infatti, se
l’intelletto, in generale, è definibile kantianamente come «la facoltà delle
regole», la facoltà di giudizio è invece «la facoltà di sussumere sotto delle
regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o non stia sotto una data regola»
(Kant 2004, A132/B171, p. 295). Ecco, allora, che l’attenzione di Kant si
sposta
dall’intelletto come facoltà delle
regole al Giudizio come facoltà di sussumere sotto di esse. […] Tenuto conto
che il problema da affrontare è quello dell’applicazione
delle categorie ai fenomeni secondo una regola, va ora notato che da ognuno dei
titoli (quantità, qualità, relazione e modalità), secondo cui sono raggruppate le
categorie, possono essere ottenute regole tali che la sussunzione sotto di esse di un oggetto sanzioni l’applicazione a questo delle relative
categorie. Si tratta di regole di connessione necessaria, non fondate esse
stesse su conoscenze più alte e generali. Esse sono, cioè, dei principi. Un’analitica del Giudizio è dunque,
necessariamente, un’analitica dei
principi (Guerra 2007, p. 67; corsivi miei).
In
questo contesto, mi preme sottolineare come emerga qui, quale compito
dell’analitica dei principi in quanto «canone per la facoltà di giudizio»,
quello di insegnare alla facoltà di giudizio «come applicare ai fenomeni i
concetti dell’intelletto, i quali contengono le condizioni per delle regole a
priori» (Kant 2004, A132/B171, p. 295; sulla valenza applicativa della facoltà
di giudizio, cfr. anche Kant 2012, § VI, pp. 69-71). Oltre a ciò, facendo
sempre riferimento alla Critica della
ragion pura e, nella fattispecie, alle indicazioni kantiane sul rapporto
tra intelletto e facoltà di giudizio, c’è anche da osservare che, se il primo
«è capace di essere istruito e attrezzato mediante delle regole», la seconda è
invece per Kant una sorta di «talento particolare, che non può essere
insegnato, ma solo esercitato» (Kant 2004, A133/B172, p. 295). Ciò trova conferma
anche nell’Antropologia pragmatica,
dove leggiamo:
il Giudizio (iudicium) non può essere istruito, ma soltanto esercitato; quindi
il suo sviluppo si chiama maturità, ed è tale che non viene prima del tempo.
[…] Se [infatti] ci dovesse essere una istruzione per il Giudizio, allora ci
dovrebbero essere delle regole generali, secondo cui si possa distinguere se
qualche cosa rientra o no nella regola; il che rimanda la questione
all’infinito. Il Giudizio dunque è quella forma di intelletto, di cui si dice che
non viene prima del tempo; esso si fonda sopra una lunga esperienza (Kant 2009,
§ 42, pp. 85-86).
A
questo punto, però, la trattazione kantiana della facoltà di giudizio nella
prima Critica si interrompe
improvvisamente, in una maniera che può apparire prematura, soprattutto se si
tiene conto dell’importanza apparentemente assegnata a tale facoltà nel disegno
complessivo dell’opera. Un’importanza, quest’ultima, che viene ribadita da Kant
anche in un altro passaggio, in cui si afferma esplicitamente come l’analitica
dei principi vada concepita nella sua interezza come una «dottrina
trascendentale della facoltà di giudizio» (Kant 2004, A136/B175, p. 299). Alla
luce di ciò, quindi, da un lato, «il concetto di facoltà di giudizio» sembra
ricoprire quella che è stata enfaticamente definita «una posizione-chiave nella
Critica della ragion pura» (Heintel e
Macho 1981, p. 164); dall’altro lato, però, la lettura dei rapidi passaggi
dedicati da Kant a questo argomento nella prima Critica rivela che probabilmente in quest’opera non era ancora
possibile fornire un’effettiva fondazione trascendentale per la facoltà di
giudizio. Infatti, se ci si pone la domanda su quale sia «la via che il
Giudizio deve seguire […] per produrre contenuti di pensiero a livello di conoscenza
e di scienza», si scopre inevitabilmente che, «a questo punto, sul Giudizio
visto come facoltà» nella Critica della
ragion pura «il discorso di Kant tace e non sarà più ripreso nel corso
dell’opera» (Marcucci 1999, p. 96). Tenuto conto di tutto ciò, si può essere
tentati di applicare anche alla facoltà di giudizio una considerazione di Oscar
Meo originariamente sviluppata a proposito della nozione di schema nella prima Critica e dire che, «come tutte le
strutture che in Kant operano una mediazione, il suo statuto non [è]
chiaramente definibile» e presenta «qualche margine di indeterminatezza
teoretica, di fluidità e di vaghezza» (Meo 2004, p. 91).
Ad
ogni modo, ai fini del discorso che sto cercando di sviluppare in questo
paragrafo introduttivo, ciò che conta maggiormente è che solo nella terza Critica, con la distinzione fra due modi
di procedere della medesima facoltà di giudizio (cioè, determinante e
riflettente), quest’ultima si spinge finalmente oltre lo statuto meramente
applicativo fin qui delineato e acquista invece una funzione propria,
spontanea, specifica e autenticamente “inventiva”. Soltanto adesso, cioè, il
discorso sulla facoltà di giudizio sembra giungere a uno sviluppo pieno e
completo nel pensiero di Kant (nonostante sia stato notato con accuratezza
filologica che, a rigore, «sebbene la reflektierende
Urteilskraft faccia la sua comparsa “ufficiale” molto tardi, soltanto
nell’ultimissima fase di elaborazione dell’“estetica critica”, a stesura di KU già avviata, del suo affacciarsi all’orizzonte
del pensiero di Kant si trova testimonianza o traccia [già] nei Kollegentwürfe, e non solo in quelli
degli anni ’80, ma anche in quelli degli anni ’70»: Meo 2013, p. 12). Ad ogni
modo, è bene specificare che, ammesso che si possa parlare qui di “compimento”,
in questo caso tale termine non è affatto da intendere come sinonimo di
“arresto” o “conclusione” nell’elaborazione concettuale, giacché nel caso della
nozione di facoltà di giudizio mi sembra quanto mai pertinente ciò che ha
scritto Hilary Putnam in altro contesto (cioè, a proposito della concezione
kantiana dell’esperienza in generale): «Kant estende e approfondisce in
continuazione la presentazione della sua concezione, e forse anche la
concezione stessa» (Putnam 2013, p. 257). Oppure, addirittura, a questo
riguardo si potrebbe essere tentati di applicare al caso specifico della
facoltà di giudizio ciò che affermò Ernst Cassirer riguardo al particolare tipo
di esperienza di lettura che si ha in generale con gli scritti di Kant, ovvero
che
[s]i incontrano dovunque nuovi
dubbi e questioni […]. Così i concetti divengono via via altri (da quello che
parevano essere), a seconda del luogo in cui compaiono nella progressiva
costruzione sistematica dell’insieme. Essi non sussistono fin dall’inizio come un
sostrato immobile, quiescente, del movimento del pensiero, ma si sviluppano e
si fissano solo in questo stesso movimento. Chi non tiene conto di questo
tratto caratteristico, chi crede che il significato di un determinato concetto
portante sia esaurito nella sua prima definizione e in tal senso cerca di
tenerlo fermo e intatto lungo il procedere del pensiero come un termine
immutabile – è già per forza di cose sulla strada di un’interpretazione errata
(Cassirer 1997, pp. 170-171).
A
tutto ciò che, fin qui, è stato detto a titolo meramente introduttivo a
proposito della nozione di facoltà di giudizio che è al centro della terza Critica, bisogna poi ovviamente
aggiungere, al fine di formarsi una prima idea della succitata articolazione e
varietà interna dell’opera, il ben noto fatto che quest’ultima, una volta
operato il passaggio dal progetto di una Critica
del gusto a quello di una Critica
della facoltà di giudizio, si viene a strutturare in due parti distinte,
entrambe di notevole ampiezza e complessità. Due parti, com’è noto,
rispettivamente dedicate alla facoltà estetica di giudizio e alla facoltà
teleologica di giudizio come articolazioni particolari della facoltà
riflettente di giudizio, la quale a sua volta, come si diceva poc’anzi, insieme
alla facoltà determinante di giudizio costituisce una delle due modalità in cui
si esplica l’operatività di questa facoltà conoscitiva. A ciò, però, bisogna
poi aggiungere ovviamente che le stesse due parti della Critica della facoltà di giudizio, per parte loro, non appaiono
affatto focalizzate semplicemente e univocamente su un’unica tematica ma, al
contrario, comprendono al loro interno una pluralità straordinaria e, per così
dire, irriducibile di temi e problemi, soprattutto nel caso della prima parte
dell’opera, la Critica della facoltà
estetica di giudizio. Una parte dell’opera, quest’ultima, alla quale ci si
riferisce abitualmente con l’espressione “estetica kantiana” (sebbene, a voler
essere rigorosi, la “vera” estetica di Kant rimanga l’Estetica trascendentale della prima Critica, laddove quella della terza Critica è appunto un’analisi critica della facoltà estetica di
giudizio[1])
e la quale, com’è noto, include poi al suo interno riflessioni di enorme
importanza su una varietà di questioni comprendenti l’analitica del bello e il
giudizio di gusto nei suoi quattro momenti secondo la qualità, quantità,
relazione e modalità (Kant 1999, §§ 1-22, pp. 39-76), l’analitica del sublime
nelle sue due forme del sublime matematico e del sublime dinamico (Kant 1999,
§§ 23-29, pp. 80-102), la natura comunicativa del gusto e il rapporto tra
facoltà di giudizio e sensus communis
(Kant 1999, §§ 39-41, pp. 128-134), il rapporto tra l’arte in generale, le
belle arti e il genio (Kant 1999, §§ 43-53, pp. 139-166), la dialettica della
facoltà estetica di giudizio e l’antinomia del gusto (Kant 1999, §§ 55-57, pp.
172-176), la relazione fra bellezza e moralità alla luce della distinzione
essenziale fra schemi e simboli come «intuizioni, che vengono fornite a
concetti a priori» (cioè, alla luce dell’idea secondo cui il «modo
rappresentativo intuitivo […] può essere diviso in modo rappresentativo
schematico e simbolico» e secondo cui solo quest’ultimo si applica in modo
rigoroso al rapporto fra il bello e il bene: Kant 1999, § 59, p. 186), e molto
altro ancora.
2.
Una
volta esaurite queste premesse meramente introduttive sulla terza Critica, volte a chiarire molto
rapidamente le affermazioni iniziali sulla complessità, articolazione e
finanche eterogeneità di quest’opera di Kant, ritorniamo alla questione da cui
avevamo preso le mosse: la questione, cioè, della ricezione novecentesca della Critica della facoltà di giudizio. Come
evidenzia già il titolo di questo articolo, infatti, lo scopo limitato del
presente contributo è quello di offrire una ricostruzione e un’interpretazione
di un piccolo segmento della vicenda relativa alle avventure (e, qualche volta,
disavventure) delle diverse letture della terza Critica che sono state offerte nella contemporaneità. Il piccolo e
particolare segmento di questa vicenda, per così dire, che prenderò qui in
esame è rappresentato dall’ermeneutica filosofica e, specificamente, da una
delle varie linee interne a questa importante tradizione contemporanea di
pensiero, a sua volta caratterizzata da una notevole complessità, eterogeneità
e non di rado persino conflittualità (su ciò, cfr. ad esempio Bleicher 1986;
Ferraris 1988; Bianco 1992 e 1998; Jung 2002). Mi riferisco, nel dire ciò, alla
linea interna all’ermeneutica tedesca che, ancorando quest’ultima alla
fenomenologia husserliana come perdurante fonte di ispirazione e come modello
sul piano del metodo e dell’atteggiamento filosofico generale, a partire dalla
riflessione di Martin Heidegger conduce al pensiero di Hans-Georg Gadamer e, al
giorno d’oggi, alla proposta filosofica di Günter Figal[2].
Una linea interna all’ermeneutica contemporanea, quest’ultima, che appare anche
singolarmente caratterizzata da una sequenza di rapporti diretti di
discepolato, essendo Heidegger un allievo diretto di Husserl, Gadamer un
allievo diretto di Heidegger e Figal un allievo diretto di Gadamer, e che, come
vedremo, ha molto da offrire non soltanto sul piano del pensiero filosofico in
generale, ma anche sul piano più particolare e specifico dell’interpretazione
della terza Critica di Kant.
Prendendo
le mosse da Heidegger e focalizzando la nostra attenzione, all’interno del suo
pensiero e del corpus delle sue opere
quanto mai vasto e labirintico (se si pensa al semplice fatto che il piano
della sua Gesamtausgabe prevede ben 102
volumi), esclusivamente sui suoi principali scritti di filosofia dell’arte, è
interessante notare come il primissimo paragrafo delle sue annotazioni del 1934
intitolate Per l’oltrepassamento
dell’estetica. Note per “L’origine dell’opera d’arte” contenga un breve ma
significativo riferimento a Kant. Scrive infatti Heidegger: «Il fatto storico
che ogni estetica fondata in modo pensante (cfr. Kant) fa esplodere se stessa
indica in modo infallibile che da una parte questo modo di interrogare l’arte
non è casuale, ma che esso, d’altra parte, non è neppure essenziale» (Heidegger
2010, p. 37). È senz’altro utile fornire qui qualche rapido cenno e riferimento
alle caratteristiche di questo testo, Per
l’oltrepassamento dell’estetica. Note per “L’origine dell’opera d’arte”.
Infatti, come spiega il curatore del testo, Friedrich-Wilhelm von Herrmann, le
annotazioni pubblicate con questo titolo
sono tratte da una cartella a cui
Heidegger ha dato il titolo complessivo Zur
Überwindung der Aesthetik. Zu “Ursprung des Kunstwerks” 1934 ss. Questa
datazione mostra che i lavori preparatori a Der
Ursprung des Kunstwerks risalgono a prima del 1935, anno che nelle Nachweisen a Holzwege (GA 5) Heidegger ha indicato come quello della conferenza
dal titolo Vom Ursprung des Kunstwerks,
tenuta il 13 novembre 1935 presso la Kunstwissenschaftliche Gesellschaft di
Friburgo in Brisgovia. Nel vol. 5 (1989) degli “Heidegger Studies” è stata
pubblicata la prima elaborazione di Vom
Ursprung des Kunstwerks degli anni 1931 e 1932, che precede la conferenza
di Friburgo, definita da Heidegger seconda elaborazione. Le tre conferenze
tenute nel Freies Deutsches Hochstift di Francoforte sul Meno il 17, il 24
novembre e il 4 dicembre 1936, apparse in Holzwege
con il titolo Der Ursprung des Kunstwerks,
costituiscono, a detta dello stesso Heidegger, la terza elaborazione (Heidegger
2010, p. 37n).
