La “psiche estesa” tra Kant e Freud*
“Psyche is extended”: from Kant to Freud
Paolo Carignani·
Centro Studi Marta Harris-European Federation for
Psychoanalytic Psychotherapy, Italy
Abstract
This paper is inspired by one of Freud’s last notes,
which is famous for its astonishing conclusion: “Psyche is extended; knows
nothing about it,” which describes the perception of space as a product of the
extension of the psychic apparatus, and compares it with Kant’s a priori
categories. The Author reconstructs the historical background of this idea as
part of a long discussion between Freud and his pupil Marie Bonaparte in the
second half of 1938, and shows how the relationship between body and psychic
functions in Freud’s thought was influenced by his intellectual debt to Kant.
Through an outline of the influence of Kantian philosophy on the emerging
Naturphilosophie in fin de siècle Vienna, the Author aims to show the profound
influence of Kantian philosophy on the development of Freud’s thought. By
committing to a modern and non-dualistic conception of the relationship between
body and mind, Freud conceives an indissoluble bond between the mind and, not
only the brain, but the whole body and its spatial extension. The Author
concludes by identifying a close link between the aphorism of 1938 and Kantian
pre-Critique thought, and, more generally, highlighting the influence of the
Königsberg philosopher on the relationship between mind and body and on the
perception of time and space in Freudian thought.
Key words
Mind-body relationship; space; time; Freud; Kant.
Je suis corps et je pense, je n’en sais pas davantage.
Voltaire, Lettres
philosophiques
Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto,
perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non
possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perché noi veggiamo
che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo
stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà
ed alle variazioni del nostro corpo.
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 18
settembre 1827.
Introduzione
Negli ultimi
decenni intorno al problema della relazione corpo-mente si è rinnovato il
dibattito che vede schierate, su fronti contrapposti, due impostazioni epistemologiche
solo apparentemente antitetiche. La prima, che potremmo definire con un vecchio
termine riduzionista, sempre più fortificata dai nuovi strumenti di neuroimaging,
descrive la mente come pura risultante di fenomeni cerebrali e proclama la non esistenza
di processi mentali propriamente detti, essendo essi nient’altro che il prodotto,
o l’epifenomeno, di processi neurologici o cerebrali che progressivamente
potranno essere spiegati dalle nuove scoperte delle neuroscienze. L’altra è un’impostazione
rigidamente mentalista che suppone che i processi psicologici siano
autonomi e indipendenti da quelli fisiologici e, se interazione esiste, è
soprattutto perché i primi incidono sui secondi. Parte della psicologia
clinica, alcuni approcci della psicoanalisi e il vasto campo della
psicosomatica vanno in questa direzione. Se queste due impostazioni, sembrano contrapporsi
su un piano quasi ideologico, esse hanno tuttavia un punto in comune: entrambe,
escludono il corpo nel suo insieme.
Per i riduzionisti il termine corpo è assimilato al termine cervello, tanto da
preferire una questione mente-cervello a una mente-corpo. Per i
mentalisti invece, il corpo finisce con essere quasi un sottoprodotto della
mente, l’oggetto danneggiato da stress, nevrosi o da posizioni psichiche
autolesioniste.
Voglio qui riproporre, facendo una serie di
passi indietro nella storia della psicoanalisi e della filosofia, la
specificità irrinunciabile della antinomia di fondo costituita dalla relazione
corpo-mente, intendendo per “corpo” quell’insieme complesso di funzioni non
solo neurobiologiche, ma anche fisiologiche, biologiche, chimiche, ormonali, ecc.,
che contribuiscono alle esperienze soggettive di provare sensazioni, emozioni,
sentimenti e persino di pensare pensieri e che non possono essere ridotte alle
specifiche attivazioni cerebrali osservabili con la MRI o con la PET. A sostegno
di questa impostazione, basterebbe considerare la complessa relazione che
esiste tra sistema ormonale e sistema nervoso, le recenti scoperte sulle connessioni
tra sistema nervoso centrale e sistema immunitario, il rapporto tra epilessia e
depressione, lo straordinario fenomeno dell’effetto
placebo, ecc. La relazione tra cervello e mente non sembra, in ogni
caso, che possa essere definita in termini di causa-effetto: questo legame
eventualmente deve ancora essere dimostrato. Fechner (1860) parlava di parallelismo
psicofisico, Freud (1891) aveva definito lo psichico un concomitante
dipendente del corrispettivo fisiologico. Non si può cioè assimilare il sistema
psichico a quello nervoso, né si possono separare come se fossero indipendenti
uno dall’altro; dovremmo piuttosto pensare alla mente come funzione ed
espressione del corpo nella sua completezza, supporre cioè che ci sia,
in tempi e in proporzioni differenti, ‘mente’ nel cervello e nel midollo
allungato, nel sistema ormonale e in quello immunitario, nell’apparato
digerente e in quello respiratorio, nel piede come nella punta del naso. Questa
ipotesi è stata avanzata dal neurobiologo Antonio Damasio secondo il quale
perché vi sia attività mentale sono necessari sia il cervello, sia il resto del
corpo: «le nostre azioni migliori e i pensieri più elaborati, le nostre gioie e
i nostri dolori più grandi, tutti impiegano il corpo come riferimento». Quest’ultimo,
non è solo una cornice di riferimento, un sostegno necessario, ma fornisce «la
materia di base per le stesse rappresentazioni cerebrali» (Damasio 1994, p. 24).
L’attività mentale per Damasio è il risultato dell’associazione corpo-cervello
e della sua interazione con l’ambiente ed è costituita da una serie illimitata
di rappresentazioni: queste rappresentazioni trovano la loro radice nel corpo.
In che modo si inserisce la
psicoanalisi e in particolare il pensiero di Freud su questo tema? A dispetto
di una lettura del pensiero psicoanalitico estremamente “psicologizzante” che
tende – forse un po’ meno negli ultimi decenni (Ferrari 2004, Lombardi 2017) –
ad attribuire allo psichico un’autonomia assoluta dal corpo, il pensiero di
Freud si muove invece prevalentemente su quel crinale che separa e unisce corpo
e mente dando vita a concetti come quello di pulsione e di inconscio
intesi proprio come rappresentanti psichici della sfera somatica. Il tema del
ruolo del corpo nelle teorie psicoanalitiche è molto ampio e rinvio ad altri
scritti per una trattazione più approfondita (Favaretti Camposampiero et al.
1998; Cavagna e Fornaro 2001; Carignani 2006); qui voglio solo toccare un punto
sollevato da Freud verso la fine della sua vita e che riguarda proprio la specifica
accezione di una “psiche estesa nel corpo”. Per fare questo dobbiamo ricostruire
brevemente il contesto storico.
Freud a Londra: la storia di un appunto
Siamo all’inizio del 1938 a Vienna, Freud, ormai vecchio e malato, si
illude ancora che l’Austria resisterà al tentativo di annessione della Germania
hitleriana. Così non sarà e l’11 marzo i tedeschi entrano a Vienna. Nella
stessa settimana, allarmato dalle notizie, Ernest Jones parte da Londra per
raggiungere Freud e cercare, per l’ennesima volta, di convincerlo a lasciare
Vienna e accogliere l’invito di trasferirsi in Inghilterra. Dopo varie
resistenze Freud accetta di emigrare. Jones si impegnerà molto per farlo uscire
dall’Austria, riuscendo a coinvolgere in questa tardiva impresa persino il
presidente americano Roosevelt. Per consentirgli il passaggio in territorio
francese e per aiutarlo a salvare parte del suo denaro viene coinvolta la
principessa Marie Bonaparte, allieva e amica di Freud. Il 4 giugno Freud
lascerà definitivamente Vienna con moglie e figlia, passerà la giornata del 5
nella casa di Marie Bonaparte a Parigi per partire la notte e arrivare il 6
giugno alla Victoria Station di Londra. Si stabilisce al numero 39 di Elsworthy
Road dove lavora alla scrittura del Compendio di psicoanalisi, una
sorta di introduzione alla psicoanalisi per un pubblico già esperto, saggio mai
concluso e pubblicato postumo nel 1940. Secondo Jones, Freud aveva cominciato a
lavorarci già nel mese di maggio, a Vienna, ma il manoscritto porta in calce la
data del 22 luglio, il che vorrebbe dire che avrebbe cominciato a scriverlo
quando era già a Londra. Esattamente un mese dopo, il 22 agosto, Freud scrive
una breve nota su un foglio di carta che contiene, sulle due facciate, anche
altri appunti presi in giorni differenti, nel corso di quell’estate. Il foglio
viene ritrovato dopo la sua morte avvenuta il 23 settembre 1939 e pubblicato (parzialmente[1]) postumo nel 1941 con il titolo di Risultati,
idee, problemi. Ecco il testo, datato 22 agosto 1938:
Lo spazio può essere la proiezione
dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun’altra derivazione è verosimile.
Invece [di una] delle condizioni a priori kantiane nel nostro apparato
psichico. La psiche è estesa, di ciò non sa nulla[2]. (Freud 1938, p. 566)
Il carattere insieme criptico e assertivo di queste righe colpisce subito
il lettore. È un appunto preso per fermare un pensiero, una riflessione veloce
annotata su un foglio, non certo pensata per una pubblicazione. Un pensiero
buttato lì con la libertà di chi non deve renderne conto a nessuno, libertà
necessaria per potere scrivere una frase apodittica come: la psiche è
estesa, di ciò non sa nulla. In che modo possiamo spiegare questo
appunto che il filosofo Nancy (1992, p. 21) ha definito come «l’espressione più
affascinante e più importante dell’intera opera di Freud»? Un appunto che ha
ricevuto letture contrapposte: da espressione dell’apparato metaforico
freudiano (Petrella 1980) a «esposizione non-metaforica» (Scalzone 2004);
un’affermazione così oscura e sconcertante che fa della psiche un’espressione
della materia, una res extensa, annientando in un solo colpo, come
è stato da più parti evidenziato, l’antica distinzione cartesiana, riducendo le
due res (la cogitans e la extensa)
a pura descrizione della stessa realtà (Scalzone 2006, p.64). In quale contesto
prende luce questo appunto e quali sono le fonti possibili di questa
riflessione lasciataci da Freud su un foglio di carta isolato? Per rispondere a
queste domande è necessario ricostruire la cornice storica in cui si inserisce
questa nota che è stata spesso citata[3], ma poco analizzata, di cui si è
sottolineato soprattutto il carattere oscuro ed enigmatico, trattandola come
una sorta di aporia in forma ellittica, un ossimoro inavvicinabile e
difficilmente coniugabile con il pensiero di Freud. Già trenta anni fa
Simenauer a proposito di questa nota scriveva:
Questo pensiero in forma di aforisma ha affascinato gli psicoanalisti per
quasi 45 anni e non è stato, a mia conoscenza, mai confrontato con nessun
argomento della letteratura, come se fossero rimasti tutti turbati dalla enorme
difficoltà di doversi confrontare con una assoluta antitesi di tutto pensiero
filosofico, specialistico e popolare. La fondamentale distinzione platonica tra
mente e corpo, le indagini di Cartesio sulla materia e sulla sua spazialità
contrapposte al pensiero, i Teoremi di Spinoza, così come le “verité de fait”
di Leibniz costituivano l’eredità comune, vincolante in ogni direzione, delle
fondamenta del pensiero filosofico occidentale. (Simenauer 1983, p. 360)
Lo stupore di Simenauer è facilmente condivisibile, la forza dirompente di
un’affermazione del genere da parte di Freud lascia a bocca aperta e sembra -
anche se solo in apparenza - porlo a grande distanza dai filosofi menzionati.