Si
tratta di considerazioni di rigorosa filologia heideggeriana, per così dire,
che però risultano interessanti anche per gli scopi specifici del presente contributo.
Infatti, come emerge chiaramente dal succitato riferimento a Kant nel passo sul
carattere intrinsecamente problematico di «ogni estetica fondata in modo
pensante (jede Aesthetik, die denkerisch
gegründet ist)», nel momento stesso in cui Heidegger intraprende i primi
passi nell’elaborazione della propria filosofia dell’arte in chiave
“anti-estetica” o “oltre-estetica” – cioè, fondata sull’idea di un necessario
“oltrepassamento (Überwindung)” o
“superamento (Verwindung)”
dell’estetica, in quanto parte anch’essa di quella tradizione metafisica che
Heidegger mira appunto a “oltrepassare” o “superare” (cfr. Gentili 2003; Sallis
2005; Marafioti 2008, pp. 51-68, e 2010) –, egli si premura per prima cosa di
prendere le distanze dall’estetica kantiana, seppure solo in forma di cenno
rapido e, per la verità, anche un po’ criptico. Naturalmente, va notato che a
una tale presa di posizione critica di Heidegger nei confronti di Kant e del
suo «modo di interrogare l’arte (Fragen
nach der Kunst)» si potrebbe facilmente obiettare che la terza Critica non è in prima istanza e a
livello fondamentale una filosofia dell’arte, dato che, come abbiamo già visto,
temi come quelli dell’arte e del genio fanno certamente parte della prima parte
dell’opera (Critica della facoltà estetica
di giudizio) ma senza svolgervi il ruolo principale e, anzi, risultando in
parte marginali, o comunque meno essenziali, rispetto ai temi del bello (che
per Kant include anche, se non soprattutto, il bello naturale accanto al bello
artistico), del sublime, del gusto e del libero gioco tra facoltà conoscitive
che si instaura nel concepimento e proferimento di un giudizio estetico, con
tutto ciò che questo comporta anche al livello di un ripensamento generale
della concezione della conoscenza.
Ad
ogni modo, come risulta chiaramente dalle succitate considerazioni di filologia
heideggeriana riguardo alle annotazioni del 1934 intitolate Per l’oltrepassamento dell’estetica. Note
per “L’origine dell’opera d’arte”, già nel 1931 Heidegger intraprende la stesura
di una primissima versione del testo che, con ampliamenti, approfondimenti e
modifiche, nel giro di alcuni anni porterà gradualmente all’elaborazione di uno
dei saggi più noti e influenti di tutta l’estetica novecentesca, cioè il testo L’origine dell’opera d’arte pubblicato
poi nel 1950 come saggio d’apertura nel volume Sentieri interrotti. È bene tenere presente che solo due anni prima
rispetto a quel 1931 Heidegger aveva dato alle stampe la sua celebre e
controversa interpretazione della Critica
della ragion pura nel libro Kant e il
problema della metafisica, il che sta chiaramente a indicare che,
soprattutto nel periodo immediatamente successivo a Essere e tempo, il confronto critico con la filosofia di Kant
rappresentava per Heidegger una necessità imprescindibile al fine dello
sviluppo del proprio stesso pensiero (sul confronto complessivo di Heidegger
con Kant lungo tutto il suo Denkweg,
cfr. lo studio oltremodo sistematico e completo di Marafioti 2011).
Alla
luce di tutto ciò, da un lato, non stupisce il fatto che, nel 1934, il primo
riferimento (seppur critico e criptico) di Heidegger alla tradizione estetica
occidentale – che, non sapendo pensare l’arte e la bellezza in modo
“originario” (nell’accezione heideggeriana del termine), farebbe «esplodere se
stessa (sich selbst sprengt)» – sia
proprio un riferimento a Kant. Sempre alla luce di tutto ciò, però, dall’altro
lato, appare sorprendente che la lettura della versione definitiva di L’origine dell’opera d’arte evidenzi una
sorta di “sparizione” del confronto critico di Heidegger con l’estetica di
Kant. Nel saggio pubblicato in Sentieri
interrotti, infatti, non sembra esserci alcuna traccia esplicita di un
confronto approfondito di questo tipo con la terza Critica. Semmai, a emergere nel saggio L’origine dell’opera d’arte – che, com’è noto, si articola e si
sviluppa principalmente intorno alla questione del rapporto fra arte e verità –
è un riferimento importante all’Estetica
di Hegel e alla sua celebre e variamente interpretata tesi della “fine dell’arte”
o “morte dell’arte”, più che un riferimento alla Critica della facoltà di giudizio di Kant. Nel dire ciò, mi
riferisco chiaramente alla tesi hegeliana del “carattere di passato (Vergangenheitscharakter) dell’arte”, con
la quale il filosofo di Stoccarda intende fondamentalmente che, «[p]er noi,
l’arte non è più il grado più alto per l’espressione dell’idea» (Hegel 2017, p.
4). Secondo Hegel, infatti, l’«arte non vale più per noi come il modo più alto
in cui la verità si dà esistenza», giacché «[n]el progredire dello sviluppo
culturale di ogni popolo giunge in generale l’epoca in cui l’arte rimanda oltre
se stessa» e l’età contemporanea, a suo giudizio, corrisponde precisamente a
una tale fase: «Si può, sì, sperare che l’arte s’innalzi e si perfezioni sempre
di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito»
(Hegel 1997, p. 120). Scrive Hegel:
lo spirito del nostro mondo odierno
[…] appare come al di sopra della fase in cui l’arte costituisce il modo
supremo di esser coscienti dell’assoluto. Il genere peculiare della produzione
artistica e delle sue opere non soddisfa più il nostro bisogno più alto; noi
siamo ben oltre il poter onorare in maniera divina e venerare le opere d’arte;
l’impressione che esse fanno è di natura più ponderata, e quel che da esse è
suscitato in noi richiede una pietra di paragone più alta e una conferma
diversa. Il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato la bella arte. […]
Qualunque atteggiamento si voglia assumere di fronte a ciò, è certo che ora l’arte
non arreca più quel soddisfacimento dei bisogni spirituali, che in essa hanno
cercato e solo in essa trovato epoche e popoli precedenti. […] Perciò il nostro
tempo, per la sua situazione generale non è favorevole all’arte. […] Per tutti
questi riguardi l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per
noi un passato. Con ciò essa ha perduto pure per noi ogni genuina verità e
vitalità (Hegel 1997, pp. 14-16; su ciò, cfr. ad esempio Gethmann-Siefert
1993; Geulen 2002; Ophälders 2014; Vieweg, Iannelli e Vercellone 2015; Romagnoli 2016; Siani 2017[3]).
A
tal riguardo, alla fine del saggio L’origine
dell’opera d’arte Heidegger si richiama esplicitamente a quella che chiama la
«meditazione più vasta – perché pensata in base alla metafisica – che
l’Occidente possegga intorno all’essenza dell’arte, [le] Lezioni di estetica di Hegel», e si domanda appunto se l’arte sia
«ancor oggi una maniera essenziale e necessaria in cui si storicizza la verità
decisiva per il nostro Esserci storico» oppure no, concludendo che l’«ultima
parola intorno a questa affermazione di Hegel [scil. quella del “carattere di passato dell’arte”] non è ancora
stata detta» (Heidegger 1997, p. 63). Parecchi anni dopo, nella lettera a
Rudolf Krämer-Badoni del 25 aprile 1960, Heidegger comunque specificherà:
nella postfazione al mio saggio [Holzwege, pp. 66-67] cito Hegel,
concordando con la tesi secondo cui “quanto alla sua suprema destinazione,
l’arte è per noi qualcosa che appartiene al passato”, [ma] ciò non vuol dire né
aderire alla concezione hegeliana dell’arte né affermare che l’arte sia alla
fine. Desidero piuttosto dire che l’essenza
dell’arte è per noi degna di essere interrogata. Io non “posso fermarmi a Hegel” perché non sono mai stato con lui, lo
impedisce l’abissale differenza nella determinazione dell’essenza della
“verità” (Heidegger 2010, pp. 89-91).
Secondo
Heidegger, com’è noto, l’«opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente.
Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente.
Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della verità (das Sich-ins-Werk-Setzen der Wahrheit)»
(Heidegger 1997, p. 25). Al fine di articolare concettualmente e
chiarire il rapporto tra opera d’arte e verità (intesa da Heidegger come Unverborgenheit, in quanto “traduzione”
del greco aletheia), nelle prime
parti del saggio L’origine dell’opera
d’arte ci si serve soprattutto degli esempi della pittura di van Gogh e del
tempio greco e si introduce una celebre coppia di concetti, quelli di “Mondo (Welt)” e “Terra (Erde)”, in riferimento ai quali Heidegger enuncia i «due tratti
essenziali dell’esser opera dell’opera»: rispettivamente, l’«esporre un Mondo (Aufstellen einer Welt)» e il «porre-qui
la Terra (Herstellen der Erde)». Di
questi due “tratti costitutivi (Wesenszüge)”
dell’opera d’arte, però, Heidegger non si limita a fornire delle descrizioni
isolate ma ne ricerca piuttosto l’intima unità, la quale è rinvenibile proprio
nella loro “lotta (Streit)”. Heidegger,
infatti, afferma che «[i]l Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge
attraverso il Mondo», e che ciascuno dei due tratti, nella misura in cui mira a
imporsi sull’altro, mostra al tempo stesso di averne essenzialmente bisogno,
cosicché «[i]l contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta (das Gegeneinander von Welt und Erde ist ein Streit)» nella quale
«ha luogo l’unità dell’opera» (Heidegger 1997, pp. 33-35). Sulla base della
centralità assunta dalla questione relativa alla verità dell’opera d’arte e,
come ho detto poc’anzi, sulla base della rielaborazione anche da parte di
Heidegger della celebre questione relativa alla “fine” o “morte” dell’arte
(così come da parte di Adorno, Gadamer, Gehlen, Danto e molti altri autori
importanti del Novecento: su ciò, cfr. Valagussa 2013, Vercellone 2013), alla
fine del saggio L’origine dell’opera
d’arte emerge in modo esplicito il succitato rilievo conferito da Heidegger
al confronto critico con la riflessione di Hegel su questi temi, laddove un
confronto di pari livello e importanza con il pensiero estetico di Kant sembra
essere assente in questo contesto[4].
Riferendosi proprio alla sorprendente e, a seconda dei punti di vista, forse
anche problematica assenza di un confronto approfondito con la Critica della facoltà di giudizio nel
saggio sull’origine dell’opera d’arte, in un suo contributo recente Günter
Figal ha parlato esplicitamente di uno “spazio vuoto (blank space)” che non manca di suscitare interrogativi a chi voglia
occuparsi del rapporto tra la filosofia dell’arte di Heidegger e l’estetica di
Kant. Scrive infatti
Figal:
Heidegger
presents the philosophical project of aesthetics without mentioning the book
that in general is most closely associated with it: Kant’s Critique of the Power of Judgment. In Heidegger’s considerations on
aesthetics and art Kant’s groundbreaking examination of aesthetic experience is
just a blank space. […] As it seems Heidegger did not feel challenged by Kant’s
third Critique; the book did not
speak to him. […] Since Heidegger hardly could underestimate Kant’s
contribution to modern philosophy of art, his understanding of aesthetics must
be of such a kind that he saw no need to take Kant’s contribution into account
or, even more likely, that he wished to avoid it. Since Heidegger could not
seriously regard Kant’s contribution to aesthetics as marginal, he maybe
skipped it because it might have been a serious challenge of Heidegger’s view
on aesthetics and thus also of his own thinking on art (Figal
2020, pp. 61-62).
A tal proposito, tenuto conto anche della
significativa contemporaneità fra la versione definitiva di L’origine dell’opera d’arte (1935-36) e
il corso universitario La volontà di
potenza come arte (1936-37) svolto da Heidegger presso l’Università di
Friburgo, è importante non trascurare la sezione di quest’ultimo intitolata Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia
dell’estetica. Qui, infatti, muovendo dalla premessa secondo cui «la
riflessione nietzscheana sull’arte si muove in linea con la tradizione […]
determinata nel suo carattere peculiare dal nome “estetica”» e secondo cui,
pertanto, per poter comprendere fino in fondo «l’interpretazione nietzscheana
dell’essenza dell’arte», è necessario prima «connotare l’essenza dell’estetica,
il suo ruolo entro il pensiero metafisico e il suo riferimento alla storia
dell’arte europea» (Heidegger 1994, pp. 86, 88), Heidegger offre una serie di
osservazioni che, nonostante la loro brevità, si rivelano molto importanti e
dense di contenuti. In estrema sintesi, i “fatti fondamentali” della storia dell’estetica
elencati ed esaminati da Heidegger sono: (1) la mancanza di una «riflessione
speculativo-concettuale» sull’arte nell’età della «grande arte greca», dovuta
al fatto che una tale cultura possedeva «un sapere talmente originario e lucido,
e una tale passione per il sapere, da non avere bisogno, in tale lucidità del
sapere, di una “estetica”» (Heidegger 1994, pp. 88-89), cioè di una sorta di spiegazione
o giustificazione concettuale “a posteriori” dell’arte; (2) la nascita della
filosofia dell’arte greca «all’epoca di Platone e di Aristotele» – ovvero, dal
punto di vista critico di Heidegger, «nel momento in cui la grande arte, ma
anche la grande filosofia che le è parallela, si approssimano alla fine» – e la
coniazione, in quel contesto, di una serie di «concetti fondamentali che da
allora definiscono l’orizzonte di ogni posizione della questione dell’arte»
(Heidegger 1994, p. 89); (3) l’imporsi, in età moderna, della soggettività come
istanza filosofica fondamentale e la conseguente relegazione dell’arte «allo stato
sentimentale dell’uomo, alla aisthesis»:
il che, secondo Heidegger, segna per l’arte la perdita della «sua essenza,
[del] riferimento diretto al suo compito fondamentale di rappresentare
l’assoluto» (Heidegger 1994, p. 92); (4) la piena comprensione, nel
diciannovesimo secolo, della «fine della grande arte», cioè del fatto che,
«[n]el momento storico in cui l’estetica raggiunge la sua massima altezza,
vastità e rigore di sviluppo possibili, la grande arte è alla fine», e la
grande concettualizzazione di tale fenomeno fornita da Hegel in quella che
Heidegger, come abbiamo visto, reputa l’«estetica ultima e massima
dell’Occidente» (Heidegger 1994, p. 93); (5) il tentativo, nel corso di quello
stesso secolo, di riesumare il fantasma di un’«opera d’arte totale» che riesca
nuovamente a elevare l’arte al livello di «un bisogno assoluto» – laddove però
bisogna constatare che per l’umanità dell’Ottocento «l’assoluto viene ormai
esperito soltanto come il puro indeterminato, come la completa dissoluzione nel
sentimento puro» (e qui Heidegger fa riferimento alla concezione wagneriana del
Gesamtkunstwerk) – e, inoltre, a
partire dal fallimento di una tale metafisica artistica, il progressivo
sviluppo di un «sapere dell’arte» ormai inteso come mero «esperire e indagare i
puri fatti della storia dell’arte», come «vera e propria indagine scientifica
della storia dell’arte» (Heidegger 1994, pp. 96, 98); (6) infine, la
trasformazione dell’estetica, operata proprio da Nietzsche, in «fisiologia
dell’arte» e, con ciò, il definitivo compimento della «posizione estetica della
questione dell’arte», la quale con il filosofo di Così parlò Zarathustra viene ormai «pensata fino in fondo nelle sue
ultime conseguenze»: «l’estetica come fisiologia applicata» (Heidegger 1994,
pp. 99-100).
Riassumendo, si può dire che lo schema heideggeriano
relativo ai suddetti “fatti fondamentali” della storia dell’estetica sia quello
di una progressiva decadenza riguardante l’arte e, soprattutto, la riflessione
filosofica sull’arte, cioè appunto l’estetica, la quale, proprio in base al suo
impianto generale, secondo Heidegger «assume l’opera d’arte come un oggetto, e
precisamente come l’oggetto della aisthesis,
della apprensione sensibile» che al giorno d’oggi «prende il nome di esperienza
vissuta (Erlebnis)» (Heidegger 1997, p.
62). Con una frase indubbiamente molto forte e significativa che, volendo, è
anche collegabile a certi sviluppi recenti del dibattito sulla cosiddetta
estetizzazione del mondo e la parallela vaporizzazione dell’arte (cfr. Michaud
2019), Heidegger constata infatti: «l’“esperienza vissuta” in quanto tale
diventa decisiva. L’opera è ormai soltanto un attivatore di esperienza vissuta»
(Heidegger 1994, p. 95). Non è certo un caso, sotto questo punto di vista, che
nel famoso saggio L’epoca dell’immagine
del mondo Heidegger citi criticamente, fra le manifestazioni essenziali
dell’età moderna, anche il «processo in virtù del quale l’arte è ricondotta
nell’orizzonte dell’estetica [e] l’opera d’arte si trasforma in oggetto dell’esperienza
vissuta» (Heidegger 1997, p. 72): un processo, quest’ultimo, la cui radice è
individuata da Heidegger proprio nel costituirsi dell’uomo a “soggetto” nella
modernità. Così come non deve affatto stupire, alla luce di quanto è stato
detto fin qui, l’avvertenza di Heidegger al lettore, posta in apertura alla
raccolta di saggi La poesia di Hölderlin,
secondo cui le sue «Delucidazioni non
pretendono di essere contributi alla ricerca storiografica sulla letteratura o
all’estetica», giacché esse non sono l’esito di una mera indagine estetica (in
base al punto di vista critico di Heidegger sull’estetica, chiaramente) ma, in
maniera molto più enfatica e ambiziosa, «scaturiscono da una necessità del
pensiero» (Heidegger 2001, p. 3). Forse persino più esplicita, per certi versi,
è la presa di posizione critica di Heidegger in un altro corso universitario
friburghese pressoché coevo agli scritti sull’arte e l’estetica precedentemente
citati, cioè Introduzione alla metafisica
del 1935, dove si legge che, mentre gli antichi Greci «intendono per “bellezza”
il domare (Bändigung)», il «confluire
insieme dei più cospicui sforzi antagonistici», per gli uomini moderni e
contemporanei «il bello è invece ciò che rilassa, che riposa, e risulta per
questo fatto per il godimento»: il che, secondo Heidegger, implica che l’«estetica
intende tutto ciò», cioè l’arte e la bellezza, «in modo diverso» rispetto a
come esse erano intese originariamente e ancora oggi andrebbero intese correttamente:
L’arte è per essa [scil.
l’estetica] rappresentazione del bello nel senso di ciò che piace, del
gradevole. Invece l’arte è il manifestarsi dell’essere dell’essente. Bisogna
dare alla parola “arte” e a ciò che essa vuole significare, un nuovo contenuto,
riguadagnando una posizione originaria di base per ciò che concerne l’essere
(Heidegger 1990, p. 140).
Ora, tutto ciò è non soltanto interessante in sé, cioè in relazione allo studio e all’approfondimento della filosofia dell’arte di Heidegger in quanto tale, ma è anche significativo e ricco di implicazioni ai fini del nostro discorso sulla particolare (e spesso nient’affatto aproblematica) ricezione della Critica della facoltà di giudizio nell’ermeneutica contemporanea. Infatti, la dura e serrata critica di Heidegger all’impostazione fondamentalmente soggettivistica di tutto il pensiero moderno, compresa dunque l’estetica filosofica, va a ripercuotersi quanto meno implicitamente, e talvolta anche esplicitamente, pure sull’impostazione di fondo della terza Critica e, quindi, sul ruolo decisivo di Kant all’interno della nascita e dello sviluppo dell’estetica degli ultimi secoli. A tal proposito, è importante notare come nel succitato corso La volontà di potenza come arte, subito dopo la summenzionata sezione Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia dell’estetica, Heidegger inserisca una sezione specificamente dedicata al tema La dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e di Nietzsche. Qui Heidegger, pur soffermandosi principalmente su Nietzsche (dato che il contesto generale è appunto quello di una serie di lezioni universitarie sul filosofo di Così parlò Zarathustra), dedica comunque alcune riflessioni al modo in cui Kant avrebbe affrontato il tema della bellezza e al modo in cui, a suo avviso, andrebbe interpretata in particolare la dottrina kantiana del compiacimento estetico “disinteressato” al fine di mettere al riparo tale dottrina da facili ma altresì fatali fraintendimenti. Per prima cosa, Heidegger definisce molto nettamente la Critica della facoltà di giudizio di Kant come l’«opera nella quale è esposta l’estetica» (Heidegger 1994, p. 114), ovvero l’opera in cui sarebbe esposta, come abbiamo già visto, una concezione essenzialmente “errata” di determinate tematiche perché “viziata” da determinati pregiudizi che affondano le loro radici nella tradizione metafisica nel suo insieme, secondo il punto di vista critico di Heidegger sulla storia della metafisica come storia dell’“oblio dell’essere (Seinsvergessenheit)”. A ciò il filosofo di Essere e tempo fa seguire alcuni rapidi riferimenti ai §§ 2-5, 57 e 59 della terza Critica (Kant 1999, pp. 40-46, 173-176, 185-189), sempre al fine di mostrare come Schopenhauer e poi, sulla sua scia, anche Nietzsche avrebbero frainteso e distorto il significato autentico dei «concetti fondamentali kantiani di “piacere” e di “riflessione”», «come [già] per il concetto di “interesse”» (Heidegger 1994, p. 119). Neanche qui, dunque, si può dire che si giunga a un confronto approfondito da parte di Heidegger con la Critica della facoltà di giudizio nella sua interezza e complessità, o anche solo con la prima parte dell’opera nel suo insieme (cioè, quella sulla facoltà estetica di giudizio), a conferma della succitata diagnosi di blank space recentemente offerta da Figal. Ciononostante, rimane sicuramente degno di nota quello che Heidegger afferma a proposito di un momento specifico dell’analisi kantiana del bello in questa stessa sezione del corso La volontà di potenza come arte, là dove egli scrive:
per trovare bello qualcosa, [per Kant] dobbiamo lasciare che
sia ciò in cui ci imbattiamo a venirci dinanzi puramente come tale, nel suo
proprio rango e nella sua dignità. […] Il comportamento nei confronti del bello
in quanto tale, dice Kant, è il libero
favore (freie Gunst); dobbiamo
lasciare libero in quello che è, come tale, ciò in cui ci imbattiamo. […] Ma
questo libero favorire – domandiamo ora –, questo lasciare che il bello sia
quello che è, è una sospensione della volontà, è indifferenza? O questo libero
favore non è piuttosto lo sforzo sommo del nostro essere, la liberazione di noi
stessi per lasciare libero ciò che ha in sé un propria dignità, affinché
l’abbia soltanto in modo puro? […] [C]oncependo l’essenza dell’interesse in
maniera più netta, ed escludendo quindi l’interesse dal comportamento estetico,
Kant non fa di quest’ultimo qualcosa di indifferente, ma crea la possibilità
che questo comportamento in rapporto all’oggetto bello sia ancora più puro e
più intimo. L’interpretazione kantiana del comportamento estetico come “piacere
della riflessione” penetra in uno stato fondamentale dell’essere uomo, nel
quale soltanto l’uomo perviene alla pienezza fondata della sua essenza
(Heidegger 1994, pp. 116, 119).
Seppure sullo sfondo di un mancato confronto esplicito
e approfondito con l’estetica kantiana da parte di Heidegger nei suoi testi
principali (primo fra tutti, il succitato saggio L’origine dell’opera d’arte), e seppure sullo sfondo di una
concezione fondamentalmente e finanche radicalmente negativa dell’estetica nel
suo insieme per le succitate ragioni (in gran parte riconducibili all’idea
heideggeriana della storia della metafisica come storia dell’“oblio
dell’essere”), cionondimeno queste ultime osservazioni sul tema della freie Gunst sembrano dischiudere uno
spazio parzialmente diverso. Ovvero, lo spazio per un confronto più proficuo
fra l’atteggiamento disinteressato (e dunque libero) verso gli oggetti nel
discorso di Kant sul bello, da un lato, e l’atteggiamento di libera apertura
del Dasein all’accadere dell’essere nel
pensiero di Heidegger, dall’altro, con conseguenze notevoli anche a proposito
del ripensamento del concetto stesso di libertà (su ciò, cfr. La Bella 2017).
3.
Com’è
noto, uno dei lasciti fondamentali di Heidegger alla filosofia contemporanea,
oltre che nelle sue opere ovviamente, risiede anche nel suo magistero e nella
sua influenza (soprattutto per via di alcuni suoi “leggendari” corsi
universitari a Friburgo e Marburgo) su un ampio numero di studiosi di filosofia
allora molto giovani e promettenti che, nei decenni successivi, avrebbero
offerto contributi autonomi di notevole rilievo sul piano del pensiero. Fra
questi allievi, perlomeno due si sono distinti anche per la loro importanza sul
piano della ricezione novecentesca della Critica
della facoltà di giudizio, dischiudendo linee interpretative originali
rispetto al testo kantiano che, a loro volta, non hanno mancato di generare
delle vere e proprie “storie degli effetti”. Nel dire ciò, mi riferisco a
Hannah Arendt, con la sua ormai famosa interpretazione in chiave politica della
nozione di facoltà estetica di giudizio nella terza Critica di Kant (cfr. Arendt 1990), e a Hans-Georg Gadamer, con la
sua non meno influente lettura della Critica
della facoltà di giudizio alla luce del perdurante significato della
“tradizione umanistica” nella nostra epoca tecno-scientifica e delle sue
implicazioni ermeneutiche (su ciò, cfr. Marino 2011).
Tralasciando
di soffermarci qui sull’interpretazione arendtiana e addentrandoci invece nella
lettura gadameriana della terza Critica (anche
per via di alcune sue convergenze con le succitate prospettive della filosofia
dell’arte di Heidegger), possiamo dire per prima cosa che uno dei punti
centrali della cosiddetta “estetica ermeneutica” di Gadamer è rappresentato
dall’idea di una perdita, che si sarebbe venuta a determinare negli ultimi
secoli, del profondo significato dell’esperienza estetica, con il suo
decadimento a «una specie di accessorio (Ergänzung),
una molteplice modalità di sgravio (eine
vielfache Art der Entlastung) dalla tensione provocata dall’esistenza»
(Gadamer 1973, p. 25). Secondo Gadamer, l’origine di tale fenomeno andrebbe
colta nel graduale imporsi, nell’Ottocento e nel Novecento, di un’inarrestabile
tendenza a «slegare l’opera d’arte dall’unità del suo mondo» ed a prescindere «da
tutto ciò in cui un’opera si radica come nel suo originario contesto vitale (ursprünglicher Lebenszusammenhang)», al
fine di rendere «l’opera […] visibile come “pura opera d’arte”», «nel suo puro
essere estetico» (Gadamer 2000, pp. 193-195). Tale operazione,
significativamente denominata da Gadamer “differenziazione estetica (ästhetische Unterscheidung)”, si
fonderebbe sul preliminare affermarsi, nel pensiero moderno
soggettivisticamente e coscienzialisticamente impostato (secondo la visione
critica della modernità offerta da Heidegger, che Gadamer almeno in parte
riprende), dell’idea di “coscienza estetica (ästhetisches Bewußtsein)”, la quale secondo Gadamer costituirebbe
appunto una tendenza ampiamente diffusa nel mondo moderno, la cui effettiva
influenza sul rapporto che ciascuno di noi stabilisce con l’arte deriverebbe proprio
dal fatto che una tale coscienza estetica «si crea anche una concreta esistenza
esterna» e «manifesta la sua produttività approntando delle [apposite] sedi»
(Gadamer 2000, p. 197). Fra queste sedi e istituzioni, ad esempio, spicca
soprattutto il museo, inteso da Gadamer come un vero e proprio correlativo
sociale della differenziazione estetica.
Com’è
noto, il capolavoro filosofico di Gadamer, Verità
e metodo, si apre con una prima
parte dedicata al recupero dei concetti-guida umanistici, al
trascendimento della soggettivizzazione dell’estetica inaugurata secondo
Gadamer proprio da Kant, al recupero del problema della verità dell’arte e
all’esplicazione di un’ontologia dell’opera d’arte (Gadamer 2000, pp. 31-361).