Ciò che colpisce invece è il mancato confronto con l’unico filosofo citato:
Immanuel Kant. D’altra parte, più recentemente, anche Green cita l’appunto di
Freud ma lo confronta al De anima di Aristotele (2002, p. 280)
e quando, poche righe dopo, affronta i rapporti di Freud con Kant esordisce in
questo modo: «A priori non vi è opera
filosofica più lontana dalla psicoanalisi di quella di Kant […] Inoltre,
oggigiorno è nel kantismo che gli avversari della psicoanalisi trovano i loro
argomenti per difendere un formalismo che ha assunto i colori dell’attuale cognitivismo»
(Green 2002, p. 282-283), anche se poi trova, come molti altri analisti[4], in Antropologia Pragmatica un
possibile punto di incontro fra il filosofo illuminista e Freud. È curioso
dovere segnalare ancora oggi una certa difficoltà ad accostare Freud a Kant[5], nonostante i riferimenti espliciti del
primo al secondo, nonostante (come vedremo meglio oltre) l’influenza di Kant
sulla formazione di Freud, nonostante l’accostamento proposto già da molto
tempo da Bion tra la Critica della ragion pura e il Freud dei Precisazioni
sui due princìpi dell’accadere psichico. Questa difficoltà ha ostacolato
l’affiorare di domande semplici, più semplici di quelle di Simenauer: perché
questo improvviso interesse di Freud per le categorie kantiane? Da dove
proviene un’idea così azzardata che fa dello spazio una realtà prodotta dalla
spazialità della mente, cioè dalla sua materialità, dalla sua estensione? E
questa idea deve essere vista in antitesi o complementare al pensiero di
Kant?
Nella traduzione italiana – e nella interpretazione corrente della nota –
non si tiene conto di un’ambiguità del testo tedesco che viene sciolta
univocamente in una direzione. Il testo tedesco dice: «Anstatt Kants a priori Bedingungen
unseres psychischen Apparats» e viene tradotto in italiano con: «Invece [di una] delle condizioni
a priori kantiane nel nostro apparato
psichico». La mancanza di punteggiatura nell’originale rende possibile questa
interpretazione che però, così tradotta, rimane oscura. Chiunque d’altronde
abbia una minima conoscenza del pensiero di Kant sa che egli non si è mai
interessato “delle condizioni a priori
dell’apparato psichico” e, come dimostrerò più avanti, Freud aveva una
conoscenza sufficientemente approfondita del pensiero di Kant per giustificare
un’affermazione così grossolana. Invece in tedesco è anstatt che
suona come al posto di, in luogo: una
sostituzione, che qui però ha il sapore di un’aggiunta. Freud
sembra voler affermare che se dal punto di vista trascendentale (cioè, in senso
kantiano, non la conoscenza degli oggetti, ma il modo in cui funziona la
conoscenza) lo spazio è un’intuizione a priori, cioè precede e
presuppone ogni possibilità di esperienza, dal punto di vista empirico e
scientifico è la specifica natura della psiche, cioè il suo essere estesa nel
corpo, a fornire la condizione per la percezione dello spazio. La frase allora andrebbe
letta così, con la semplice introduzione di una virgola: «Anstatt Kants a priori, Bedingungen
unseres psychischen Apparats» e cioè: «Al posto degli a priori
kantiani, le condizioni del nostro
apparato psichico»[6]. Possiamo sostituire, o meglio ancora
spiegare, gli a priori kantiani attraverso il
funzionamento del nostro apparato psichico.
Se è possibile quindi condividere il giudizio di Laplanche e Pontalis che
vedono nell’aforisma, e in particolare nel carattere esteso dell’apparato
psichico, un «dato fondamentale» del pensiero di Freud, non si può altrettanto
aderire alla loro ipotesi che esso costituisca un tentativo «di rovesciamento
della prospettiva kantiana» (1967, pp. 605-606); così come mi appare
discutibile l’analoga ipotesi di Michael Molnar il quale interpreta la nota di
Freud come «una risposta» alla filosofia di Kant, come se egli sottintendesse
che spazio e tempo non fossero condizioni a priori della conoscenza, ma
veri e propri «atti di percezione», concludendo che «in questo modo all’esperienza
viene concesso il primato sulle astrazioni metafisiche» (Molnar 1992, p. XXIII).
In altra sede, Molnar arriva ad affermare – sulla linea di Laplanche e Pontalis
– che Freud potesse avere l’idea di «annettere la filosofia kantiana [alla
psicoanalisi], capovolgendola» (Molnar 2003, cit. in Noel-Smith 2016, p. 152).
Al contrario io credo che il tentativo di Freud non fosse affatto quello di
sovvertire la filosofia kantiana, bensì quello di fornire un supporto empirico
alla sua epistemologia, se è vero, come scriveva Bona-Meyer a proposito delle
condizioni a priori della conoscenza, che Kant ci
ha solo insegnato che esse non sono frutto dell’esperienza e che non sono idee
innate: «Ma allora, che cosa sono altrimenti e attraverso cosa le otteniamo? A
questo Kant non ha mai risposto» (Bona-Meyer 1870, p. 49). Freud, invece, da
scienziato dell’Ottocento, cerca proprio le basi empiriche della conoscenza
trascendentale. Già negli anni Venti, proponeva che il concetto di tempo, un altro a
priori della filosofia trascendentale, potesse essere il risultato di
una oscura percezione del funzionamento discontinuo dell’apparato Percezione-Coscienza,
una sorta di autopercezione priva di consapevolezza (Freud 1920, p. 214 e 1924,
p. 67-68). Questa idea è antica nel pensiero di Freud: sin dagli inizi egli
aveva ipotizzato che la percezione di spazio e tempo fossero il risultato di
una proiezione all’esterno della percezione del funzionamento dell’apparato
psichico. In una lettera a Fliess del 12 dicembre 1897, scriveva: «La confusa
percezione interna del proprio apparato psichico stimola le illusioni del
pensiero, le quali naturalmente vengono proiettate verso l’esterno e, in modo
del tutto caratteristico, nel futuro e in un aldilà» (Freud 1985, p. 323).
In breve, in vari passaggi della sua
opera, dall’inizio alla fine, noi troviamo in Freud il tentativo di fornire le
ragioni delle condizioni trascendentali della conoscenza: in che modo riusciamo
ad avere una forma a priori di spazio e di tempo? Freud
risponde: attraverso la proiezione delle specifiche caratteristiche del
funzionamento del nostro apparato psichico, che è, per come lo si può conoscere
attraverso l’indagine psicoanalitica, esteso e discontinuo.
Ed è proprio su questo dialogo con Kant che si sofferma Derrida
sottolineandone inizialmente la contrapposizione:
E tuttavia nel leitmotiv di Psiche, nell’aforisma
ereditato da un moribondo che, giacendo sul letto di morte, dichiara che Psyche ist ausgedehnt, è verso Kant che
Freud si era rivolto. È contro Kant che si era rivoltato. In quattro righe, formulò
un’ipotesi, richiamò una possibilità soltanto verisimile. Ma per quanto densa ed
ellittica sia la logica di tale verosimiglianza, essa non tende a mettere
l’anima al di fuori, a espellerla in uno spazio o in un’estensione che ci
sarebbe data inizialmente e irriducibilmente, familiare, là fuori, esterna. Al
contrario, la spazialità dello spazio, la sua esteriorità, non sarebbe altro che una proiezione, al di fuori, d’una
estensione interna e propriamente psichica. Il fuori,
insomma, non sarebbe altro che una proiezione! Per quanto enigmatica resti la
cosa, la derivazione freudiana (puramente psicologica,
dunque) sarebbe irreversibilmente orientata in questo senso e in questa direzione,
dell’estensione interna verso l’estensione esterna, verso la spazialità dello
spazio, la sola esteriorità degna di questo nome. (Derrida 2000, p. 63)
Derrida coglie bene la portata di questa nota, in particolare l’aporia
contenuta nell’idea di una psiche estesa, fonte di qualunque rappresentazione
spaziale e quindi creatrice di uno spazio nel quale essa stessa agisce e,
procedendo in questa direzione, non può quindi non cogliere la sostanziale
vicinanza tra la nota di Freud e il pensiero kantiano:
Ma si tratta veramente di una opposizione? E se, nonché opporsi a Kant, Freud
volesse soltanto interpretare e raffinare il modello kantiano sostituendogli,
ma all’interno della stessa logica, una sorta di formalizzazione migliorata?
[…] Secondo quest’ultima lettura (quella d’una sostituzione più adeguata o più
conseguente, ma nella stessa prospettiva),
uno psicologismo trascendentale, più precisamente una psicoanalisi
trascendentale, o meglio ancora un’estetica trascendentale psicoanalitica renderebbe
conto della spazialità partendo da un apparato psichico che dovrebbe essere ben
esteso per comportare, tra le due forme pure dell’intuizione sensibile, una
forma a priori del senso esterno. (Derrida
2000, p. 65)
La lettura di Derrida mi sembra utile proprio per spostare l’accento dall’idea
di una psicoanalisi anti-kantiana tutta persa nel misticismo dell’inconscio (visto
quindi contrapposto a una ragione “pura”), verso una metapsicologia che procede
in direzione di un’estetica trascendentale arricchita dalla lettura psicoanalitica.
D’altronde l’idea di una psicoanalisi trascendentale aveva
un precedente illustre, quello di Tausk, che a una ‘riunione del mercoledì’ a casa
Freud, il 24 novembre 1909, propose di sostituire il termine metapsicologia con
quello di psicologia trascendentale
(Nunberg and Federn 1967, p. 327).
Moroncini (2006) ha dedicato un intero articolo all’aforisma di Freud
partendo proprio dai testi di Nancy e Derrida, sottolineando soprattutto come, attraverso
questa nota postuma, Freud si opponga a una lettura psicologizzante della
psiche (2006, p. 579). Egli vede una forzatura nella proposta di Nancy e di
Derrida di pensare alla psiche in termini di pura corporeità e collega invece
il concetto di estensione alla topica freudiana, cioè alla descrizione di una suddivisione
spaziale della psiche. Moroncini ha il merito di collegare la nota di Freud
al Compendio di Psicoanalisi scritto
nello stesso periodo (e quindi di inserirla in un contesto), e in particolare
ad alcuni passaggi in cui Freud si riferisce alla spazialità della psiche.
Restano però in sospeso le domande relative a questa improvvisa apparizione di
Kant e il collegamento di quest’ultimo con l’idea di una psiche estesa. Perché
in quei giorni di esilio e di tristezza Freud pensa a Kant?