«L’estetica deve risolversi nell’ermeneutica (Die Ästhetik muß in der Hermeneutik aufgehen)» (Gadamer 2000, p.
353) è la frase-chiave posta a sigillo di questa prima parte del libro. Quindi,
Verità e metodo prosegue con una seconda parte dedicata a un’analisi
critica dell’ermeneutica romantica e dello storicismo ottocentesco, alla
trasformazione novecentesca dell’ermeneutica da metodica delle “scienze dello
spirito (Geisteswissenschaften)” a
dottrina filosofica universale e, infine, all’elaborazione di una teoria
dell’esperienza ermeneutica incentrata sul recupero di alcune nozioni
fondamentali (pregiudizio, autorità, classicità, distanza temporale,
applicazione) che si connettono poi fra loro nella nozione più ampia e
comprensiva di “coscienza della determinazione storica (wirkungsgeschichtliches Bewußtsein)” (Gadamer 2000, pp. 365-779).
Dopo la seconda parte, sfociante nell’elaborazione del suddetto concetto di
coscienza della determinazione storica, Verità
e metodo si chiude quindi con una terza
parte dedicata a un’analisi critica della filosofia del linguaggio
occidentale e all’individuazione del possibile orizzonte di un’ontologia
ermeneutica nella “linguisticità (Sprachlichkeit)”
dell’uomo (Gadamer 2000, pp. 783-997). «La linguisticità del comprendere è il concretarsi della coscienza della
determinazione storica» e «l’essere
che può venir compreso è linguaggio (Sein,
das verstanden werden kann, ist Sprache)» sono la frasi-chiave poste a
sigillo della terza e ultima parte del libro (Gadamer 2000, pp. 795, 965).
Come
dicevamo poc’anzi, in Verità e metodo
Gadamer prende posizione in maniera decisamente critica contro la cultura
moderna, sia a un livello generale, per via della sua eccessiva tendenza a conferire
un primato unilaterale al sapere tecnico-scientifico, e sia a un livello
particolare, nel caso delle questioni estetiche che qui ci interessano, per via
dell’inarrestabile tendenza moderna all’impoverimento dell’esperienza con
l’arte, esemplificato da ciò che abbiamo precedentemente chiamato la
“musealizzazione” di quest’ultima. In una tale tendenza moderna, infatti,
Gadamer sembra scorgere una segreta volontà di neutralizzare il potenziale
insito nelle creazioni artistiche e di confinare l’esperienza estetica entro le
mura di un luogo “sicuro” e separato dal resto del mondo. Sia in Verità e metodo, sia in diversi
contributi successivi, Gadamer sottolinea inoltre come l’artista stesso, nel
corso dell’epoca moderna, sia andato progressivamente smarrendo il proprio
posto nella società e, con ciò, il senso della propria attività. A prima vista,
infatti, la cultura moderna sembrerebbe garantire unicamente maggiore libertà e
indipendenza creativa e persino un innalzamento del ruolo sociale dell’artista,
ma in realtà, dietro tutto ciò, per Gadamer è possibile scorgere la relegazione
di quest’ultimo in uno spazio ristretto ed esclusivo dal quale non è più
possibile esercitare una concreta influenza sul resto della società. Come si
legge nel saggio L’attualità del bello,
ad esempio, l’artista moderno
non vive più in una comunità, ma si
crea egli stesso una comunità (er schafft
sich eine Gemeinde), con tutto il pluralismo che consegue da questa
situazione e con tutte le accresciute aspettative che vi sono necessariamente
connesse […]. Questa è in realtà la coscienza messianica dell’artista […] che
col suo appello rivolto agli uomini si sente quasi una specie di “nuovo
redentore” (wie eine Art “neuer Heiland”):
egli porta un nuovo messaggio di riconciliazione, e paga questa pretesa
restando un estraneo nella società, in quanto con la sua artisticità egli è
ormai soltanto un artista per l’arte (Gadamer 1986, p. 7).
Per
queste e ancora altre ragioni, Gadamer ritiene in generale che, nell’«età
industriale in cui viviamo», si vada diffondendo «una cultura estetica morente
(eine absterbende ästhetische Kultur)»
che «possiede più il carattere di una riserva ben protetta che non quello di
appartenere al nostro mondo» (Gadamer 2002a, p. 174). In particolare, nel nostro
mondo che «diventa sempre più uniforme in ogni sua parte» e che opera «un
livellamento di tutte le forme vitali (Nivellierung
aller Lebensformen)», si assisterebbe secondo Gadamer alla trasformazione
dell’esperienza estetica in «semplice e casuale riempimento di spazi del tempo
libero» (Gadamer 1996, p. 129). Ciò, ai suoi occhi, rappresenterebbe
«inequivocabilmente un sintomo del venire meno dell’autentico significato
dell’opera d’arte» e, addirittura, «una specie di sottosviluppo [della] nostra
cultura» (Gadamer 2002b, p. 170). E ciò, ricollegandoci adesso al discorso
svolto nei primi due paragrafi del presente contributo, spinge Gadamer a
intraprendere un’operazione critica o persino “distruttiva” nei confronti di
quella che gli sembra essere l’impostazione di fondo dell’estetica moderna, al
punto che, a tal riguardo, alcuni interpreti hanno esplicitamente parlato di
una «distruzione dell’estetica (Destruktion
der Ästhetik) in nome dell’arte» compiuta nella prima parte di Verità e metodo (Grondin 2001, pp. 112-113)[5].
È
proprio in questo contesto che il ruolo fondamentale svolto dalla Critica della facoltà di giudizio si
appalesa anche agli occhi di Gadamer, il quale però, a differenza di Heidegger,
non si sottrae a un esplicito confronto critico col testo kantiano e, anzi, si
sofferma con attenzione e precisione (sebbene anche con una certa parzialità
esegetica, perlomeno in alcune occasioni) sulla terza Critica. In estrema sintesi, il cuore dell’argomentazione di
Gadamer risiede nella messa in luce di come il pensiero moderno, screditando
progressivamente ogni forma di sapere differente da quello delle scienze
naturali, sia pervenuto anche a una fatale svalutazione della nostra esperienza
con l’arte. Secondo Gadamer, un ruolo-chiave in questa vicenda sarebbe stato
svolto da quell’«avvenimento epocale (Epochenereignis)»
rappresentato dal pensiero di Kant, che egli non esita a definire una vera e
propria «rivoluzione nel modo di pensare», un’autentica «cesura a partire dal
quale si calcola il prima e il dopo» (GW 4, p. 336). Se ciò, in generale, si
applica a tutte le questioni filosofiche prese in esame da Kant, nel caso
specifico delle questioni estetiche il riferimento è ovviamente alla Critica della facoltà di giudizio, in
quanto opera fondamentale per la nascita e lo sviluppo dell’estetica moderna.
Bisogna
dire che il confronto di Gadamer con la terza Critica è di lunga data – come testimoniato già dal saggio Zu Kants Begründung der Ästhetik und dem
Sinn der Kunst (Gadamer 1939) – e, soprattutto, è molto ampio e complesso,
nella misura in cui egli, soprattutto nella prima parte di Verità e metodo, prende in esame le dottrine dei rapporti tra gusto
e genio, tra bellezza libera e bellezza aderente, tra bello di natura e bello
artistico, e ancora altri aspetti del pensiero estetico kantiano (Gadamer 2000,
pp. 109-135). Per gli scopi limitati del presente contributo, mi limiterò a
dire che il punto fondamentale è probabilmente rappresentato dal fatto che
Kant, secondo Gadamer, avrebbe sì legittimato l’autonomia della dimensione
estetica, ma al prezzo di una significativa riduzione della sua rilevanza. Ciò,
nel senso che kantianamente «il giudizio estetico non dà assolutamente alcuna
conoscenza, nemmeno confusa, del suo oggetto», giacché l’autore della Critica della ragion pura avrebbe
«considerato razionale solo il metodo delle scienze naturali e l’imperativo
categorico morale, relegando nell’ambito della soggettività e del sentire, del
genio e della coscienza estetica, l’esperienza dell’arte e l’esercizio del
gusto critico» (Perniola 1997, pp. 83, 94). Il che, sulla base di quanto è
stato detto poc’anzi, risulta problematico e persino gravido di conseguenze
negative per un filosofo come Gadamer, il cui pensiero ermeneutico appare
complessivamente orientato proprio dall’esigenza di riscattare e, anzi,
valorizzare la verità extrametodica di ambiti quali la storia, le scienze dello
spirito, il linguaggio e, appunto, l’arte: una verità, quest’ultima, non
dimostrabile scientificamente né sfruttabile tecnologicamente, ma cionondimeno
di vitale importanza per l’esistenza umana. Come è stato notato,
secondo Gadamer, Kant […] avrebbe
favorito la diffusione dell’idea che l’arte e l’esperienza estetica
costituiscano [solo] il “dominio della bella apparenza”, isolato da contesto storico
e sociale dei suoi concreti rapporti con il mondo. […] Storicamente questo
processo si affermerebbe con il sorgere delle moderne istituzioni artistiche
(il museo e l’accademia, il teatro e la sala da concerto) con il loro
atteggiamento distaccato nei confronti delle opere d’arte, e, sul piano
teorico, soprattutto con la teoria kantiana del Giudizio estetico (Modica 1997,
p. 78).
Oltre
a ciò, un aspetto fondamentale dell’interpretazione gadameriana della terza Critica consiste nell’enfatica sottolineatura
del fatto che Kant avrebbe sì recepito nella sua concezione del bello,
dell’arte, del gusto e del genio la profonda e duratura eredità sedimentatasi
nei cosiddetti “concetti-guida umanistici” (Bildung,
sensus communis, gusto, facoltà di
giudizio), ma – secondo Gadamer – avrebbe al contempo operato una radicale
decontestualizzazione e finanche depoliticizzazione di tali concetti. Questi
ultimi, infatti, un tempo densamente intessuti di aspetti non soltanto estetici
ma anche etici, culturali e politici (tutti proficuamente intrecciati fra loro),
con Kant e soprattutto dopo Kant sarebbero stati invece radicalmente
soggettivizzati ed estetizzati, cioè ricondotti unilateralmente nell’ambito di
un’esteticità problematicamente isolata da ogni contesto vitale al fine di
coglierla in modo presuntivamente “puro”, in ultima analisi, nella
presenzialità immediata e irrelata dell’Erlebnis
(cfr. Gadamer 2000, pp. 85-145). Scrive Gadamer: «[l]a giustificazione
trascendentale del Giudizio estetico fondò l’autonomia della coscienza estetica
[…]. La radicale soggettivizzazione che era implicita nella nuova fondazione
dell’estetica operata da Kant ha fatto veramente epoca» (Gadamer 2000, p. 107).
Naturalmente,
una tale lettura della terza Critica,
oltre a risultare singolarmente diversa, se non proprio opposta, rispetto a
quella di Arendt, incentrata viceversa sulla tesi di un’inedita
politicizzazione del giudizio di gusto in Kant (su ciò, cfr. Marino 2012), non
ha mancato di suscitare in generale dubbi e resistenze da parte di alcuni
interpreti. A tal proposito, bisogna dire che lo stesso Gadamer in seguito ha
parzialmente ritrattato la lettura della terza Critica offerta in Verità e
metodo, ammettendo di aver interpretato in quel libro «la Critica della facoltà di giudizio [solo]
sul suo significato per la filosofia dell’arte» e di averla quindi sottoposta a
«un’interrogazione parziale» (Gadamer 2002a, p. 35), tenuto conto della
varietà, complessità e finanche eterogeneità di quest’opera su cui abbiamo
sinteticamente richiamato l’attenzione nel primo paragrafo del presente
contributo. Estremamente interessante ed esemplificativo, in tal senso, può
risultare il confronto fra un saggio di poco precedente rispetto a Verità e metodo, come La problematicità della coscienza estetica
del 1958 (Gadamer 1986, pp. 61-70), che essenzialmente presenta in forma più
sintetica alcune delle tesi-chiave esposte appunto nella prima parte di Verità e metodo, e un saggio molto più
tardo come Intuizione e perspicuità del 1980 (Gadamer 2002a,
pp. 23-40), nel quale si offre una prospettiva più ampia e si ammette che «la tradizionale collocazione della Critica della facoltà di giudizio nell’estetica
e nella filosofia dell’arte resta parziale e problematica. La terza Critica di
Kant non intendeva dare un nuovo fondamento all’estetica. Il suo oggetto aveva
un significato di principio molto diverso» (Gadamer 2002a, p. 35).
Ad
ogni modo, tenendo fermo qui all’interpretazione critica dell’estetica kantiana
e postkantiana offerta da Gadamer in Verità
e metodo (cioè nel libro che, a prescindere da parziali revisioni o
ritrattazioni successive, rimane in ogni caso il contributo filosofico più
importante fornito da questo pensatore), possiamo dire che, secondo la lettura
offerta da Gadamer, «la fondazione dell’estetica nella soggettività delle
energie dell’animo», elaborata nel modo più compiuto e sofisticato proprio da
Kant, avrebbe dato il via a «una pericolosa soggettivizzazione» facilmente
collegabile anche alla «teoria della sregolatezza del genio» (Gadamer 1987, pp.