Vi è una fonte coeva, trascurata dagli studi. Il giorno precedente, il 21
agosto, Freud scrive una lettera a Marie Bonaparte nella quale le annuncia di
avere appena finito di leggere il suo «lavoro sul “tempo”». Si tratta di una versione
manoscritta del suo paper, «Time in Life, Dream and Death»,
presentato dalla Bonaparte al XV Congresso Internazionale di Psicoanalisi di
Parigi i primi giorni di agosto del 1938, lavoro che sarà pubblicato nel 1939
con il titolo «L’inconscient
et le temps» sulla Revue
française de psychanalyse (Bonaparte, 1939). Ricordando alla sua amica che hanno già avuto modo di
discutere di alcune questioni dell’articolo e dopo essersi congratulato con lei
per la qualità del suo lavoro, si permette di offrirle un «suggerimento»:
Esiste una zona i cui
confini appartengono sia al mondo esterno che all’Io: le nostre superfici
percettive. Può darsi dunque che l’idea del tempo sia connessa all’attività del
sistema p.c. [Percezione-Coscienza]. Kant verrebbe allora ad avere ragione, se
solo sostituiamo al suo antiquato «a priori» la nostra più moderna indagine dell’apparato
psichico. Lo stesso avverrebbe per i concetti di spazio, causalità, ecc. (Jones
1953, vol. III, p. 542)
Questo passo è fondamentale[7] perché comprova quanto Freud
pensasse a Kant in quei giorni, ritornando sulla possibilità di ampliare il
concetto di a priori con il funzionamento del sistema
Percezione-Coscienza, arricchendo la filosofia trascendentale alla luce delle conoscenze
della psicoanalisi. Invita la sua allieva a riprendere i concetti kantiani di
spazio e tempo, e considerarli non più come categorie a priori dell’intelletto,
ma come prodotti dell’attività psichica, elementi costitutivi dell’apparato
psichico e in sostanza modificare l’a priori kantiano trasformandolo
in una precisa e indagabile funzione dell’apparato psichico. La percezione di
tempo, spazio e causalità pur dipendendo dalle specifiche modalità di
funzionamento dell’apparato psichico resterebbe però in fondo un a
priori rispetto a ogni successiva conoscenza.
Bene, ora sappiamo che la lettura dell’articolo sul tempo della Bonaparte è
stata la sollecitazione che ha portato Freud a scrivere quel breve appunto. Dobbiamo
però ancora capire in che modo l’articolo della sua allieva abbia potuto sollevare
un tale interesse.
Poche righe prima, nella lettera del 21 agosto, Freud scrive: «Abbiamo
già discusso se siamo d’accordo o meno sulle conclusioni finali». Le “conclusioni
finali” della Bonaparte, apparse successivamente in due paragrafi
intitolati Tentativo di risolvere l’enigma del tempo e Considerazioni conclusive: sintesi e
critiche, sono una succinta
indagine filosofica sul concetto di tempo che parte proprio da Kant e che vede
la Bonaparte criticare il filosofo tedesco sulla sua concezione dello spazio e
del tempo come categorie a priori che prescindono
dall’esperienza e che sono alla base della nostra conoscenza, conoscenza di
fenomeni e non delle ‘cose-in-sé’. Scrive la Bonaparte:
È vero che i nostri sensi ci permettono di farci solo un quadro molto
impreciso dell’universo ed è senza dubbio corretto affermare che essi possono
fissare solo inadeguati campioni di realtà sotto forma di ‘apparenze’. Ma,
dopotutto, ogni cosa che percepiamo con l’aiuto dei nostri sensi deve essere
derivata, in qualche modo, dalla realtà esterna nella quale essi si sono
gradualmente sviluppati nel corso dell’evoluzione della specie umana. (Bonaparte
1939, p. 459)
I concetti di tempo e spazio sono per la Bonaparte acquisiti attraverso l’esperienza
e appresi dalla realtà esterna. Per Kant spazio e tempo sono forma
dell’intuizione, condizioni a priori per ogni esperienza.
Freud sembra essere più vicino a Kant che alla sua allieva poiché attribuisce
la percezione del tempo (e dello spazio) alle specifiche modalità di funzionamento
dell’apparato Percezione-Coscienza, attribuendo, in qualche modo, alle precipue
caratteristiche dell’intelletto la facoltà di conoscerli. Freud ha quindi in
mente il manoscritto della Bonaparte quando scrive quell’appunto il giorno
successivo, appunto che contiene però elementi di una riflessione
ulteriore: la percezione dello spazio come prodotto della proiezione
dell’estensione dell’apparato psichico. Non si dice che la notte porta
consiglio[8]?
«Abbiamo già discusso se siamo d’accordo o meno…» deve essere un modo
gentile per ricordare il suo disaccordo. D’altronde la Bonaparte ha parole
fortemente sarcastiche e critiche nei confronti di Kant e non è da escludere che
questo tono possa avere irritato Freud. Essa scrive tra l’altro:
[Kant] piantò la sua
tenda, come molti altri hanno fatto prima di lui, davanti al Mostro del tempo
e, rovesciando i ruoli di Edipo e della Sfinge, ha cercato di trovare una
risposta a questo problema filosofico: “Qual è la tua vera natura, tu che
sembri divorare ogni cosa, tu senza il quale non potrei percepire il mondo?” E
poco dopo troviamo Kant vantarsi di essere stato lui a strappare la maschera del
Tempo e ad avere scoperto che dietro di esso non c’è altro che fumo. “Forme
della nostra percezione”, esclama, “il tempo come lo spazio! Oltre il soggetto
non c’è nient’altro. Al punto che essi non sono in nulla determinati
dall’esperienza, ma esistono in noi a
priori”. (Bonaparte 1939, pp. 456-57)
Per un uomo formato nella cultura tedesca dell’Ottocento, non deve
essere stato facile accettare una posizione così dura e irridente nei confronti
del grande filosofo dell’Illuminismo, un filosofo verso il quale - come vedremo
- Freud era decisamente debitore. Proprio in quel paragrafo la Bonaparte aveva criticato
la posizione di Kant di non potere conoscere il tempo attraverso i sensi,
attribuendola alla sua incapacità a uscire dalla tradizione filosofica che
separa anima e corpo:
[Kant] non è stato realmente in grado di rinunciare al credo dualistico di un’anima
indipendente dal corpo e in un Dio creativo. […] Questo Dio, che crea anime a
suo piacimento e ha depositato in esse a
priori, prima di ogni esperienza, quelle forme della nostra percezione o
intuizione che noi chiamiamo spazio e tempo. (Bonaparte 1939, pp. 467-68)
Freud invece contesta anche questa affermazione collegando gli a
priori kantiani con la possibilità di concepire una mente estesa nel
corpo. Che su questi argomenti ci fosse un sostanziale disaccordo tra Freud e
la Bonaparte risulta chiaro sia dalla lettera di Freud sia, come vedremo fra
poco, da quanto riportato dalla Bonaparte in coda al suo stesso articolo.
Freud scrive di avere già avuto occasione di discutere con Marie Bonaparte
l’articolo sul tempo, forse a Londra in occasione delle visite di lei tra il 23
e il 26 giugno, forse prima, in occasione del suo passaggio a Parigi, anche se
le fatiche di una giornata con il cuore lacerato dall’angoscia di avere
lasciato la sua città in mano ai nazisti non sembrerebbero essere state la
migliore condizione d’animo per discussioni scientifiche. Forse è nel corso di
uno dei suoi nove viaggi a Londra che la Bonaparte gli lascia il testo
dell’articolo, che Freud poi si farà copiare. Più probabilmente glielo riporta
la figlia Anna il 5 agosto di ritorno dal Congresso di Parigi, organizzato
dalla stessa Bonaparte dove la principessa aveva appena letto il testo del suo
articolo. L’8 settembre Freud subisce un ulteriore intervento chirurgico al naso
per un papilloma, (Schur 1972, p. 509). La Bonaparte tornerà a trovare Freud a
Londra il 29 ottobre e resterà fino al 2 novembre, questa volta al numero 20 di
Maresfield Gardens, dove Freud si era trasferito il 27 settembre (Jones 1953 e
Molnar 1992). Ma anche in questa occasione (la prima dopo il 21 agosto) non ci
sarà modo di parlare del lavoro sul tempo, probabilmente anche a causa del
lento procedere della convalescenza.
Il 12 novembre Freud scrive alla sua amica: «I suoi commenti su “tempo e spazio”
si sono dimostrati migliori dei miei – sebbene per quello che riguarda il tempo
non l’avevo pienamente informata delle mie idee. Né lei, né nessun altro. Una
certa avversione per la mia soggettiva tendenza a concedere troppa libertà
all’immaginazione mi ha sempre frenato. Se ancora vuole sapere cosa ne penso
gliene parlerò la prossima volta che viene». (Freud 1960 p. 455). Il tono è lo
stesso di quello della lettera del 21 agosto: grandi elogi, ma una ferma
resistenza ad accogliere le riflessioni filosofiche dell’allieva e un invito ad
ascoltare le sue obiezioni.
Se dobbiamo tenere fede ai suoi propositi possiamo immaginare che questo
dialogo ebbe luogo tra il 4 e l’8 dicembre in occasione della quarta visita
della Principessa a Freud (vedi le “Kürzeste Chronik” del 1938 in Molnar 1992,
p. 252), dialogo che la Bonaparte decise fortunatamente di riportare in coda al
suo lavoro e che qui citiamo in extenso:
In una conversazione che io ebbi con lui dopo che aveva letto il
mio lavoro, Freud confermò che le sue opinioni erano potenzialmente in
sintonia con quelle di Kant (corsivo mio). Il senso che noi abbiamo
del tempo, osservò, nasce dalla percezione interna della nostra vita che passa.
Quando la coscienza si sveglia in noi, noi percepiamo questo flusso interno,
dopodiché lo proiettiamo nel mondo esterno. La percezione dello spazio - proseguì
Freud - non può essere separata da quella del tempo. Come possiamo acquisirla?
Innanzi tutto noi dobbiamo domandarci se c’è qualcosa al mondo che noi possiamo
concepire, indipendentemente dallo spazio, in maniera non spaziale. Una tal cosa
esiste realmente, è la mente o la psiche. Ma questa scoperta deve arricchire la
nostra riflessione. Se la mente appare così sprovvista della qualità dello
spazio può essere a causa di una massiccia proiezione all’esterno delle sue
caratteristiche spaziali originarie. La psicoanalisi ci ha insegnato in effetti
che la psiche è composta da istanze separate che noi siamo obbligati a
rappresentare come esistenti nello spazio. Si potrebbe dire che questo è dovuto
alla introiezione dello spazio esterno. Ma perché non dovrebbe essere vero il contrario?
Quando la nostra coscienza comincia a stabilirsi essa percepirebbe come
localizzate nello spazio queste istanze interne, istanze la cui ricostruzione
dobbiamo integralmente alla psicologia del profondo. Non vi è dubbio che esse
siano anche provviste di un substrato anatomico la cui natura, ciò nonostante,
resta ancora da determinare. Noi dovremmo dunque proiettare al di fuori questo
atto interno di conoscenza, in modo che lo spazio inerente al mondo esterno
avrebbe la sua origine in una proiezione del nostro spazio interno, spazio che
noi provvederemo poi a negare[9].