88-89). Una soggettivizzazione, quest’ultima, destinata peraltro ad accentuarsi
ulteriormente nel corso dell’Ottocento, sino a sfociare secondo Gadamer nella
netta contrapposizione tra l’oggettività delle scienze e la (presunta) mera
soggettività dell’arte, con la conseguente relegazione dell’esperienza estetica
in un ambito di irrealtà ed extrarazionalità interpretabili, a seconda dei
punti di vista, come detentrici di una superiore spiritualità e verità o,
viceversa, di mera gratuità, irrilevanza e superfluità. Il punto, però, è che
per Gadamer nessuna di queste due false alternative è in grado di rendere
giustizia all’esperienza conoscitiva insita nell’arte. A suo giudizio, infatti,
ciò che è necessario a tal fine è proprio spezzare il predominio di
un’impostazione subordinata al “fatto delle scienze”, basata sulla dicotomia
soggetto/oggetto e incapace di pensare in maniera alternativa rispetto a tali
schemi. Sotto questo punto di vista, alcuni interpreti hanno affermato che
«l’aspetto principale della discussione sull’arte svolta in Verità e metodo» consisterebbe in un
vero e proprio «rifiuto dell’estetica, perché essa», considerata nel suo
complesso, non avrebbe mai smesso di «orientarsi sulla base dei concetti di
oggetto e di verità desunti dall’ambito delle scienze naturali» (Hammermeister
1999, p. 78). Secondo tali letture, anche Gadamer, al pari di Heidegger,
riterrebbe che «la teoria estetica in generale [sia] un tentativo filosofico
relativamente recente, reso possibile dal rivolgimento cartesiano verso il
soggetto e sospinto da problematiche e preoccupazioni di tipo epistemologico»,
il quale riduce la complessità dell’esperienza estetica «al modo in cui l’opera
d’arte appare al soggetto» (Hance 1997, p. 134). Sulla base di tutto ciò, ecco allora
che, in Verità e metodo, alla
“distruzione” della “coscienza estetica (ästhetisches
Bewußtsein)” e della nozione di “differenziazione estetica (ästhetische Unterscheidung)” a essa
correlata Gadamer fa seguire un’analisi fenomenologica dell’esperienza con
l’arte che, infine, mette capo alla nozione di “non-differenziazione estetica (ästhetische Nichtunterscheidung)”. Una
nozione, quest’ultima, che mira proprio a segnalare come, di fronte a «tutto
quel che ha la stabilità di un’opera d’arte», si realizzi una «solidarietà
nella ricezione», una «condivisione di ciò che è comune (Teilhabe an dem Gemeinsamen)», una «enunciazione (Aussage) nel segno di una comunanza e di
una verità che unisce tutti» e che, pur non essendo metodicamente verificabile,
è cionondimeno vincolante ed esistenzialmente rilevante: nell’esperienza
estetica, dunque, si realizza qualcosa di simile a «un autentico dialogo, dove
il colloquio procede in una direzione che non può essere preventivata» (Gadamer
2002a, pp. 46-50).
4.
Dopo
avere sinteticamente esaminato, nel contesto del presente contributo sulla
ricezione dell’estetica kantiana nel contesto dell’ermeneutica contemporanea,
l’interpretazione critica della Critica
della facoltà di giudizio offerta da Gadamer e il confronto con la terza Critica solamente accennato da Heidegger
(perlomeno in termini espliciti, giacché non è naturalmente da escludere
un’implicita eredità kantiana in diversi concetti heideggeriani), in
quest’ultimo paragrafo intendo soffermarmi sul confronto esplicito (e, a
differenza che nei primi due casi, positivo e costruttivo) con la Critica della facoltà di giudizio da
parte di un filosofo contemporaneo attivo nell’ambito del pensiero ermeneutico
attuale: Günter Figal. Studioso importante di Heidegger e autore di contributi
significativi sul pensiero dell’autore di Essere
e tempo (Figal 2006a, 2006b), nonché allievo diretto di Gadamer e
prosecutore del discorso filosofico dell’ermeneutica (Figal 2007), negli ultimi
anni Figal ha lavorato molto intensamente alla delineazione di un proprio
percorso autonomo di pensiero all’interno della cornice di una fenomenologia
ermeneuticamente orientata (o, se si preferisce, di un’ermeneutica
fenomenologicamente orientata). Una siffatta esigenza di autonomia filosofica
lo ha portato anche a prendere le distanze da diversi aspetti delle filosofie
dei suoi autori di riferimento, cioè appunto Heidegger e Gadamer, e ciò, come
vedremo, non manca di offrire spunti e rilievi interessanti ai fini di un
confronto con la Critica della facoltà di
giudizio in chiave fenomenologico-ermeneutica.
Su
un piano filosofico generale, la succitata esigenza di autonomia filosofica ha
trovato espressione soprattutto nell’ampio trattato sistematico Oggettualità. Esperienza ermeneutica e
filosofia (Figal 2012), su cui mi soffermerò nella prima parte del presente
paragrafo, laddove su un piano più specificamente estetico Figal ha poi
sviluppato il proprio discorso nel libro Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia (Figal
2015), su cui mi soffermerò invece nel secondo sottoparagrafo. Proprio nella
prima parte di Il manifestarsi dell’arte, come vedremo, trova posto
anche un’approfondita disamina dell’estetica kantiana e, soprattutto, della
concezione kantiana della bellezza, che Figal non esita a riprendere e
rivalutare anche in funzione critica nei confronti delle filosofie dell’arte
“anti-estetiche” (nell’accezione precedentemente chiarita) di Heidegger e
Gadamer. Tuttavia, poiché Il manifestarsi dell’arte costituisce in un
certo senso uno sviluppo in ambito specificamente estetico della concezione
filosofica presentata in Oggettualità,
prima di arrivare all’estetica e alla filosofia dell’arte di Figal (e, in
particolare, alla sua interpretazione della Critica
della facoltà di giudizio) sarà opportuno fornire alcuni cenni generali
alla fenomenologia ermeneutica esposta per l’appunto in Oggettualità.
4.1.
Oggettualità
presenta un quadro organico, completo e “totalizzante” (nell’accezione migliore
del termine, da un punto di vista filosofico) del pensiero di Figal, nella
forma classica del trattato filosofico e del discorso sistematico che, dopo
aver chiarito nei primi capitoli in cosa consista l’annunciata transizione
dall’ermeneutica filosofica alla filosofia ermeneutica e come vada inteso il fenomeno
ermeneutico fondamentale (cioè l’interpretare, nella sua strettissima relazione
con l’oggettualità), prende in considerazione, nell’ordine, i temi del mondo
come spazio ermeneutico, della libertà, del linguaggio, del tempo e, infine,
della vita. In Oggettualità Figal
definisce esplicitamente il proprio pensiero come “filosofia ermeneutica”. Ora,
a prima vista la dizione “filosofia ermeneutica” potrebbe anche non destare
particolare attenzione, vista la frequente abitudine a usare in maniera piuttosto
indifferente, e persino a scambiare tra loro, le nozioni di “ermeneutica
filosofica” e “filosofia ermeneutica”. Per Figal, però, un siffatto uso dei
termini nasconde sottili insidie ed è foriero di equivoci e incomprensioni su
ciò che è realmente in gioco in queste due differenti possibilità del pensiero
ermeneutico. Al chiarimento di questa complessa trama di relazioni, prospettive
e sviluppi è interamente dedicato il primo e fondamentale capitolo del libro, intitolato proprio Dall’ermeneutica filosofica alla filosofia
ermeneutica e volto a delineare una sorta di itinerario che, muovendo
dall’imprescindibile confronto con le principali tappe dell’ermeneutica
filosofica otto- e novecentesca (l’ermeneutica delle scienze dello spirito di
Dilthey e, in parte, ancora di Gadamer; l’ermeneutica della fatticità di
Heidegger, ripresa ma anche trasformata in profondità da Gadamer, «senza che
ciò [però] possa essere notato a prima vista» [Figal 2012, p. 31]; infine,
l’ermeneutica come filosofia pratica, ancora una volta impostata dal giovane
Heidegger negli anni Venti ma compiutamente ed esplicitamente dispiegata solo
da Gadamer negli anni Sessanta-Settanta), approda infine a un’idea matura e
compiuta di filosofia ermeneutica. Una filosofia ermeneutica che ha appunto nel
problema dell’oggettuale il proprio cuore teorico e principale centro
d’interesse, intorno al quale si irradia una molteplicità di temi coerentemente
connessi fra loro. Secondo Figal,
nell’esperienza ermeneutica abbiamo
a che fare con qualcosa di diverso da noi, con qualcosa che ci si oppone e che
così facendo ci lancia una sfida. L’esperienza ermeneutica è esperienza
dell’oggettuale – di ciò che è qui e ora, affinché corrispondiamo a esso, e che
tuttavia non viene assorbito in nessun tentativo di corrispondere. Per questo,
nella misura in cui costituisce il tema ermeneutico, l’oggettuale deve
collocarsi al centro del pensiero ermeneutico. L’oggettualità è il tema
capitale della filosofia impostata in termini ermeneutici. […] Come si
mostrerà, l’interpretazione è l’esplorazione dell’oggettuale. Essa esplora
l’oggettuale rappresentandolo (Figal 2012, pp. 9-11).
A
giudizio di Figal, però, se ci si continua a muovere esclusivamente all’interno
di un quadro di pensiero heideggeriano-gadameriano non risulta possibile
rendere adeguatamente giustizia al tema-chiave dell’oggettualità. Innanzitutto,
infatti, nonostante l’ermeneutica venga abitualmente identificata con una
filosofia incentrata sul concetto di interpretazione, né Heidegger né tantomeno
Gadamer, a suo giudizio, avrebbero adeguatamente tematizzato e valorizzato tale
concetto. Addirittura, secondo Figal, «l’interpretazione non svolge alcun ruolo
in Verità e metodo» (Figal 2012, p.
1267), il che, per certi versi, sembra trovare conferma anche nei rilievi
critici di un’altra eminente esponente del pensiero ermeneutico contemporaneo,
Donatella Di Cesare, secondo la quale l’ermeneutica di Gadamer «non è una filosofia dell’interpretazione.
Non si è mai intesa in tal modo» (Di Cesare 2007, p. 282). Riguardo, poi, al
tema specifico dell’oggettualità, come si legge nel § 13 di Oggettualità, «la filosofia moderna ha
avuto difficoltà con l’oggettuale. […] Non appena nella filosofia moderna viene
scoperta l’oggettualità, si pone subito il problema di come superarla» (Figal
2012, p. 367). Ciò contraddistinguerebbe, fra le altre, anche le filosofie di
Husserl e Heidegger: in particolare, secondo Figal, le obiezioni rivolte da
Husserl alla fondamentale tendenza matematizzante-oggettivante della scienza
sarebbero state estese da Heidegger anche alla filosofia che, «con il suo
atteggiamento teoretico nei confronti del mondo», avrebbe sviluppato «il
modello per la scienza. In quanto “obiettivazione” l’atteggiamento teoretico in
rapporto alla vita umana» equivarrebbe allora, per l’autore di Essere e tempo, «a una
“devitalizzazione” che occulta l’esperienza vitale originaria» (Figal 2012, p.
377). Secondo Figal, Husserl e Heidegger riuscirebbero dunque a «distanziarsi
dalle determinazioni dogmatiche della scienza» e a risalire «all’attuazione non
obiettiva della vita o dell’esserci, per mettere in luce una connessione di
senso in base a cui si può dischiudere il senso di ciò che si presume sia
l’obiettivo», ma al tempo stesso lascerebbero senza risposta «il problema
relativo alla possibilità della stessa obiettivazione. Non vi è nessuna via che
conduca fuori dall’immanenza […] della vita o dell’esserci», anche se «d’altro
canto non si può contestare che qualcosa sia “fuori”» (Figal 2012, p. 379).
Se,
dunque, caratteristici del pensiero moderno sono quelli che Figal non esita a
chiamare dei veri e propri «tentativi di de-oggettivazione» – fondamentalmente
dovuti alla «preoccupazione che, nel rivolgerci verso l’elemento esteriore, ci
consegniamo ad esso e possiamo perderci in esso» (Figal 2012, pp. 379, 387),
ossia al timore che l’oggettivazione debba necessariamente sfociare
nell’alienazione e nella reificazione –, allora ecco che la sua filosofia
ermeneutica si ripropone, in un certo senso, un’autentica riabilitazione della
centralità della nostra relazione agli oggetti. Ne scaturisce dunque una
centralità dell’oggettuale, inteso come ciò che «si presenta di fronte […] e
allora, almeno per un momento, si oppone»;
una centralità, per la nostra esperienza del mondo in generale, «dell’esteriorità
delle cose» e finanche del fatto «che
noi stessi siamo anche una cosa fra cose» (Figal 2012, pp. 387, 391, 397). Per
poter sviluppare appieno questa tematica e, in particolare, per poter afferrare
in maniera adeguata la connessione ermeneutica fondamentale di
«interpretazione, comprendere e oggettualità [che] si coappartengono» (Figal
2012, p. 411), secondo Figal è però indispensabile riabilitare anche un
particolare tipo di impostazione filosofica, per così dire. Si tratta della
«impostazione della contemplazione», di una contemplazione intesa come
«delucidazione concettuale dell’ermeneutico in base alla sua possibilità nel
mondo» e che è essenzialmente fenomenologica, nel senso che «in essa è in gioco
una fenomenologia dello spazio ermeneutico inteso come mondo» (Figal 2012, p.
409).
Tutto
ciò è intimamente connesso a un altro aspetto fondamentale della filosofia di
Figal, emerso già nelle parti di Oggettualità
in cui il filosofo tedesco si confronta criticamente con la succitata
tendenza – propria sia di Heidegger, sia di Gadamer – a concepire l’ermeneutica
filosofica «come una variante del sapere pratico», ossia in base al modello
dell’etica aristotelica «come “filosofia pratica”» (Figal 2012, p. 83). In
questo modo, secondo Figal, Heidegger e Gadamer manifesterebbero però
implicitamente un pregiudizio antiteoretico – riconducibile alla loro (erronea)
identificazione della teoria, in generale, con i metodi oggettivanti e con il
«sapere meramente constativo, separato dal proprio essere», della «teoria scientifica» – e, soprattutto,
cadrebbero nella difficoltà di non saper rispondere alla domanda su «come deve
essere possibile una filosofia pratica senza il suo riferimento, per Aristotele
essenziale, alla filosofia teoretica» (Figal 2012, p. 83). Figal, invece, parla
senza mezzi termini di una «inaggirabilità dell’elemento teoretico» e di
un’alternativa possibile «fra il sapere-per-sé» valorizzato dall’ermeneutica
come filosofia pratica, da un lato, e «il freddo, disinteressato constatare» della
scienza moderna, dall’altro (Figal 2012, pp. 85, 87). Si tratta, in sintesi, di
quell’ideale di contemplazione di cui abbiamo parlato poc’anzi, che corrisponde
«esattamente [a] quello che Husserl aveva definito come essenza dell’epoché» e che sfocia nell’idea di «un
comprendere pensato in base alla fenomenologia e nel quale è già operante ciò
che si può manifestare come atteggiamento specificamente fenomenologico. Con
esso», continua Figal, si apre «la possibilità di un’ermeneutica come
fenomenologia. Per questo essa dovrebbe, anche in base all’impostazione
fenomenologica, potersi sviluppare come filosofia ermeneutica, invece di essere
ermeneutica filosofica» (Figal 2012, p. 87). In altre parole, per Figal,
l’interpretare va concepito
come un atteggiamento teoretico nel
senso della theoria o contemplatio; è un conoscere libero da
ogni volontà di modificare le cose e da ogni orientamento verso una meta.