Le percezioni che noi riceviamo dai nostri sensi fisici, proseguì Freud,
sono esse stesse ‘proiezioni’ di diversa misura, secondo il senso particolare che
esse implicano. Quelle associate al tatto e al gusto sono una questione
totalmente interna. L’odorato proietta già le sue percezioni nello spazio
circostante. L’udito lo suddivide in maniera equivalente tra mondo interno ed
esterno. Quanto alla vista le sue percezioni sono completamente ‘proiettate’.
Impressioni e immagini inscritte nelle aree visive del nostro cervello e che
sono localizzate piuttosto lontane, posteriormente, ci sembrano di fatto
esistere nel mondo esterno. A tal punto, devo aggiungere, che per migliaia di
anni, gli uomini credettero che fossero i loro occhi a proiettare delle specie
di raggi sugli oggetti. Non sarebbe lo stesso - concluse Freud - per le nostre
percezioni dello spazio e del tempo? E questa traduzione nel linguaggio psicoanalitico
dei vecchi argomenti a priori di
Kant, non sarebbe in fondo un modo per dargli ragione? (Bonaparte 1939, pp.
466-67)
Abbiamo qui, grazie alla sollecitudine e all’onestà di Marie Bonaparte che
non nasconde le obiezioni del maestro al suo lavoro, una testimonianza dettagliata
del pensiero di Freud, una sorta di commento ragionato al breve appunto del 22
agosto a tre mesi e mezzo di distanza (se la mia datazione è corretta). L’accento
dell’affermazione iniziale cambia però sensibilmente. La psiche è estesa,
di ciò non sa nulla si chiarisce meglio: la psiche è innanzi tutto quel “qualcosa
al mondo” che può essere concepito al di fuori dello spazio, cioè quel cogito che
non necessita di alcuna obiettiva realtà materiale per esistere. Ma questa, propone
Freud, potrebbe essere solo un’illusione. L’estensione dell’apparato psichico
sarebbe proiettata all’esterno e da questa proiezione deriverebbe poi la
negazione della spazialità della psiche stessa. La psiche come una sorta di
funzione pensante del corpo che proiettata al di fuori del corpo perde le
caratteristiche della corporeità e della materialità (spazio, tempo,
causa-effetto) per favorire la conoscenza della realtà. Gli organi di senso (terreno
di frontiera tra l’Io e il mondo esterno) svolgerebbero questa funzione di proiezione.
Sembra ovvio allora che la psiche non ne possa sapere nulla, proprio perché ha
perso qualsiasi percezione della sua stessa estensione[10]. Ebbene, pensare la psiche estesa,
ignorante della sua stessa estensione, ma capace di percepire l’estensione dello
spazio esterno, non potrebbe essere considerata la condizione necessaria perché
si possa avere un’intuizione a priori dello spazio[11]? La conclusione del pensiero di Freud, più
chiaramente di quella proposta nei brani precedenti, è in sostanziale accordo
con le categorie kantiane e in disaccordo con la Bonaparte che dichiara
esplicitamente il suo dissenso da Freud (e da Kant) sostenendo di non potere
accettare l’ipotesi che «le nostre percezioni di spazio e tempo siano
essenzialmente e originariamente un affare interno», affermando, con Goethe,
che «tutto ciò che è dentro di noi esiste al di fuori» (Bonaparte 1939, p.
467). A questo punto la Bonaparte riporta, in una nota a piè di pagina,
un’altra comunicazione personale di Freud[12] fatta dopo avere letto il suo articolo:
«Freud mi comunicò un’altra idea: l’attenzione che poniamo sugli oggetti
sarebbe determinata da investimenti rapidi ma successivi, una sorta di quanta
emanati dall’Io. La nostra percezione interna la trasformerebbe in seguito in una
continuità, e sarebbe questa, proiettata all’esterno, il nostro prototipo del
tempo». È per questa ragione, continua Freud, che nel corso del sonno non c’è
percezione del passare del tempo. «Il risultato di tutto questo sarebbe l’equazione:
attenzione = percezione = tempo» (Bonaparte 1939, p. 467). Potremmo dire, parafrasando
l’appunto del 1938: «La psiche è discontinua, di ciò non sa nulla». Questa idea
di un apparato psichico che proietta il proprio funzionamento all’esterno per
poi riconoscerlo come appartenente alla realtà era già stata espressa da Freud
nel saggio La negazione, dove
scriveva: «Ora non si tratta più di stabilire se qualcosa che è stato
percepito (una cosa) debba essere accolto nell’Io oppure no, ma invece se una
certa cosa, presente nell’Io come rappresentazione, possa essere ritrovata
anche nella percezione (realtà). È di nuovo, come si vede, una questione
attinente al fuori e al dentro» (Freud
1925, p. 199).
Aspetti metapsicologici
Dicevamo che, forse nel mese di maggio, forse il 22 luglio del 1938, Freud
inizia a scrivere Compendio di
Psicoanalisi. Ritroviamo
il tema che stiamo trattando, sotto una diversa luce, proprio all’inizio di
questo saggio:
Di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) [Seelenleben, letteralmente: vita dell’anima]
ci sono note due cose: innanzi tutto l’organo fisico e il suo scenario, il
cervello (o sistema nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza
che sono dati immediatamente e che nessuna descrizione potrebbe farci comprendere
più da vicino. Tutto ciò che sta in mezzo a queste due cose ci è sconosciuto e
non è data una relazione diretta fra i due estremi del nostro sapere. Ma se
pure una tale relazione esistesse, al massimo potrebbe fornire un’esatta
localizzazione dei processi della coscienza, comunque non potrebbe aiutarci a
comprenderli meglio. Le nostre due ipotesi si riallacciano a questi punti
terminali o iniziali del nostro sapere. La prima riguarda la localizzazione. Noi
supponiamo che la vita psichica sia la funzione di un apparato al quale ascriviamo
estensione spaziale…». (corsivo mio) (Freud
1938, p. 572)
Qui Freud parte da un tema che gli è caro e che ha accompagnato il suo
lavoro per tutta la vita: le possibili relazioni tra corpo e mente, tra
funzioni cerebrali e apparato psichico, tra neurologia e psicologia, ecc. Sin
da Studi sull’afasia e dal Progetto
di una psicologia (quella “Psicologia per neurologi”[13] anch’essa salvata meritoriamente dalla
principessa Bonaparte) questo tema riemerge continuamente dalle pieghe della
ricerca psicoanalitica. Tema irrisolto, forse irrisolvibile, che angoscerà
Freud per lunghi periodi della sua vita (Jones 1953, vol. I pp. 311-312), tema
dal quale non riesce ad allontanarsi, soprattutto ora, malato e giunto alla
fine dei suoi giorni. Freud aveva combattuto la cosiddetta teoria del
localizzazionismo, o per lo meno del localizzazionismo stretto[14], che cercava corrispondenze tra
un’anatomia neurologica e una fisiologia psicologica sia nel saggio Studi sull’afasia che nel Progetto, ma
aveva sempre concepito la psiche come soggetta a una suddivisione spaziale, una
topica: essa occupa spazio e questo spazio è diviso in regioni. Anche qui
ritorna l’idea che la psiche, la vita dell’anima, abbia una sua estensione,
occupi spazio, si faccia corpo, e occupi quel territorio intermedio situato a
mezza via tra il cervello e la coscienza. Freud pensa, come si sa,
all’inconscio, estesa e profonda provincia dell’apparato psichico e prima
espressione psichica del corpo, corpo che si fa mente, il missing link a
cui fa riferimento nella famosa lettera a Groddeck del 5 giugno 1917[15].
I riferimenti espliciti a Kant nell’opera di Freud - a eccezione dei passi
che abbiamo citato - sono abbastanza generici: che si tratti di fare
riferimento all’imperativo categorico, ai sogni, o alle forme dell’intuizione a
priori di spazio e tempo, Freud non si addentra mai nella filosofia di
Kant, non lo cita in dettaglio, non ne indaga né la psicologia, né la
metafisica. A una prima lettura Freud sembra sempre riferirsi al Kant della Critica
della ragion pura, al filosofo dell’intelletto, allo studioso della
psicologia razionale più che a quello della psicologia empirica. Ma in
quest’ultima nota l’interesse di Freud per uno spazio che nasce dal
corpo e per una psiche estesa deve tenere conto di un
altro debito nei confronti di Kant, o un debito nei confronti di un altro Kant
da quello della Critica[16]. Voglio
ipotizzare che sia da cercare proprio in Kant la fonte implicita di quella
criptica nota che ci ha lasciato nella cupa estate del 1938.
Influenza di Kant sulla formazione di Freud
Freud si era formato in un clima culturale in cui la conoscenza filosofica
di Kant e l’applicazione della teoria kantiana alla scienza erano elementi
scontati (soprattutto in Austria in cui stava nascendo una prima forma di Naturphilosophie), e
costituiva il patrimonio culturale di ogni scienziato così come di ogni
intellettuale di lingua tedesca[17]. È difficile quindi rintracciare nel
pensiero di Freud il debito nei confronti della filosofia kantiana che in
realtà impregna molti aspetti della teoria psicoanalitica. Questo spiega il
fatto che nelle opere di Freud non si trovino molti riferimenti a Kant (e, ciò
nonostante, questi rimane il filosofo più citato dallo psicoanalista viennese).
Un tentativo interessante di individuare il debito di Freud nei confronti del
filosofo di Königsberg è stato fatto da A. Brook che paragona e collega la
seconda topica freudiana con il pensiero kantiano trovando corrispondenze tra
il concetto di conoscenza in Kant e l’Io freudiano, tra quello di ragione morale
e il Super-io e tra il senso interno e l’Es (Brook 1988). Ma a parte poche
eccezioni, sono scarsi i lavori che cercano di individuare il debito di Freud
verso Kant[18].
A sostegno di questa ipotesi va ricordato che Freud era stato, già in adolescenza,
un attento studioso della filosofia di Kant. In una lettera dell’11 aprile 1875
all’amico Silberstein, il diciannovenne Freud dimostra una raffinata conoscenza
della metapsicologia del «glorioso Kant» (Freud e Silberstein 1989 p. 95) che definisce,
riprendendo Douay, «il più avveduto di tutti i filosofi» (p. 93). Anche McGrath
commentando la lettera afferma che Freud aveva una «grande e articolata padronanza
del sistema kantiano» (Mc Grath 1986, p. 348). Come scrivono Askay e Farquhar «l’illuminismo
tedesco esercitò la sua influenza su Freud prevalentemente attraverso la
filosofia di Kant in modi significativi e non riconosciuti. Freud si muoveva chiaramente
a suo agio nella filosofia di Kant» (Askay e Farquhar 2006, p. 47). Sappiamo
che il 24 aprile 1882, da poco laureato, acquistò un’edizione di scritti del
periodo precritico, Kleinere Schriften zur Naturphilosophie e
una copia della Critica della ragion pura, copia che annotò in
modo accurato e che ha mantenuto un posto speciale, insieme al Saggio
sull’intelletto umano di Locke, nella sua biblioteca - ora in gran parte a Londra
(Zaretsky 2004, p. 402, n. 24). Due mesi dopo l’acquisto di questi volumi Freud
lascerà l’Istituto di Fisiologia di Brücke per dedicarsi al lavoro clinico. Ma
a parte questi puntuali riferimenti dobbiamo tenere conto che l’influenza del
pensiero di Kant sulla cultura tedesca fin de siècle era molto
estesa e la conoscenza della teoria kantiana era data generalmente per acquisita.
Bisogna inoltre tenere conto che vari tra i maestri di Freud potevano essere considerati
a buon diritto kantiani: Brentano, Brücke, Herbart, Helmholtz, Meynert,
Fechner, Mach e Lipps – solo per citarne alcuni. Un esempio fra tutti: Hermann
von Helmholtz, il grande fisico e fisiologo tedesco capostipite di una scuola
di ricerca a cui apparteneva anche Brücke, aveva sottolineato, nel suo
libro The facts in perception, il profondo «accordo tra la recente
fisiologia dei sensi e le dottrine di Kant» e aveva anche affermato che
nella ricerca scientifica «ci poggiamo sul terreno del sistema kantiano» (Helmholtz
1878, p. 711). Heidegger nei suoi Seminari di Zollikon sottolinea
proprio questa commistione in Freud tra scienza empirica e sistema kantiano: «La
metapsicologia di Freud è la trasposizione della filosofia neokantiana all’uomo.
Egli ha, da un lato, le scienze della natura, e, dall’altro, la teoria kantiana
dell’oggettualità» (Heidegger 1991, p. 287). Questa visione di Heidegger sembra
ben ricalcare – con altri toni - l’ammirazione manifestata dalla Bonaparte nei
confronti del suo maestro quando lo aveva definito «un misto di Pasteur e di
Kant» (Jones 1953, v. 2, p. 496).
Questo intreccio fra teoria trascendentale e scienze della natura è stato
recentemente riconosciuto con precisione da Tauber che si spinge a parlare di una
“struttura kantiana della psicoanalisi”. Egli scrive: «Il fondamentale
impegno filosofico di Sigmund Freud era suddiviso tra le sue aspirazioni a
creare una scienza positivistica della mente (che originava dalle sue indagini
neuroscientifiche e una strategia interpretativa costruita sul tema kantiano
della relazione trascendentale tra mente e natura» (Tauber 2009, p. 2). Egli
sottolinea l’importanza dell’influsso filosofico di Kant e del kantismo proprio
nella descrizione dicotomica di una mente assoggettata alle leggi biologiche e
deterministiche della natura (l’inconscio) e di una mente razionale capace di
conoscere e interpretare l’inconscio e libera di scegliere responsabilmente.
D’altronde è Freud stesso a inserire la psicoanalisi nel solco della
tradizione kantiana quando nel saggio L’inconscio afferma
che:
L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare, […]
come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre
vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice
errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di
identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la
psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al
posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo
della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale
ci appare. (Freud 1915, p. 54)
Questo tema era antico per Freud, la sua ipotesi dell’esistenza di un sistema
inconscio, non avvicinabile – se non per vie indirette – dalla coscienza era,
sin dall’inizio, permeata proprio da una filosofia della scienza di stampo
kantiano. La presenza di Kant nel pensiero di Freud è esplicita quando
nella Traumdeutung fornisce un’illuminante definizione dell’inconscio:
L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, altrettanto sconosciuto nella sua natura più
intima quanto lo è la realtà del mondo esterno, e a noi presentato dai dati della
coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle
indicazioni dei nostri organi di senso. (Freud 1899, p. 557)
Questa chiave di lettura per cui l’inconscio costituirebbe la cosa-in-sé,
il noumeno dell’apparato psichico meriterebbe essere indagata, ma non è questa
la sede[19]. Quello che qui ci interessa è quanto
Freud fosse profondamente permeato dal sistema kantiano e non poteva quindi
verosimilmente ignorare che il concetto di spazio e il suo rapporto con la
conoscenza sensibile non fosse così univoco nel pensiero del filosofo tedesco
poiché esso assumeva, a seconda del momento, carattere di realtà oggettiva, di
intuizione pura priva di realtà oggettiva, o di forma dell’intuizione
sensibile. Qui c’è da fare un breve inciso. In tutta evidenza Freud ha un’idea
del pensiero di Kant non certo pura e incontaminata, ma sicuramente segnata
dalla tradizione idealista che tiene conto contemporaneamente del razionalismo
e dell’empirismo, dell’illuminismo e del romanticismo presenti nel pensiero del
filosofo di Königsberg. La Bonaparte invece sembra leggere Kant attraverso
Schopenhauer e Nietzsche e finisce quindi con il contrapporlo a Goethe[20].
Kant precritico e la filosofia del corpo
Naturalmente la complessità del pensiero kantiano va ricostruita lungo
l’intero percorso che conduce alla formulazione della Critica della ragion pura; bisogna quindi risalire al cosiddetto
Kant precritico[21], ed in particolare a quel periodo della
produzione kantiana che va dal 1766 al 1770, che anticipa alcuni temi presenti
sin dalla prima edizione della Critica
del 1781 e che precede il lungo silenzio – durato più di un decennio - in
cui Kant studia per preparare la stesura del suo testo più famoso. Si tratta di
tre saggi - che Freud aveva con ogni probabilità letto - che a detta dello stesso
Kant costituiranno le basi del testo del 1781: Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica del 1766, Del primo fondamento della distinzione delle
regioni nello spazio del 1768 e La forma
e i princìpi del mondo sensibile e intelligibile del 1770, la famosa Dissertatio che
consentì a Kant il passaggio universitario a ordinario di Logica e Metafisica.
A questi saggi dovremmo aggiungere un ciclo di lezioni universitarie condotte probabilmente
nella seconda metà degli anni ’70, noto come Metaphysic L1 e tradotto
in italiano con il titolo di Lezioni di
psicologia. In questa
fase della speculazione kantiana, il filosofo sembra ancora alla ricerca di
quelle invarianti umane che sono alla base delle categorie dell’intelletto che
costituiscono la conditio sine qua non della conoscenza, categorie
formali che saranno studiate e definite con maggior precisione a partire
dalla Critica della ragion pura.
La strada che conduce Kant a elaborare la sua concezione di spazio e di tempo
come condizioni «a priori» perché qualunque intuizione sia possibile e quindi
vi sia conoscenza, è una strada ricca di considerazioni riguardo al rapporto
fra la percezione dello spazio e il dialogo o, per dirla con Kant, il commercium, tra
anima e corpo[22]. Lungo questa strada troviamo molti
elementi che, non sappiamo per quale via, costituiscono in maniera evidente, la
fonte remota della nota di Freud e delle sue considerazioni a margine.
Sin dall’inizio della sua produzione filosofica, dal suo primo scritto del
1747, Pensieri sulla vera valutazione
delle forze vive, Kant,
ancora studente, si pone il duplice interrogativo di come possa la materia, tramite
l’influsso fisico, essere in grado di creare rappresentazioni nell’anima in
modo efficace e in che modo l’anima, dal canto suo, sia in grado di porre in
movimento la materia (1747, GSK, AA 01 p. 21; trad. it. 2000, p. 58). Nel 1764
scrive due saggi, entrambi dedicati al tema della malattia mentale, le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime
(GSE AA 02) e il Saggio sulle malattie della testa.
Questo secondo saggio, noto a Freud e citato nelle Traumdeutung (Freud
1899, p. 93), si conclude con una riflessione sull’origine corporea delle
malattie mentali in cui afferma che il corpo segnala disfunzionalità ben prima
che si possa avvertire uno squilibrio nell’animo: «si dovrebbe dire, piuttosto
che l’uomo è diventato arrogante perché già in un certo grado era squilibrato,
anziché affermare che egli è andato soggetto a tale disturbo perché arrogante» (Kant
1764, VKK, AA 02, p. 272; trad. it. 1989, p. 75).
Sin dagli inizi della sua riflessione filosofica, Kant riflette
sull’intreccio tra anima e corpo attribuendo alla prima un ruolo subordinato e
al secondo per lo meno una precedenza temporale. Ma sarà nel 1766 che Kant affronta
il tema con maggiore determinazione, pubblicando un breve scritto, i Sogni di un visionario chiariti con sogni della
metafisica, redatto a causa
delle «viva sollecitazione di amici conosciuti e sconosciuti» (Kant 1766, TG,
AA 02, p. 318; trad. it. 2000, p. 350) che gli chiedevano di esprimersi
su Arcana Coelestia, l’opera in più volumi dello svedese
Emanuel Swedenborg (un precursore degli studi sullo spiritismo che tanto
affascinò il giovane Jung) che pretendeva di essere in grado di comunicare con
gli spiriti e con le anime dei morti (Swedenborg 1749-56). In realtà
l’occasione è un pretesto per affrontare il problema anima-corpo e dare voce al
proprio materialismo. In questo saggio egli propone dei passaggi che difficilmente
possono essere sfuggiti a Freud. Ne scegliamo uno, abbastanza lungo, che
costituisce a nostro avviso una coincidenza troppo smaccata per non essere considerata
una fonte primaria della nota di Freud. Kant sta contestando, attraverso un dialogo
immaginario, l’esistenza degli spiriti, e scrive:
Qual è il luogo di questa
anima umana nel mondo corporeo? Io risponderei: Quel corpo, i cui cangiamenti
sono cangiamenti miei, questo corpo è
il mio corpo, e il luogo di esso è
nello stesso tempo il mio luogo. Se si
continuasse oltre a domandare: «dov’è in questo corpo il luogo tuo (dell’anima)?»,
temerei in tal domanda una qualche insidia. (Kant 1766, TG, AA 02, p. 324;
trad. it. 2000, 356)
Come si evince Kant si sta ponendo una questione molto simile a quella che si
sarebbe posto Freud circa 170 anni dopo. Come si può (se si può) localizzare
l’anima dentro il corpo, se esiste un luogo dell’anima pensabile al di fuori della
collocazione spaziale del corpo, se esiste un luogo circoscritto dove possiamo
confinare il nostro Io o se invece la nostra anima è estesa nel corpo. Proseguiamo
la lettura.
Poiché si nota
facilmente che in essa è già presupposto qualcosa che non è conosciuto mediante
l’esperienza, ma si fonda forse su argomenti immaginari: cioè che il mio io
pensante sia in un luogo, che sia distinto dai luoghi delle altre parti di quel
corpo che appartiene al mio Io. Laddove nessuno è immediatamente cosciente di un
particolare luogo nel suo corpo, ma di quello che egli occupa come uomo
riguardo al mondo circostante. Io mi atterrei dunque all’esperienza comune e
provvisoriamente direi: Io sono là
dove io sento [Wo ich empfinde, da bin
ich]. Io sono proprio così immediatamente nella punta delle dita come nella
testa. Io sono quello stesso che soffre nel calcagno, e a cui il cuore batte di
affetto. Se mi tormenta un callo, io non sento l’impressione dolorosa di un
nervo cerebrale, ma alla fine delle dita del mio piede. Nessuna esperienza mi
insegna a ritener lontane da me alcune parti della mia sensazione, a sbarrare in
un posticino microscopicamente piccolo del mio cervello il mio indivisibile io,
perché poi ponga di lì in movimento con la leva della mia macchina corporea, o
sia anche colpito per la stessa via. Perciò io desidererei una prova rigorosa
per trovare assurdo ciò che dicevano i maestri: La mia anima è tutta in tutto il corpo e tutta in ognuna delle sue
parti» [Totam animam in toto corpore omnibusque partibus corporis organici
praesentem esse]». (Kant 1766, TG, AA 02 p. 324-325; trad. it. 2000, p.