Interpretare qualcosa significa sempre: interrompere la comprensione immediata,
rivolta all’applicazione e alla realizzazione, chiedendosi cosa è in verità ciò
con cui abbiamo a che fare, quale significato e quale senso ha (Figal 2012, p.
1267).
Fondamentale,
all’interno della filosofia dell’oggettualità di Figal, è in particolare la
questione del rapporto fra le nozioni di mondo e vita, o più precisamente la
questione della Lebenswelt. A tal
proposito, Figal afferma chiaramente che il «problema conclusivo» del libro
concerne «il concetto guida per la descrizione dell’“essere” nel mondo, che non
è essere», come forse verrebbe spontaneo pensare seguendo Heidegger, «ma vita»
(Figal 2012, p. 13). Non a caso, il settimo capitolo del libro, intitolato
proprio Vita e ricco di riferimenti
ad autori come Merleau-Ponty e Plessner, contiene alcune delle analisi più preganti
e significative dell’intero libro, per esempio là dove Figal si spinge fino a
definire l’uomo come «un essere vivente ermeneutico» per il fatto che
«l’aspetto peculiare della vita umana risiede nel rappresentare (Darstellen)», nel «non poter fare a meno
del rappresentare e di rappresentazioni» (Figal 2012, p. 1023); oppure, là dove
egli prende in esame la differenza, centrale per l’intera tradizione della
fenomenologia ma anche per l’antropologia filosofica novecentesca, tra la
dimensione della corporeità racchiudibile nel concetto di corpo (Körper) e quella definibile col concetto
di soma (Leib), ovvero corpo
organico, corpo vivo, corpo vivente (cfr. Figal 2012, pp. 1107-1125). Da
ultimo, nelle pagine conclusive del libro riemerge con forza il tema centrale
di tutta l’opera, là dove si legge che «ogni ricognizione conduce là dove già
sempre siamo prima di ogni relazionarsi a sé; conduce fuori, nel mondo delle
cose»: gli oggetti «sono eminentemente i correlati della rappresentazione, vale
a dire dell’interpretazione e quindi anche del comprendere. Nel loro opporsi
ricordano l’originarietà della vita […]. La misura di tutte le cose non è
l’uomo. Proprio nel momento in cui gli stessi oggetti rifiutano ogni risposta e
tanto più un’ultima risposta, danno una misura, in base a cui l’uomo può
rendersi conto della sua esteriorità»; in ultima analisi, allora, sono proprio
gli oggetti che «ci fanno essere aperti al mondo e ci fanno continuamente
scoprire quel senso del contemplare e rappresentare che entra in gioco in ogni
vita umana» (Figal 2012, p. 1175).
4.2.
Fra
i numerosi sviluppi che un pensiero filosofico come quello esposto in Oggettualità consente di intraprendere,
spicca in particolare, come ho già detto, la prosecuzione di tale discorso nel
campo dell’estetica, sulla base dell’idea secondo cui «le opere d’arte non sono
solo oggettuali. Sono gli oggetti e così i correlati ermeneutici par excellence», ovvero sono «oggetti in
senso eminente»: «le opere d’arte sono essenzialmente manifestazioni; la loro essenza
è la fenomenicità» (Figal 2012, pp. 1269-1270). È un campo, quello
dell’estetica filosofica, al quale Figal ha apportato un contributo
significativo con il succitato libro Il manifestarsi dell’arte. Il punto
di partenza dell’indagine di Figal in quest’ultimo libro è rappresentato proprio
da un’iniziale ricostruzione storico-interpretativa di alcuni sviluppi
novecenteschi dei rapporti tra filosofia e arte, e, di qui, a un chiarimento
dei rapporti tra filosofia dell’arte ed estetica (Figal 2015, pp. 48-67), da
concepire sicuramente come vicine e affini, eppure non come immediatamente coincidenti. Come spiega Figal fin
dall’Introduzione a Il manifestarsi dell’arte, l’intento della sua
ricerca è quello di
connettere fra loro i punti di
forza della filosofia dell’arte e dell’estetica filosofica, evitando i loro
punti deboli. Si tratta di descrivere, nel modo più preciso possibile, la
costituzione essenziale delle opere d’arte, tenendo presente un punto: le opere
d’arte sono identificabili come tali, perché richiedono da sé un atteggiamento
specifico, vale a dire l’atteggiamento estetico (Figal 2015, p. 17).
Già
una tale intenzione di non
abbandonare sic et simpliciter il
percorso dell’estetica filosofico, di non
dichiararlo tout court “viziato” da
certi pregiudizi del pensiero moderno e dunque incapace di insegnarci a
concepire in maniera adeguata l’esperienza con l’arte, segna un’evidente presa
di distanza, da parte di Figal, dalle filosofie dell’arte a carattere
marcatamente “anti-estetico” di Heidegger e Gadamer, con tutte le implicazioni
che ciò comporta anche per la ricezione della Critica della facoltà di giudizio. Il cuore profondo o, se si
vuole, il centro teoretico dell’estetica di Figal può essere individuato nella
nozione di “manifestazione” o, se si vuole, di “fenomeno”, cioè di Erscheinung, che è assolutamente
centrale per Figal, come suggerito dal radicamento fenomenologico della sua
indagine nonché dal titolo stesso del libro (Il manifestarsi dell’arte, nella felice scelta del traduttore italiano,
laddove si deve tenere presente però che l’originale tedesco è Erscheinungsdinge, cioè “cose
manifestative”). Figal definisce la manifestazione come «uno stato di cose
complesso» in cui «una presenza [viene] tratta in risalto», in cui «qualcosa
che si manifesta [è] presente per
qualcuno»; la definisce come «il terzo
elemento che abbraccia ambedue» questi elementi, «connettendoli fra loro»,
ovvero la definisce husserlianamente come «una correlazione» (Figal 2015, pp.
93, 95-96, 103 ss.). In tale quadro generale, il bello viene definito quindi
come «manifestazione con massima intensità», come «un manifestarsi, che non è
altro se non il manifestarsi stesso», e, a partire da qui, le opere d’arte
appaiono dunque come «manifestazioni in sé», «pure manifestazioni» o anche
«fenomeni par excellence», trattandosi
degli «unici fenomeni che l’osservatore fenomenologico reperisce in un modo
tale che, per riconoscerli come fenomeni, può far leva sulla “percezione
originariamente offerente”» (Figal 2015, pp. 97-98, 110).
Alla
luce dell’idea delle opere d’arte come «compagini manifestative» (Figal 2015,
p. 113) si può dunque comprendere anche l’ambizioso sottotitolo del libro: Estetica come fenomenologia. Per Figal,
infatti, non soltanto l’estetica deve avere un carattere e un approccio fenomenologico
(senza che ciò si traduca peraltro nell’assunzione di un atteggiamento
dogmatico che esclude a priori la proficuità di altre correnti di pensiero), ma
«con il riferimento all’apparenza estetica e all’arte» si trasforma «la stessa
fenomenologia» (Figal 2015, p. 101). Ciò è dovuto al fatto che gli oggetti
propri dell’estetica, vale a dire le succitate “cose manifestative”, si
rivelano essere determinanti e, dunque, imprescindibili per la fenomenologia in
quanto tale, cioè per una migliore comprensione delle sue possibilità essenziali.
A tutto questo segue, nell’elaborazione dell’estetica di Figal, un esame della
fenomenicità dell’arte, sulla base dei concetti di “mostrare” e “mostrarsi”,
che mette capo all’idea di un «mostrare auto-ostensivo delle opere d’arte», di
un loro «mostrarsi che mostra»: in quanto «cose manifestative [esse] sono pure
manifestazioni», «sono completamente ostensive», «mostrano qualcosa senza riserve» e senza alcun «rimando a qualcosa che si
trova al di fuori di esse, bensì a guisa di un presentare» (Figal 2015, pp.
128, 139). Ne deriva il compito di «chiarire lo specifico carattere ostensivo»
delle singole «forme fondamentali
dell’arte» (Figal 2015, p. 139): un compito, quest’ultimo, che Figal affronta
specificamente attraverso i concetti di “determinazioni essenziali” e
“mescolanze” che gli consentono di distillare, per così dire, i caratteri o
principi fondamentali del figurale, del musicale e del poetico, e di avviare
quindi un’esplorazione del molteplice configurarsi di tali “forme
manifestative” nel concreto realizzarsi dei prodotti artistici. L’ambiziosa
tesi di Figal, allora, è quella secondo cui
tutte le opere d’arte deriv[a]no da
una mescolanza delle tre forme illustrate. […] Un’opera d’arte si rivela allora
determinata da più forme artistiche; è una mescolanza di queste forme. […] Quindi
un’opera è bella, e con ciò una vera opera d’arte, solo nella mescolanza delle
forme artistiche; questa stessa mescolanza è un ordine decentrato realizzato
ogni volta in maniera individuale. Da un punto di vista formale, un’opera
d’arte è tanto bella quanto più intimo è il nesso delle forme artistiche in
essa (Figal 2015, pp. 184, 191, 194).
Da
ultimo, in Il manifestarsi dell’arte
Figal prende in esame la questione della «peculiare spazialità dell’opera
d’arte» e, di qui, della stessa esperienza estetica, il cui chiarimento serve
anche a rendere definitivamente comprensibile e coglibile «in modo adeguato
alla cosa stessa» quello che l’autore chiama il «carattere manifestativo e
oggettuale» dell’arte (Figal 2015, p. 252). L’idea di Figal, sintetizzando
molto, è che le opere d’arte rendano possibile compiere «l’esperienza della
spazialità […] in modo eminente», in maniera «particolarmente pronunciata», di
modo che «la spazialità delle opere d’arte» (a cui Figal, sulla base di un
concetto particolarmente ampio di spazio,
sembra decisamente accordare una preminenza rispetto all’aspetto della
temporalità, anche nel caso di arti come la poesia e la musica) diviene «la
chiave per comprendere la spazialità» in generale, cioè il nostro stesso senso
dello spazio (Figal 2015, p. 255). In altre parole, ogni opera d’arte per Figal
«ha una propria spazialità fenomenica»: essa «non solo [accorda] uno spazio, ma
[è] anche in sé spaziale», e «la spazialità appartiene all’essenza delle opere
d’arte» (Figal 2015, pp. 268, 273-274). «Lo spazio dell’opera d’arte», spiega
ancora Figal, «è determinato in quanto tale unicamente dal mostrarsi. È spazio deittico o fenomenico», e, a sua volta, affinché sia possibile il
manifestarsi delle opere, è necessario che queste ultime abbiano un luogo adeguato per mostrarsi e che
l’esperienza con esse – che per Figal, come abbiamo detto, è di tipo
eminentemente contemplativo – sia compiuta a un’adeguata distanza (Figal 2015, pp. 265, 273). L’ultimo nesso concettuale che
scaturisce a partire da qui è quello che conduce in modo molto suggestivo, e
non senza riferimenti anche a forme di esperienza estetica proprie delle
culture orientali, a prendere in esame il “vuoto” e il “qui”, ovvero l’assoluta
presenzialità e dunque anche autonomia dell’opera d’arte. Per “vuoto”, spiega
Figal, s’intende qui «ciò per cui qualcosa può essere ciò che è. Cosa è
dobbiamo perciò pensarlo in base al vuoto. L’arte mostra come ciò sia possibile»:
«il manifestarsi delle opere d’arte è […] un gioco di mostrarsi, mostrare e vuoto», di riempimenti e svuotamenti
alternati, per così dire. Il vuoto non è quindi «un fondo oscuro o abissale»,
bensì
ciò che è semplicemente senza
fondo, infondato, né fondante né fondabile. Lascia essere, nient’altro. […] Il
libero manifestarsi, vale a dire la bellezza, viene dal vuoto. […] Nella
bellezza, senza fondamento, senza scopo, come è, siamo massimamente vicini al
vuoto. È così, perché l’esperienza del bello è una esperienza del lontano
(Figal 2015, pp. 283, 288-289).
4.3.
Le
lunghe digressioni a carattere ricostruttivo-interpretativo su Oggettualità e Il manifestarsi dell’arte a cui sono stati dedicati i precedenti
sottoparagrafi erano necessarie al fine di preparare adeguatamente il terreno
per un’esposizione, in quest’ultimo sottoparagrafo, dell’originale
interpretazione della prima parte della Critica
della facoltà di giudizio offerta da Figal nel contesto della sua serrata
analisi del concetto di bellezza (Figal 2015, pp. 69-93). Il peculiare rapporto
di affinità – attraverso l’indubbia eredità metodologica e continuità tematica
– ma, al contempo, di divergenza – attraverso il ripensamento critico di vari
contenuti e la conseguente presa di distanza – che lega la filosofia di Figal a
quelle di Heidegger e Gadamer è già emerso a proposito della transizione dallo
stadio dell’ermeneutica filosofica a quello della filosofia ermeneutica, e poi
anche a proposito del differente modo di rapportarsi all’estetica e ai suoi
temi e concetti fondamentali. Ciò, come si è detto, non manca di avere un
riflesso anche sul piano del confronto con la terza Critica di Kant, che in questo contesto viene anzi a configurarsi
come una sorta di cartina di tornasole per cogliere le ambizioni filosofiche e
gli intenti originali del discorso fenomenologico-ermeneutico ed
estetico-filosofico di Figal. In questo modo, uno sguardo alle diverse modalità
di ricezione della Critica della facoltà
di giudizio in una fra le principali vie dell’ermeneutica contemporanea si
rivela essere proficuo sia per arricchire la propria conoscenza della Wirkungsgeschichte dell’estetica
kantiana, sia per cogliere con maggior precisione determinati rapporti interni
all’ermeneutica filosofica tedesca di matrice o ispirazione fenomenologica.
Come
emerge chiaramente soprattutto nella prima parte di Il manifestarsi dell’arte, l’analisi del bello è centrale per
l’estetica di Figal, in quanto il bello rappresenta per il filosofo tedesco
«[il] come di un’opera d’arte», ciò
in base a cui «si possono rivelare come specificamente estetici caratteri quali
l’autonomia, l’inizialità, l’originarietà e la sensibilità» (Figal 2015, pp.