356-357)
Ci sembra molto interessante questa posizione antilocalizzazionista ante
litteram assunta da Kant. L’anima non può essere localizzata in un
punto del corpo, essa è dappertutto e in ogni sua parte. Le modificazioni
introdotte dalle sensazioni fanno sì che io sia in quel punto in cui avviene la
modificazione, il cangiamento, per poi spostarmi in altro luogo, in altro punto
corporeo, per essere sempre in quel da, dove io sento:
letteralmente dove io sento, là io sono. L’anima quindi erra
per il corpo nell’impossibilità di trovare un luogo, uno spazio determinato,
anzi, in questo modo si introduce «una sorta di distruzione della
localizzazione dell’io, dell’anima, del soggetto. […] ma anche, più
radicalmente, distruzione della possibilità stessa di una simile localizzazione»
(Leoni 2002, p. 69). L’impossibilità di differenziare la dimensione corporea
dall’esperienza dell’anima sembra essere in questi anni un profondo
convincimento di Kant il quale, ancora nelle sue Lezioni di psicologia definiva il commercium dell’anima
con il corpo come una «dipendenza reciproca», una «comunanza»:
La comunanza è quella unione in cui l’anima costituisce
un’unità col corpo; in cui i mutamenti del corpo sono al tempo stesso quelli
dell’anima e i mutamenti dell’anima al tempo stesso quelli del corpo. (Kant metà anni 1770, V-Met/Heinze, AA 28, p. 259; trad. it. 1986, p. 91)
È proprio questa comunanza che rende impossibile identificare un luogo in
cui possa risiedere l’anima, la cui estensione non è minore di quella del
corpo. Nelle Lezioni di psicologia, Kant definisce molto
difficile osservare questo commercium, poiché l’anima è un
oggetto del nostro senso interno, mentre il corpo è un oggetto del nostro senso
esterno; come questi due possano entrare in comunicazione non ci è dato di sapere[23]. Questo rende impossibile localizzare
l’anima nel corpo:
Ora, dal momento che l’anima sta nel commercium col corpo, noi domandiamo
dove l’anima abbia la sua propria sede
nel corpo. Il luogo dell’anima nel mondo viene determinato dal luogo del corpo;
la mia anima è là dove è il mio corpo.
Ma dove ha l’anima la sua sede nel corpo? Il luogo del corpo nel mondo è
determinato solo dal senso esterno; ora,
poiché l’anima è oggetto del senso interno,
ma dal senso interno non può essere determinato alcun luogo, allora neppure si può determinare il luogo
dell’anima nel corpo. (Kant metà anni 1770, V-Met/Heinze, AA 28, p.
280-281, trad. it. 1986, p. 119)
È possibile che Freud non avesse nessuna memoria di queste Lezioni di psicologia di Kant – pubblicate
per la prima volta nel 1821 – quando affermava che la psiche è estesa? che essa
occupa lo spazio, che essa è spaziale e che questo le consente di percepire lo spazio
fuori da sé? Quando Freud scrive che l’unica cosa non spaziale che possiamo
concepire è la psiche, non sta rievocando il pensiero di Kant quando scrive che
poiché l’anima non è oggetto dell’intuizione esterna «essa neppure è nello
spazio, ma solo agisce nello spazio»? (Kant metà anni 1770, V-Met/Heinze,
AA 28, p. 280-281; trad. it. 1986, p. 121)
Torniamo un attimo indietro ai Dreams e proseguiamo la lettura
che abbiamo lasciato in sospeso. Si porga attenzione a questo passaggio:
Il senso comune scorge spesso la verità prima che conosca le ragioni, con
cui può provare a chiarirla. Mi si dica pure che in tal modo io penso l’anima estesa [Seele ausgedehnt] e sparsa per tutto il corpo, […] l’obiezione non
mi sconcerta affatto. (corsivo mio) (Kant 1766, TG, AA 02 p. 325; trad. it.
2000, p. 357)
I termini usati da Kant sono gli stessi usati poi da Freud[24]: l’anima (o la psiche, ma ricordiamo
come anche Freud si riferisse spesso alla Seelenleben per parlare
della vita psichica) è estesa, ausgedehnt, occupa spazio. La
coincidenza è significativa, soprattutto in un momento in cui Freud sembra
pensare agli aspetti spaziali dell’apparato psichico avendo in mente le
categorie kantiane. Il termine tedesco ausgedehnt, d’altronde,
non può essere considerato casuale, poiché verrà usato da Kant in molte altre
occasioni proprio per caratterizzare, nel solco della tradizione cartesiana, la
specificità dei corpi. Nei Prolegomeni
ad ogni futura metafisica, per
descrivere il principio di contraddizione su cui si basano tutti i giudizi
analitici a priori, userà il seguente esempio: «Ogni corpo è esteso (ausgedehnt),
e: Nessun corpo è inesteso (unausgedehnt)» (Kant 1783, Prol, AA 04 p. 267;
trad. it. p. 29)[25]. Successivamente nei Principi metafisici della scienza della
natura, differenzierà
proprio le possibilità di conoscere il corpo esteso (ausgedehnt) attraverso
il senso esterno e l’anima pensante attraverso il senso interno. A maggior
ragione questa affermazione di Kant nel saggio del 1766 acquisisce particolare rilievo,
proprio per il carattere apparentemente paradossale di un convincimento che
Kant si ostina, in quella occasione a difendere:
La mia anima, nel modo in cui è presente nello spazio, non differirebbe
dagli elementi della materia, e giacché la facoltà intellettiva è una proprietà
interna, che io non potrei percepire in questi elementi, quand’anche vi si
trovasse in tutti, così non potrebbe essere addotta alcuna buona ragione per
dimostrare che la mia anima non è una delle sostanze che costituiscono la
materia, e che i particolari fenomeni suoi non provengono unicamente dal luogo
che essa occupa in una macchina artificiale qual è il corpo animale, luogo in
cui il congiungersi dei nervi cade propizio per l’interna facoltà di pensare e
volere. Ed allora non si riconoscerebbe più, con sicurezza, una caratteristica
propria dell’anima, che la distinguesse dalla grezza materia prima delle nature
corporee. (Kant 1766, TG, AA 02 p. 326; trad. it. 2000, p. 358)
È molto forte qui l’affermazione di Kant e la sua vicinanza con alcune
affermazioni di Freud sulla corporeità dell’Io – e quanto era fuori strada la
Bonaparte quando lo tacciava di fedeltà al dualismo cartesiano[26]! Noi sappiamo che il Kant della Critica
ridurrà l’importanza attribuita all’esperienza sensoriale (cioè all’esperienza
dei dati sensibili) per valorizzare gli aspetti formali delle possibilità
dell’intelletto, cioè i presupposti per la conoscenza[27].Va anche detto che un secolo di neokantismo
ha finito con estremizzare questa posizione che in Kant era molto più sfumata,
persino nella Critica. Per Kant è l’incontro
tra sensibilità e intelletto a produrre conoscenza;
la mancanza di questo incontro produce effetti sterili: «I pensieri senza
contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche», scrive Kant
all’inizio della Logica Trascendentale nella Critica della ragion pura (Kant 1787, KrV, AA 03, p. 75; trad. it. 1976,
p. 109). Ma negli anni che precedono e che preparano la redazione della Critica, vi è maggiore peso lasciato all’esperienza sensibile rispetto
al tentativo di trovare un «principio interno della mente» (Kant 1770, MSI,
AA 02 p. 393; trad. it. 2000, p. 428). Così lo spazio, dapprima
considerato come il prodotto dell’esperienza del corpo diviene progressivamente
una condizione astratta da sensazioni esterne, non creato da esse, ma da esse
supposto: «La possibilità di percezioni esterne come tali suppone il concetto di spazio, non lo crea». (Kant 1770, MSI, AA 02 p. 402;
trad. it. 2000, p. 440)
Il cambiamento sembra avvenire nel 1769 quando Kant ricevette “la grande
luce” che lo porterà alle formulazioni della Dissertatio che
costituiranno la base di partenza della Critica. Ma la
strada che lo porta alla “grande luce”, che lo condurrà a considerare lo spazio
come una forma dell’intuizione, a priori, è piena della
predeterminazione del corpo.
L’argomento che Kant vuole introdurre è quello degli opposti
incongruenti. Questa geniale intuizione, che per Kant costituisce in
prima battuta la prova schiacciante dell’esistenza di uno spazio assoluto
indipendente dall’esistenza degli oggetti materiali e caso mai condizione per
la loro conoscenza, necessita di una premessa che Kant propone al lettore nel
suo articolo del 1768, Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio[28]:
Nello spazio corporeo, a causa delle sue tre dimensioni, si possono pensare
tre piani che si tagliano tutti tra loro ad angolo retto. Ora siccome tutto ciò
che è fuori di noi è da noi conosciuto coi sensi soltanto in quanto è in relazione
con noi stessi, non è da meravigliarsi se noi prendiamo il primo fondamento per
generare il concetto delle regioni nello spazio, dal rapporto di questi piani
di intersecazione con il nostro corpo. (Kant 1768, GUGR, AA 02, p. 378-379;
trad. it. 2000, p. 412-413)
Kant prosegue poi definendo questi tre piani: uno orizzontale che distingue
fra sopra e sotto, e due verticali: il primo distingue fra
lato destro e sinistro e il secondo fra lato anteriore e posteriore. La
nostra percezione dello spazio è subordinata alla anatomia e all’orientamento
del nostro corpo e financo le più remote regioni dello spazio cosmico sono
determinate in rapporto ai lati del nostro corpo. (Kant 1768, GUGR, AA 02, p. 379;
trad. it. 2000, p. 413). Questa premessa doveva servire a introdurre gli opposti
incongruenti (incongruentes Gegenstück) per dimostrare l’idea
newtoniana dell’esistenza dello spazio assoluto. Di cosa si tratta? Per determinare
con precisione una figura corporea non è sufficiente, secondo Kant, determinare
il rapporto e la posizione reciproca delle parti come accade a due figure
geometriche piane, le quali, se sono uguali fra di loro, si possono sovrapporre
una all’altra. Diversa è la situazione quando si passa alla «estensione corporea»
(körperlichen Ausdehnung). Queste superfici possono essere uguali in
tutto e per tutto, ma così differenti «che i limiti dell’una non possano
coincidere con quelli dell’altra» (Kant 1768, GUGR, AA 02, p. 381 trad. it. 2000,
p. 415). È proprio dal corpo umano che Kant trae l’esempio che servirà a dimostrare
l’esistenza dello spazio indipendentemente dagli oggetti che lo occupano:
Il più comune e lampante esempio noi l’abbiamo nei membri del corpo umano,
che sono ordinati simmetricamente rispetto al piano verticale di esso. La mano
destra è simile ed uguale alla sinistra, ed una compiuta descrizione di una
sola di esse per quanto riguarda e la proporzione e la posizione reciproca
delle parti e la grandezza del tutto, deve anche valere in tutte le sue parti
per l’altra. Un corpo che è completamente uguale e simile ad un altro, sebbene
non possa essere chiuso negli stessi limiti, io lo chiamo il suo opposto incongruente. (Kant 1768, GUGR, AA 02, p. 381-382 trad. it. 2000, p.
415-416)
In sostanza se sovrapponiamo sullo stesso
piano le due mani di un uomo esse, diversamente dalle figure geometriche, non
potranno sovrapporsi l’una all’altra. Da qui ne discende l’esistenza di uno
spazio indipendente dai corpi, cioè uno spazio assoluto originario non oggetto
di sensazione, ma condizione di tutte le possibili sensazioni. Ma questo
spazio indipendente dai corpi è in fin dei conti uno spazio intuibile grazie
alla corporeità del soggetto conoscente, corporeità che definisce modi e forme dell’intuizione
dello spazio. Come afferma Martinello affrontando il saggio kantiano del 1768:
«se il corpo è in grado
di differenziare e organizzare lo spazio sulla base di proprie caratteristiche»,
è «lecito pensare che la stessa spazialità che contraddistingue la nostra
percezione del mondo esterno dipenda per la sua generazione dal fatto che noi
esistiamo come soggetti conoscenti incarnati in un corpo (corsivo mio)»
(Martinello 2011, p. 167).
Lo spazio quindi, lo spazio assoluto che precede ogni esperienza e che
nella Critica verrà definito concetto a priori, diventa
la condizione per quel sentire a cui Kant faceva riferimento come
ipotetico, indeterminato ed esteso luogo, quel ‘da’, dove
momentaneamente si può situare l’Io. È la premessa per quella distinzione tra
facoltà sensitiva e facoltà intellettiva che
Kant proporrà nel ’70 con la Dissertatio, dove l’esempio degli
incongruenti servirà per dimostrare invece come lo spazio sia intuizione pura
priva di realtà oggettiva. Lo stesso esempio verrà utilizzato invece nei Prolegomeni e
nei Principi metafisici della
scienza della natura (1786), per descrivere lo spazio come forma dell’intuizione
sensibile (Scaravelli 1968). Ma se l’esempio viene usato con finalità
differenti, costante rimane negli anni, come fa notare Nuzzo, il legame tra gli
opposti incongruenti e l’asimmetria corporea, «la connessione tra incongruenza
e incorporazione» (2008, p. 26).
Freud e Kant
E qui possiamo tornare a confrontare Freud a Kant. Per Freud le percezioni
possono essere pensate come proiezioni all’esterno di un atto interno di conoscenza.
Va ricordata la distinzione in Kant di una materialità del corpo che può essere
conosciuta attraverso il senso esterno e quella dell’anima attraverso il senso
interno per accorgersi di quanto Freud stia qui utilizzando un linguaggio
kantiano e la sua ipotesi che diverse percezioni possano essere il prodotto di
un’operazione che va dall’interno verso l’esterno sembra trovare alcuni punti
di incontro proprio con il concetto di sensibilità che appare
per la prima volta ne La forma e i
princìpi del mondo sensibile e intelligibile. La sensibilità per Kant è la capacità del soggetto di
essere modificato dalla presenza dell’oggetto e ogni sensazione
altro non è che una specifica modificazione. Questa idea permarrà immutata
anche nei lavori successivi e nella Critica
alla ragion pura ribadirà il concetto scrivendo che «l’unica maniera
in cui gli oggetti ci vengono dati, consiste nella modificazione della nostra
sensibilità» (Kant 1787, KrV, AA 03, p. 135; trad. it. 1976, p. 219), che
sommato al fatto che «noi non conosciamo null’altro se non il nostro modo di percepire
gli oggetti», (Kant 1787, KrV, AA 03, p. 65; trad. it. 1976, p. 97) pone
la facoltà sensitiva in termini estremamente soggettivi, una facoltà che dice
più del soggetto che dell’oggetto, o che dice dell’oggetto attraverso il soggetto.
La vicinanza del pensiero di Freud a questo approccio ci sembra enorme. La conoscenza
è data dalla facoltà del soggetto di entrare in rapporto osmotico con l’oggetto
e di lasciarsene modificare. È chiaro che sia per Kant sia per Freud (diversamente
che per Locke) la sensazione in se stessa non costituisce conoscenza. Perché vi
sia conoscenza c’è bisogno di attenzione, valutazione, giudizio. Le facoltà
dell’intelletto (per il filosofo), o l’inconscio che si fa cosciente (per lo psicoanalista),
sono le condizioni di una vera e propria conoscenza. Come sottolinea Kant la
proposizione «sensu non fallunt» è falsa non perché i sensi non giudichino
giusto, ma perché i sensi non giudicano affatto, non è compito loro, anzi,
possono ingannare, nel senso che possono spingere verso un giudizio erroneo,
come l’apparente moto del sole intorno alla terra. E Freud, dal canto suo, in
una pagina del Compendio dove
parla ancora della sua ipotesi di un «apparato psichico spazialmente
esteso», afferma che per quanto potremo raffinare strumenti artificiali per accrescere
la potenza dei nostri sensi, «la realtà stessa non speriamo neppure di poterla
attingere […], il reale rimarrà per sempre “inconoscibile”» (Freud 1938, p.
196): un ulteriore omaggio al pensiero di Kant.
Conclusioni
L’eredità di Kant per la filosofia e l’epistemologia scientifica e quella
di Freud per la psicologia e la psicoanalisi sono impegnative per chi intende
raccoglierle. L’Ottocento per Kant e il Novecento per Freud sono stati secoli
di grandissima fortuna e il successo, si sa, deforma. Kant è diventato il
filosofo dell’intelletto e del razionalismo, Freud il medico che ha liberato la
psiche dalle pastoie dell’organicismo. Oggi è difficile ricollocarli in una
dimensione più equilibrata, quella originale dei loro testi, dove non esisteva
sensibilità senza ragione, anima senza materia, inconscio senza pulsioni,
psicologico senza biologico, mente senza corpo. ««Io sono là dove io
sento» scrive Kant, l’Io « è prima di ogni altra cosa un Io-corpo» (Freud 1923,
p. 490) gli fa eco Freud un secolo e mezzo dopo: l’eredità di Kant è in
qualche modo passata anche nelle mani di Freud che gli è forse più debitore di
quanto non si sia creduto fino a oggi e di quanto forse non abbia mai pensato
egli stesso: la psicologia trascendentale di Kant si trasforma in psicoanalisi
trascendentale.
Sono partito da una frase apparentemente criptica e oscura di Freud di cui
ho cercato di mettere in luce nodi e connessioni che emergevano da un’analisi
di quel brano e del suo contesto. L’estensione della psiche: un apparente paradosso
che ha il merito di intersecare indissolubilmente corpo e mente senza cadere né
nelle ristrettezze del riduzionismo, né nella mistica del dualismo. L’incessante
tensione generata da queste due polarità è alla base del nostro modo di essere,
di pensare. Ancora una volta, un’ultima volta, Kant ci viene in aiuto con una
sua lezione di antropologia dove, con la libertà che gli è consentita nel
contesto di una lezione universitaria, spiega ai suoi studenti: «La nostra
anima non pensa mai da sola, bensì nel laboratorio del corpo [Laboratorio
des Cörpers], c’è sempre un’armonia tra i due. Così come l’anima pensa, essa
muove il corpo» (corsivo mio) (Kant V-Anth/Collins AA 25, p. 145). L’augurio è
che non si dimentichi che anche il metodo psicoanalitico freudiano, dagli Studi sull’Isteria al Compendio
di Psicoanalisi fino
all’ultimo (speriamo ora meno criptico) aforisma dell’estate del 1938, si
proponeva proprio come un laboratorio del corpo.
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* Questo articolo è una versione leggermente modificata di un saggio pubblicato
originariamente in inglese nel 2018: “‘Psyche is extended’: from Kant to Freud, The International
Journal of Psychoanalysis, 4/2018.
· Centro Studi Martha Harris, Firenze. paolocarignani@gmail.com
[1] Due degli appunti presi da Freud
vennero omessi dalla pubblicazione. Sulle note di Freud vedi Grubrich-Simitis
(1993).
[2] Räumlichkeit mag
die Projektion der Ausdehnung des psychischen Apparats sein. Keine andere
Ableitung wahrscheinlich. Anstatt Kants a priori Bedingungen unseres psychischen Apparats. Psyche ist ausgedehnt, weiß
nichts davon.
[3] Vedi anche Matte Blanco (1975, p. 11);
Askay e Farquhar (2006, p. 376). Chessick lo riporta solo per ricordare che
«non è giusto commentare questa citazione perché è soltanto una breve nota e
non è stata mai sviluppata da Freud. Sebbene non sostenuta da argomentazioni
serve per mostrare quanto fino alla fine l’approccio kantiano fosse presente
nei pensieri di Freud» (Chessick 1980, p. 582).
[4] Vedi Pontalis (1999, p. 5), Funari (2007,
pp. 28-33), Fulgencio (2007). È curioso notare, come segnala D. L. Smith (1999,
p. 12), che Freud pur possedendo una copia dell’Antropologia kantiana
non sembra averla mai letta. In effetti l’unica citazione che Freud fa dell’Antropologia
è ne L’interpretazione dei sogni ed è di seconda mano poiché è tratta
dalla lettura del libro di Radestock (1879), come correttamente segnala nel
testo, anche se Freud cita erroneamente la pagina 84 invece di 164.
[5] La teoria che Freud fosse
fondamentalmente anti-kantiano è stata sostenuta da più parti. Rieff per esempio
scrive: «Nonostante una casuale ammissione che il suo lavoro abbia continuato e
completato l’epistemologia kantiana, Freud era radicalmente anti-kantiano: non
ha nessuna teoria delle forme della
mente» (Rieff 1959, p. 51). Wolman sottolinea come Freud «si opponeva alla filosofia
idealista tedesca di Kant» (Wolman 1968, p. 95). Anche Kaufmann lo disegna come
“poetico”, “antiaccademico”, «goethiano e profondamente anti-kantiano» (Kaufmann
1980, p. 79).
[6] A un rapido - ed inevitabilmente sommario -
controllo sulle traduzioni di questa frase nelle principali lingue, essa
risulta tradotta sempre nello stesso modo, in inglese, francese, spagnolo,
portoghese e italiano. Sono riuscito a trovare solo una traduzione spagnola di
López Ballesteros («En lugar del a priori
kantiano, las condiciones de nuestro aparato psíquico») e una in Lussemburgo in lingua francese di
T. Simonelli, («Au lieu
de l’a priori de Kant, les conditions de notre appareil
psychique»), che
traducono la frase in maniera simile a quella che propongo.
[7] La lettera è stata segnalata sia da
Fell, in un articolo dal suggestivo titolo Was Freud a follower of Kant? (1976,
p. 116) che, l’anno dopo, da D.B. Klein, in un paragrafo dal titolo simile Was
Freud influenced by Kant? (1977, p. 104) come un esplicito
riferimento di Freud a Kant, ma senza metterla in connessione con la nota del
giorno dopo. La contiguità tra la lettera e la nota di Freud era stata riconosciuta
da DL Smith (1999, p. 193), che definisce la nota «apparentemente ispirata dalla
corrispondenza con la Bonaparte». Più recentemente Askay e Farquhar commentano
questa lettera sottolineando come «spazio e tempo sono concepiti da Freud come
proiezioni del funzionamento del nostro apparato mentale» e poi in nota
riportano per intero l’aforisma del giorno dopo senza segnalarne la contiguità
temporale e ammettendo di non sapere come interpretarlo (Askay e Farquhar 2006,
pp. 49 e 376).