65-66). Le opere d’arte, scrive Figal, sono «essenzialmente belle» (là dove questo richiamo alla “essenzialità”
va certamente enfatizzato, tenuto conto della centralità di questo motivo in
tutto il pensiero fenomenologico e, nella fattispecie, del fatto che la
questione dell’essenza dell’arte è la
questione al centro di Il manifestarsi
dell’arte): «il bello è presente nell’arte senza condizioni e senza
riserve», sebbene esso non sia presente
«solo nell’arte» bensì anche, seppure in diverso modo, «nelle cose d’uso e
[nella] natura» (Figal 2015, p. 66). In questo senso, «l’esperienza estetica dell’arte
è l’esperienza della sua bellezza»
(Figal 2015, p. 67) e ciò, secondo Figal, vale anche nell’età che è stata
definita da altri teorici come l’epoca delle “arti non più belle” (Jauss) o
l’epoca dell’“abuso della bellezza” (Danto), nella misura in cui anche l’arte
che si ripropone esplicitamente e intenzionalmente di contravvenire ai principi
e ai canoni del bello – per apparire, ad esempio, disarmonica, dissonante,
disorientante, disturbante o, in sintesi, “non-bella” – non può fare a meno di
rinviare almeno implicitamente proprio al termine al quale intende opporsi,
cioè appunto il bello, per non parlare del fatto che, a distanza di decenni,
non è affatto infrequente che anche l’arte d’avanguardia che al suo primo
apparire era apparsa scioccante o persino “brutta” venga gradualmente
riassorbita nel campo di ciò che risulta accettabile e fruibile come “bello”. A
sua volta, come essenza della bellezza – intesa come una sorta di «coerenza […]
priva di regolamentazione» – viene individuato il carattere «eccedente, periferico»,
non esauribile, dell’ordine di cui consiste il bello: un ordine «irregolare in senso stretto», cioè nel
senso che «a suo fondamento non c’è alcuna regola», che Figal definisce in modo
pregnante come «ordine decentrato» (Figal 2015, pp. 87-89). Un tale ordine, per
Figal, «è manifestazione» (nel senso che «un ordine decentrato sussiste
manifestandosi») ed è quel tipo di ordine che non si riesce a «riconoscere
direttamente, per così dire al primo sguardo. Cogliamo ordini decentrati solo
entrando in relazione con essi e, assolutamente concentrati e non senza rigore,
esperendoli nella coerente molteplicità delle loro relazioni» (Figal 2015, pp.
89, 93).
Ora,
assolutamente centrale per la concezione di Figal del bello è proprio
l’insegnamento kantiano contenuto nella prima parte della terza Critica. Come si legge in Il manifestarsi dell’arte, infatti, «la Critica del giudizio di Kant [è] il libro fondamentale dell’estetica
filosofica»:
L’impostazione estetica ha fondato
l’analisi filosofica moderna dell’arte. Tuttavia, in questo quadro è stata decisiva non tanto l’Aesthetica di Baumgarten, quanto la Critica del giudizio di Kant. Per quanto
Kant eviti il concetto di estetica nel suo lavoro, con lui inizia l’estetica filosofica. Baumgarten è preistoria, mero oggetto
di indagine storiografica. Kant, invece, con un decisivo lavoro di
integrazione, ha recepito, raccogliendole in un progetto sistematico, le
precedenti analisi del bello e della sua esperienza. Ma non si è limitato a
questo. Egli ha inoltre conferito all’estetica filosofica un significato che
concerne la stessa filosofia; occorre infatti sottolineare con forza un punto:
con la Critica del giudizio Kant non
fonda alcuna disciplina filosofica, bensì colloca la problematica estetica al centro di un’autochiarificazione
della filosofia. […] Chi vuole descrivere e comprendere concettualmente
l’esperienza estetica, deve
cominciare con Kant [che] ha definito l’esperienza estetica in una maniera che continua ad essere determinante […].
Kant delimita in modo accurato
l’esperienza del bello mettendola in luce nella sua unicità, rispetto a tutte le altre possibilità di riferimento
affettivo, di percezione e di pensiero (Figal 2015, pp. 17, 49-50, 69; corsivi
miei).
In
primo luogo, dunque, ciò che emerge da questi passi è l’idea che, a differenza
dell’estetica di Baumgarten o anche di altri autori, l’estetica di Kant
(intendendo qui con questa espressione, come abbiamo visto, non tanto
l’estetica trascendentale esposta nella prima parte della Critica della ragion pura quanto la critica della facoltà estetica
di giudizio esposta nella prima parte della Critica
della facoltà di giudizio) non sia oggetto di interesse solo da un punto di
vista storico-filosofico ma anche da un punto di vista squisitamente teoretico,
ovvero continui a rivelarsi ancora oggi un’inesauribile fonte di ispirazione e
stimolo per il pensiero. Oltre a ciò, per Figal appare decisivo notare come
l’estetica di Kant, pur avendo di fatto dato avvio all’estetica filosofica in
senso forte, rigoroso e vincolante (cosa su cui anche Heidegger e Gadamer
sarebbero certamente d’accordo), non soltanto non abbia per questo motivo gettato le basi per una comprensione
“errata” o “viziata” dei fenomeni estetici e soprattutto artistici (come
sembrano indicare concordemente le letture critiche di Heidegger e Gadamer, al
netto delle varie differenze esistenti anche fra le loro rispettive
concezioni), ma anzi abbia introdotto alcune nozioni preziose, se non proprio
assolutamente fondamentali, per penetrare concettualmente l’essenza
dell’estetico e dell’artistico. Particolarmente rilevanti, in tal senso,
appaiono a Figal le analisi kantiane di aspetti quali il carattere
disinteressato del giudizio estetico, la validità universale dell’esperienza
del bello, il rapporto tra percezione e riflessione nel caso dell’esperienza
estetica, la proficua paradossalità del carattere di “finalità senza scopo” che
è proprio della bellezza, la relazione fra arte e natura e, soprattutto, il
libero gioco che, per Kant, si viene a instaurare fra le nostre diverse facoltà
conoscitive nell’esperienza del bello e anche del sublime (inteso però da Figal
come una forma di compiacimento estetico che, in realtà, «non designa alcuna
alternativa rispetto al bello, bensì solo una modificazione»: Figal 2015, p.
64).
A
proposito di quest’ultimo tema, cioè quello del “libero gioco”, Figal
sottolinea che ancora oggi, a dispetto di ogni possibile tentazione di
screditare un pensiero risalente alla fine del Settecento come fatalmente
“invecchiato”, bisogna invece «prendere
sul serio la definizione kantiana della riflessione estetica come libero
gioco delle facoltà conoscitive» e dimostrarsi all’altezza del tentativo
kantiano di «rendere giustizia [alla]
essenza assolutamente incomparabile del bello»:
concependo la bellezza come una
qualità, come qualcosa nelle cose, Kant coglie
un punto decisivo; l’esperienza estetica si riferisce a qualcosa che non si
esaurisce nella normale determinatezza cosale e per questo solo in maniera
approssimativa può essere caratterizzato come una “qualità” delle cose. […] Ciò
che dice Kant sulla libera formazione e sulle idee estetiche rimane direttivo e indicativo. […] Kant ha colto l’essenza del bello in quanto
ordine decentrato con eccezionale
intuizione, cercando di definirla, per quanto glielo consentisse il
linguaggio filosofico a sua disposizione. […] Kant ha mostrato che il bello non
si può proprio fissare alle cose, nella misura in cui esse sono cose
identificabili. Appartiene piuttosto alla loro periferia o ai loro spazi
intermedi; si lega non a che cosa
sono le cose, vale a dire alla loro determinatezza fissa, da cogliere
concettualmente, bensì si trova nella superficie non dominata dal loro centro
identico. […] Non da ultimo nei suoi esempi Kant
fa una scoperta: il mondo non si esaurisce in ciò che, in esso, è
determinabile, realizzabile rispetto a fini e disponibile. […] [N]onostante
tutta la ritrosia speculativa, [quella di Kant] è la soluzione più radicale rispetto all’idealismo tedesco, quella che va più in profondità (Figal
2015, pp. 77, 79, 85, 88-89; corsivi miei).
Al
pari che nella precedente lunga citazione su Kant tratta da Il manifestarsi dell’arte, anche nel
caso di quest’ultima lunga citazione dal libro di Figal emergono chiaramente
diversi aspetti di notevole interesse ai fini di una ricognizione sulla
ricezione della Critica della facoltà di
giudizio nel contesto del pensiero ermeneutico-filosofico contemporaneo.
Come si può facilmente vedere, infatti, non soltanto – a differenza di quanto
stabilito da Heidegger e Gadamer –
per Figal non è necessario
“distruggere” o “oltrepassare” l’impostazione di fondo dell’estetica moderna o
prendere criticamente le distanze da essa, ma anzi (anche qui in disaccordo con
i due grandi autori, rispettivamente, di Essere
e tempo e Verità e metodo), al
fine di descrivere e comprendere adeguatamente l’arte e l’estetico, appare
indispensabile riallacciarsi proprio al testo fondamentale della tradizione
estetica moderna, cioè appunto la terza Critica
di Kant. Emerge quindi anche da qui, cioè dalle diverse forme che può
assumere un libero confronto esegetico con un’opera come la Critica della facoltà di giudizio, il
particolare rapporto di affinità e al contempo di divergenza che sembra
caratterizzare il dispiegarsi e lo svilupparsi, nel corso dei decenni, di
questa tradizione particolarmente significativa e autorevole del pensiero
ermeneutico contemporaneo.
Quanto
detto fin qui non esclude, naturalmente, che anche per Figal il testo di Kant
presenti a volte dei lati oscuri e degli «aspetti problematici» (Figal 2015, p.
69) che ne rendono necessario un ripensamento critico e un superamento, ma
sempre mantenendo un dialogo aperto e costante con tale testo, nella
consapevolezza della sua perdurante attualità e imprescindibilità. Ad esempio,
secondo Figal, «Kant intende l’esperienza estetica essenzialmente come un
processo interno alla coscienza» e ciò può apparire problematico nel quadro di
una filosofia come quella di Figal che, come abbiamo visto, risulta orientata a
livello generale verso l’oggettuale, sebbene si debba anche aggiungere che, per
Figal, il «presunto internalismo kantiano dell’estetico» di per sé «non esclude
il riferimento oggettuale nel contesto dell’estetico» (Figal 2015, p. 69; cfr.
anche ivi, p. 77). Ciò significa che,
anche in questo caso, in ambito estetico per Figal non sembra possibile
filosofare senza un saldo riferimento al pensiero di Kant ma, al contempo,
bisogna essere capaci di spingere quest’ultimo oltre i suoi limiti o, per così
dire, fargli compiere un passo avanti in direzione della fondamentale
oggettualità dell’estetico. In maniera analoga, per Figal non si può non notare
che «Kant non approfondisce il carattere cognitivo dell’esperienza indicato con
la formula del libero gioco delle facoltà conoscitive» e, soprattutto, «non ha
alcun concetto per [l’]autonomia» dell’opera d’arte come «ordine decentrato
autonomo» (Figal 2015, pp. 75, 93), pur riuscendo ad avvicinarsi notevolmente a
questa idea e quasi a sfiorarla attraverso la riflessione sul carattere di
“finalità senza scopo” del bello.
Alla
luce di ciò e anche di molti altri aspetti su cui non è possibile soffermarsi
qui, se ne deduce che, per un filosofo come Figal, il tentativo di sviluppare
oggi un’analisi del bello nel contesto di un’estetica
fenomenologicamente-ermeneuticamente ispirata «conduce oltre Kant», ma – in una maniera senz’altro significativa ai fini
di una ricognizione critica sulla “storia degli effetti” della Critica della facoltà di giudizio come
quella tentata nel presente contributo – non al fine di abbandonare i risultati
conseguiti dall’estetica kantiana, bensì «per sviluppare ulteriormente la definizione del bello ottenuta con
Kant» (Figal 2015, p. 93; corsivi miei). Dal punto di vista di Figal – che, su
un piano filosofico generale, eredita le grandi conquiste delle dottrine
ermeneutico-filosofiche di Heidegger e Gadamer, e cerca di stabilire con esse
un rapporto di aperta continuità su alcuni aspetti ma, al contempo, di
altrettanto aperta discontinuità su altri aspetti – solo filosofando “con Kant”
e insieme “oltre Kant” in campo estetico risulta possibile sviluppare una
prospettiva adeguata sull’arte e sul bello, in grado di cogliere la reale
essenza di tali fenomeni e non solamente le loro manifestazioni superficiali.
Bibliografia
Arendt, H. (1990), Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla
filosofia politica di Kant, il Melangolo, Genova.
Bertinetto, A. e Marino, S. (2020), “Kant’s Concept of Power of Judgment and the Logic of
Improvisation”, in S. Marino e P. Terzi (a cura di), Kant’s “Critique of Aesthetic Judgment” in the 20th Century:
A Companion to Its Main Interpretations, De Gruyter, Berlin, pp. 315-337.
Bianco,
F. (1992), Pensare l’interpretazione.
Temi e figure dell’ermeneutica contemporanea, Editori Riuniti, Roma.
Bianco,
F. (1998), Introduzione all’ermeneutica,
Laterza, Roma-Bari.
Bleicher,
J. (1986), L’ermeneutica contemporanea,
il Mulino, Bologna.
Cassirer,
E. (1997), Vita e dottrina di Kant,
Firenze, La Nuova Italia.
Caygill, H. (1995), A Kant Dictionary, Blackwell, Oxford.
Di
Cesare, D. (2007), Gadamer, il
Mulino, Bologna.
Fehér, I.M. (2003), “Ästhetik,
Hermeneutik, Philosophie. Das Hermeneutisch-Werden der Philosophie im 20.
Jahrhundert”, in I.M. Fehér (a cura di), Kunst, Hermeneutik, Philosophie. Das Denken Hans-Georg Gadamers im
Zusammenhang des 20. Jahrhunderts, Winter, Heidelberg, pp. 15-32.
Ferraris,
M. (1988), Storia dell’ermeneutica,
Bompiani, Milano.
Figal,
G. (2006a), Introduzione a Martin
Heidegger, Donzelli, Roma.
Figal, G. (2006b), Martin
Heidegger. Fenomenologia
della libertà, il Melangolo, Genova.
Figal,
G. (2007), Il senso del comprendere.
Contributi alla filosofia ermeneutica, il Melangolo, Genova.
Figal,
G. (2012), Oggettualità. Esperienza
ermeneutica e filosofia, Milano, Bompiani.
Figal,
G. (2015), Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia, Mimesis, Milano-Udine.
Figal, G. (2020), “Blank Spaces
and Blank Spots: Kant’s Critique of the
Power of Judgment in Heidegger’s Philosophy and in Phenomenological Aesthetics
until Today”, in S. Marino e
P. Terzi (a cura di), Kant’s “Critique of
Aesthetic Judgment” in the 20th Century: A Companion to Its Main
Interpretations, De
Gruyter, Berlin, pp. 61-74.
Gadamer, H.-G. (1939), “Zu
Kants Begründung der Ästhetik und dem Sinn der Kunst”, in
AA.VV., Festschrift Richard Hamann zum
sechzigen Geburtstage am 29. Mai
1939,
Hopfer, Burg bei Magdeburg, pp. 31-39.
Gadamer, H.-G. (1973), Ermeneutica e metodica universale,
Marietti, Torino.
Gadamer, H.-G. (1986), L’attualità del bello. Saggi di estetica
ermeneutica, Marietti, Genova.
Gadamer, H.-G. (1987), I sentieri di Heidegger,
Marietti, Genova.
Gadamer, H.-G. (1996), L’enigma del tempo, Zanichelli, Bologna.
Gadamer, H.-G. (1999), Neuere Philosophie II: Probleme – Gestalten, in Gesammelte Werke, vol. 4, Mohr Siebeck
(UTB), Tübingen.
Gadamer, H.-G. (2000), Verità e metodo. Elementi di una ermeneutica
filosofica, Bompiani, Milano.
Gadamer, H.-G. (2002a), Scritti di estetica, Aesthetica,
Palermo.
Gadamer, H.-G. (2002b), La responsabilità del pensare, Vita e
Pensiero, Milano.
Gandesha, S. e Hartle, J.F. (2017), Aesthetic Marx, Bloomsbury, London-New York.
Garroni,
E. (2003), L’arte e l’altro dall’arte,
Laterza, Roma-Bari.
Gethmann-Siefert, A. (1993), Ist die Kunst tot und zu Ende? Überlegungen zu Hegels Ästhetik,
Palm und Enke, Erlangen-Jena.
Geulen, E. (2002), Das
Ende der Kunst. Lesarten eines Gerüchts nach Hegel, Suhrkamp, Frankfurt
a.M.
Gentili, C. (2003), “Martin Heidegger contro l’estetica”, Oltrecorrente, n. 7, pp. 81-98.
Grondin, J. (2001), Von
Heidegger zu Gadamer. Unterwegs zur Hermeneutik, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt.
Guerra, A. (2007), Kant, Laterza,
Roma-Bari.
Hammermeister, K. (1999), Hans-Georg Gadamer, Beck, München.
Hance, A. (1997), “The Hermeneutic Significance of the Sensus Communis”, International Philosophical Quarterly, n. 2, pp. 133-148.
Hegel,
G.W.F. (1997), Estetica, 2 voll.,
Torino, Einaudi.
Hegel,
G.W.F. (2017), Estetica. Il manoscritto
della “Bibliothèque Victor Cousin”, Einaudi, Torino.
Heidegger, M. (1984), In
cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia.
Heidegger, M. (1990), Introduzione
alla metafisica, Milano, Mursia.
Heidegger, M. (1992), Ontologia.
Ermeneutica della effettività, Guida, Napoli.
Heidegger, M. (1994), Nietzsche, Adelphi, Milano.
Heidegger, M. (1997), Sentieri
interrotti, La Nuova Italia, Firenze.
Heidegger, M. (2001), La
poesia di Hölderlin,
Milano, Adelphi.
Heidegger, M. (2005), Interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele. Elaborazione per le facoltà filosofiche di
Marburgo e Gottinga (1922), Guida, Napoli.
Heidegger, M. (2008), Essere
e tempo, Longanesi, Milano.
Heidegger, M. (2010), Oltre
l’estetica. Scritti sull’arte, Sicania University Press, Messina.
Heintel, P. e Macho, T. (1981), “Zur Voraussetzungsproblematik des Systems der Grundsätze
des reinen Verstandes und ihre Bedeutung für einen neuzeitlichen
Wissenschaftsbegriff”, in I. Heidemann e W. Ritzel (a cura di), Beiträge zur Kritik der reinen Vernunft. 1781-1981,
De Gruyter, Berlin.
Höffe,
O. (2002), Immanuel Kant, il Mulino,
Bologna.
Jung,
M. (2002), L’ermeneutica, il Mulino,
Bologna.
Kant,
I. (1990), Epistolario filosofico
(1761-1800), il melangolo, Genova.
Kant,
I. (1999), Critica della facoltà di
giudizio, Einaudi, Torino.
Kant,
I. (2004), Critica della ragion pura,
Bompiani, Milano.
Kant,
I. (2009), Antropologia pragmatica,
Laterza, Roma-Bari.
Kant,
I. (2012), Prima Introduzione alla Critica
della capacità di giudizio, Mimesis, Milano-Udine.
Kant,
I. (2013), Riflessioni sul Gusto,
Aesthetica, Palermo.
Leddy, T. (2020), “Kant
and Everyday Aesthetics”, in
S. Marino e P. Terzi (a cura di), Kant’s
“Critique of Aesthetic Judgment” in the 20th Century: A
Companion to Its Main Interpretations, De Gruyter, Berlin, pp. 339-358.
Liessmann, K.P. (2003), “Die
Sollbruchstelle. Die Destruktion des ästhetischen Bewußtseins und die Stellung
der Kunst in Hans-Georg Gadamers Wahrheit
und Methode”, in M. Wischke e M. Hofer (a cura di), Gadamer verstehen. Understanding Gadamer, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt, pp. 211-232.
Marafioti, RM. (2008), La
questione dell’arte in Heidegger, Rubbettino, Soveria
Mannelli.
Marafioti, RM. (2010), “Introduzione” a M. Heidegger, Oltre
l’estetica. Scritti sull’arte, Sicania University Press, Messina, pp. 5-35.
Marafioti,
RM. (2011), Il ritorno a Kant
di Heidegger. La questione
dell’essere e dell’uomo, Mimesis, Milano-Udine.
Marino, S. (2011), Gadamer
and the Limits of the Modern Techno-scientific Civilization, Peter Lang, Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt a.M.-New York-Oxford-Wien.
Marino, S. (2012), “Two Divergent
Appropriations of Kant’s Critique of
Judgement: Some Remarks on Arendt and Gadamer”, Internationales Jahrbuch für Hermeneutik, n. 11, pp. 189-208.
Marino, S. e Terzi, P. (2020), “Introduction: The Twentieth-Century Afterlife of Kant’s Critique of Aesthetic Judgment”, in S. Marino e P. Terzi (a cura di), Kant’s “Critique of Aesthetic Judgment” in
the 20th Century: A Companion to Its Main Interpretations, De Gruyter, Berlin, pp. 3-38.
Marcucci, S. (1999), Guida alla lettura della Critica della
ragion pura, Laterza, Roma-Bari.
Menegoni,
F. (2008), La Critica del Giudizio di Kant. Introduzione alla lettura,
Carocci, Roma.
Meo,
O. (2004), “Un’arte celata nel profondo”.
Gli aspetti semiotici del pensiero di Kant, il melangolo, Genova.
Meo,
O. (2013), “Introduzione” a I. Kant, Riflessioni
sul Gusto, Aesthetica, Palermo, pp. 7-23.
Michaud,
Y. (2019), L’arte allo stato gassoso. Saggio sul trionfo
dell’estetica, Mimesis, Milano-Udine.
Modica,
M. (1997), Che cos’è l’estetica?,
Editori Riuniti, Roma.
Ophälders, M. (2014), “Poesia e morte dell’arte”, in M.
Farina e A.L. Siani (a cura di), L’estetica
di Hegel, il Mulino, Bologna, pp. 213-228.
Perniola,
M. (1997), L’estetica del Novecento,
il Mulino, Bologna.
Pöggeler, O. (1983), Heidegger
und die hermeneutische Philosophie, Alber, Freiburg-München.
Putnam,
H. (2013), La filosofia nell’età della
scienza, il Mulino, Bologna.
Romagnoli, E. (2016), “Il ‘carattere di
passato’ dell’arte come ‘presenza del passato’. Gadamer interprete
dell’estetica hegeliana”, in F. Iannelli, G. Garelli, F. Vercellone e K. Vieweg
(a cura di), Fine o nuovo inizio dell’arte. Estetiche della crisi da Hegel
al pictorial turn, ETS, Pisa, pp. 345-356.
Sallis, J. (2005), “Die Verwindung der Ästhetik”, Heidegger-Jahrbuch, n. 2, pp. 193-205.
Schaeffer,
J.-M. (1996), L’arte dell’età moderna.
Estetica e filosofia dell’arte dal XVIII secolo ad oggi, il Mulino,
Bologna.
Siani,
A.L. (2017), Morte dell’arte, libertà del
soggetto. Attualità di Hegel, ETS, Pisa.
Valagussa,
F. (2013), L’età della morte dell’arte, il Mulino,
Bologna.
Vercellone,
F. (2013), Dopo la morte dell’arte, il Mulino,
Bologna.
Vieweg, K., Iannelli, F. e Vercellone, F. (a cura di, 2015),
Das Ende der Kunst als Anfang freier
Kunst, Fink, München.
Wayne, M. (2016), Red Kant. Aesthetics, Marxism and the Third
Critique, Bloomsbury, London-New
York.
· Associate Professor of Aesthetics
at the University of Bologna, Department
for Life Quality Studies. E-mail: stefano.marino4@unibo.it
[1] Una delle Riflessioni sull’antropologia di Kant risalente al 1769 stabilisce
già: «Ogni conoscenza di un prodotto è o critica (giudizio [Beurteilung]) o disciplina {dottrina}
(insegnamento) o scienza. […] Se i rapporti che costituiscono il fondamento della
bellezza sono qualitativi, e di conseguenza oggetto della filosofia (per es.,
identità e differenza, contrasto, vivacità, ecc.), non è possibile alcuna
disciplina, e ancor meno una scienza, ma solo una critica. […] Perciò si deve
evitare la denominazione scolastica di “estetica”» in questo campo (Kant 2013,
pp. 31-32). Com’è noto, poi, nella Critica
della ragion pura Kant chiarirà: «Chiamo estetica trascendentale una
scienza di tutti i principi a priori della sensibilità» e aggiungerà in nota:
«I tedeschi sono gli unici, oggi, a servirsi del termine estetica per designare con esso ciò che altri chiamano critica del
gusto. Alla base di questo sta la vana speranza, nutrita da quell’eccellente
filosofo analitico che è stato Baumgarten, di ricondurre la valutazione critica
del bello sotto dei principi razionali, e di innalzare le sue regole a scienza»
(Kant 2004, A21/B35, p. 115).
[2] Naturalmente, il fatto di applicare in modo così diretto e immediato il termine “ermeneutica” alla filosofia di Heidegger potrebbe suscitare qualche obiezione e resistenza. Com’è noto, infatti, dopo avere inizialmente definito il proprio pensiero «ermeneutica fenomenologica della effettività» (Heidegger 2005, p. 32), «ermeneutica come autointerpretazione della effettività» (Heidegger 1992, pp. 23-28) o «fenomenologia dell’Esserci» come «ermeneutica nel significato originario della parola» e come «elaborazione delle condizioni di possibilità di qualsiasi ricerca ontologica» (Heidegger 2008, p. 53), nella fase del suo pensiero successiva alla Kehre Heidegger «non [fa] più uso dei termini “ermeneutica” ed “ermeneutico”», abbandonando la posizione iniziale «non per sostituirla con altra, ma perché anche quella era solo stazione di un cammino» (Heidegger 1984, p. 91). In questo senso, rimane in un certo senso emblematico e vincolante il celebre passaggio della lettera di Heidegger a Otto Pöggeler del 5 gennaio 1973, in cui si legge: «La “filosofia ermeneutica” è cosa di Gadamer» (Pöggeler 1983, p. 395). Tuttavia, alla luce dell’indiscutibile influenza della riflessione heideggeriana per tutti gli sviluppi successivi del pensiero ermeneutico (Gadamer, Pareyson, Ricoeur, Vattimo, Rorty, ecc.), e alla luce della possibilità di servirsi della nozione di “ermeneutica” anche in un senso più generale che rende possibile includere al suo interno forme e declinazioni di tale pensiero anche molto diverse fra loro, non ritengo illegittimo inserire Heidegger all’interno di uno studio sulla ricezione della terza Critica di Kant nell’ermeneutica contemporanea.
[3] Per questi riferimenti bibliografici e
alcuni spunti di revisione per migliorare la qualità del mio testo sono
debitore nei confronti di uno dei tre reviewer
anonimi che hanno valutato positivamente il mio saggio in occasione della submission a “Con-textos Kantianos” e
che vorrei dunque ringraziare.
[4] A scanso di equivoci, ciò non significa che nei suoi corsi
universitari o nei suoi scritti Heidegger tralasci del tutto di confrontarsi
con la terza Critica di Kant, giacché
ovviamente non è così e, infatti, è possibile trovare nei suoi testi diversi
riferimenti di questo tipo. Si vedano, ad esempio, i riferimenti alla Critica della facoltà di giudizio nel volume 84/1 della Gesamtausgabe, comprendente i suoi seminari su Kant, Leibniz e Schiller, o nel
volume volume 84/2 della Gesamtausgabe, comprendente anche un seminario
del 1936 su Kant. Kritik der
(ästhetischen) Urteilskraft (Die Frage nach der ‘Kunst’), al momento non
ancora pubblicato ma comunque già annunciato nel Nachwort des Herausgebers nel succitato volume 84/1 della Gesamtausgabe. Per questi riferimenti
bibliografici molto dettagliati sono debitore a Rosa Maria Marafioti, grande
esperta del pensiero di Heidegger, che dunque ringrazio.
[5] La medesima espressione, cioè “distruzione dell’estetica”, è stata impiegata anche da altri interpreti (cfr. Liessmann 2003), laddove altri studiosi hanno preferito parlare di un “oltrepassamento dell’estetica (Überwindung der Ästhetik)” messo in atto da Gadamer (Fehér 2003, p. 26), facendo così riferimento alla categoria che, per certi versi, prende il posto della Destruktion nel pensiero di Heidegger successivo a Essere e tempo.