[8] Che sia passata una notte non è certo. Se
seguiamo le informazioni presenti nel libro di
Kelly Noel-Smith, Freud on Time
and Timelessness, scopriamo la seguente
informazione: la lettera di Freud, citata parzialmente da Jones, è stata da
quest’ultimo erroneamente datata al 21 agosto, mentre la data effettiva sarebbe
il 22 agosto, quindi in realtà lo stesso giorno della nota. Tale notizia proviene
da Leonard Bruno, ex responsabile della Sezione dei Manoscritti alla Biblioteca
del Congresso a Washington, dove si trova l’originale della lettera (Noel-Smith
2016, p. 73). Questa informazione, se confermata, rafforzerebbe la connessione
tra la nota e la lettera. Il legame tra l’aforisma di Freud e il dialogo con Marie
Bonaparte viene molto bene individuato da Noel-Smith, che non rileva però la stretta
contiguità temporale fra i due.
[9] Questo passaggio ci permette di risolvere un
dubbio sollevato sia da Christopher Watkin (2014), che da Naomi Segal (2016, p.
273) – la traduttrice inglese di un libro di Anzieu – i quali, in
riferimento all’aforisma di Freud, fanno notare che weiß nel
testo tedesco è ambiguo perché può essere sia prima che terza persona singolare
e la frase potrebbe benissimo essere tradotta “La psiche è estesa; io non
ne so nulla”, come fosse una dichiarazione di ignoranza di Freud e non
una ignoranza della psiche stessa. Questo passaggio (come altri, in altri luoghi)
parrebbe fugare ogni dubbio: la negazione di uno spazio psichico interno causa
il limite della nostra conoscenza dell’estensione della psiche, confermando in
tal modo la validità della traduzione di Strachey e di quelle successive.
[10] Hartocollis risolve invece questa ignoranza
della psiche assimilandola all’inconscio – «per “psiche” Freud intende il regno
dell’inconscio, quella parte dell’apparato psichico che “di ciò non sa nulla”»
(Hartocollis 2006, p. 134) – il quale ignora le categorie kantiane di spazio e
tempo. C’è però un precedente nei testi di Freud che andrebbe accostato a
questa “ignoranza della psiche” e che contraddice l’ipotesi di Hartocollis. Nel
Progetto del 1895 Freud scriveva, già
allora, che «ogni teoria psicologica, oltre alle esigenze che deve soddisfare
dal punto di vista della scienza naturale, ha da rispondere a un altro grande
requisito. Deve spiegarci ciò che conosciamo, in maniera oltremodo enigmatica,
attraverso la nostra “coscienza”; e poiché questa coscienza non sa nulla di ciò
che noi abbiamo sin qui supposto, cioè quantità e neuroni, deve anche spiegarci
questo non sapere» (Freud 1895, pp. 213). È quindi la coscienza stessa - non la
psiche inconscia - a ignorare la sua estensione, il suo essere corpo, il suo
essere «quantità e neuroni». Nancy problematizza questa ignoranza fino a renderla
la corporeità stessa di Psiche: «Questa non-conoscenza è il vero corpo di
Psiche, o piuttosto, è il corpo che Psiche stessa è. Questa non-conoscenza non è il negativo della conoscenza o la negazione
della conoscenza; è semplicemente l’assenza della conoscenza, l’assenza della vera
relazione di conoscenza, qualsiasi sia il suo contenuto. Usando un certo vocabolario
uno potrebbe dire: la conoscenza vuole un oggetto, ma con i corpi c’è solo
soggetto; con i corpi ci sono solo soggetti. Ma si potrebbe dire che in assenza
di un oggetto non c’è né soggetto né terreno trascendentale, e ciò che rimane è
precisamente il corpo, corpi. Il “corpo”
è fatto per non avere nessun oggetto».
(Nancy 1993, p. 199).
[11] Apparentemente Derrida
non conosce questo dialogo, ma sembra averne intuito il contenuto dall’aforisma
di Freud. Egli scrive: «E quando Kant, questa volta nella Critica della
Ragion pura e non nell’Antropologia, dichiara che “la rappresentazione
dello spazio (die Vorstellung des Raumes) non si può prendere a prestito,
mediante l’esperienza, dai rapporti dell’apparenza esterna, [al contrario]
questa esperienza esterna è essa stessa possibile solo mediante la suddetta
rappresentazione. Lo spazio è una necessaria rappresentazione a priori che
sta alla base di tutte le rappresentazioni esterne” [Kant 1787, KrV, AA 03, p. 52; trad. it. 1976, p. 79], non annuncia di fatto certi argomenti di
Freud? Quest’ultimo, a sua volta, non è più docile di quel che sembra alla
logica d’una ‘esposizione’ (Erörterung) “metafisica” poi “trascendentale”
del concetto di spazio? Freud non conferma che “l’intuizione pura [qui dello spazio]
deve trovarsi in noi a priori ,cioè prima di qualsiasi percezione di un
oggetto” e che di conseguenza “deve essere un’intuizione pura, non empirica”? [Kant 1787, KrV, AA 03, p. 54; trad. it. 1976, p. 81]» (Derrida
2000, p. 65).
[12] Annette Laget suppone che questo sia il
testo di una lettera di Freud a Marie Bonaparte, ma a quanto mi risulta dovrebbe
invece fare sempre parte del dialogo avuto con lei verso la fine del 1938 (Laget
1995, p. 45).
[13] Lettera a Fliess del 27 Aprile 1895 (Freud
1985, p. 153).
[14] A proposito del localizzazionismo
‘stretto’ o ‘ben temperato’ in Freud cfr. Napolitano (2010).
[15] Vale la pena citare il passo di Freud
nella lettera a Groddeck perché rende l’idea di quanto egli rifiutasse le estremizzazioni
del pensiero, in questo caso un’eccessiva riduzione dell’autonomia dello
psichico: «Mi sembra non meno temerario dare un’anima a tutta la natura che ridurre
tutto all’inanimato. Lasciamole dunque la sua grandiosa molteplicità, che si
estende dal mondo inanimato al mondo organico animato, dalla vita fisica a quella
psichica. Certamente l’Ubw [l’Inconscio] è il giusto tramite tra il fisico e lo
psichico, forse il tanto a lungo cercato missing
link» (Groddeck 1976, p. 18).
[16] Non è dello
stesso avviso Spillers che indagando il concetto di spazio nell’opera letteraria
di Faulkner parte proprio dall’aforisma di Freud e confrontandolo con la Critica della ragion pura ne segnala il
rovesciamento di prospettiva. Spillers parte proprio dalla proposta di
Laplanche e Pontalis che vede Freud in contrasto con Kant e per sottolinearne
le differenze sceglie proprio il confronto con il maggior testo kantiano (Spillers 2004, pp.
539-45).
[17] Come scrisse nel 1862 lo storico
della filosofia Kuno Fisher: «Non c’è alcun esimio pensatore del tempo di Kant
la cui dottrina non abbia fatto i conti con quella kantiana; nessuna che,
attraverso uno sviluppo o una contrapposizione, non fosse derivata da questa;
nessun pensatore che non abbia voluto addurre una prova del fatto che la
dottrina kantiana, correttamente intesa e autonomamente giudicata, portava
direttamente alla propria» (cit. in Bona-Meyer 1870, p. 41). Crediamo che in parte
questo pensiero possa essere adattato anche per la Vienna fin de siècle. Il
grido di battaglia lanciato da Liebmann nel 1865 «Zurück zu Kant!» (Torniamo a
Kant!) costituisce idealmente la nascita del neo-kantismo che impregnerà la
cultura scientifica tedesca della seconda metà del XIX secolo (Liebmann 1865).
[18] Fra questi vale la pena di citare
oltre al citato saggio di Brook (1988), anche un altro di Brook (2003) e quelli
di Scarpellini (1962), Fell (1976), Fulgencio (2001), Loparic (2003). P.-L.
Assoun (1976) dedica un capitolo del suo libro all’attenzione di Freud a Kant e
un paragrafo a Freud lettore di Kant. Cita due volte l’aforisma del 1938, senza
però analizzarlo. Unica eccezione mi sembrano gli studi recenti di Tauber
(2009, 2010, 2013), primo serio tentativo di valutazione del debito della
psicoanalisi nei confronti del pensiero kantiano. Egli dedica, tra l’altro, un
intero paragrafo di un suo libro alla comprensione di Kant Freud’s understanding
of Kant (Tauber 2010, pp. 117-25). Merita di essere ricordato che il
capostipite degli studi dei rapporti di Freud con Kant fu Adorno che presentò
nel 1924, Freud dunque ancora vivo, la sua Habilitationschrift, dal
titolo Il concetto dell’inconscio nella teoria trascendentale della mente.
Come segno premonitore della scarsa fortuna che incontrerà questo filone di studi
va segnalato che la tesi di Adorno fu rifiutata ed egli ottenne la qualifica
solo sette anni più tardi con una tesi sull’estetica in Kierkegaard (Adorno 1926).
[19] Possiamo solo ricordare l’ingenua
domanda posta da Freud al filosofo e psicologo svizzero Häberlin nel maggio
1913 se l’inconscio e la cosa-in-sè kantiana non fossero in fondo la stessa cosa
(Freud-Binswanger 1992, p. 237).
[20] Trovo condivisibili le critiche di
Moroncini ad Assoun che legge invece Freud in chiave schopenhaueriana (vedi
Moroncini 2006, pp. 577-578 e Assoun 1976, pp. 218-250). Vi è una tradizione
psicoanalitica che ama contrapporre Kant a Goethe, tra cui come abbiamo visto
Kaufmann. Come segnalato da Tauber (Tauber 2009, p. 22, fn. 7) il debito di
Goethe nei confronti di Kant è riconosciuto da Goethe stesso.
[21] Come scrive lo studioso kantiano,
Otte «la cosiddetta opera precritica di Kant costituisce la più ricca e fortemente
polemica filosofia del corpo nell’Illuminismo» (cit. in Bochicchio 2006).
[22] Non è mia intenzione inoltrarmi in questo
campo di studi oltre quello che è necessario ai fini di questo lavoro. Per
approfondimenti sul rapporto tra anima e corpo in Kant vorrei segnalare alcuni
testi recenti: Meld Shell (1996), Carpenter (1998), Bochicchio (2006), Svare
(2006), Fabbrizi (2008), Nuzzo (2008).
[23] Qui lo psicoanalista si distingue dal
filosofo. Mentre Freud indaga l’area di confine tra corpo e mente e cerca di descriverne
il funzionamento e le leggi interne, attraverso concetti come quello di pulsione,
di Es e di inconscio, Kant invece definisce l’«indagine sul modo in cui gli
organi del corpo stanno in collegamento con i pensieri» come «sottile, e […]
sempre vana» (Kant lettera a Marcus Herz della fine del 1773, Br, AA 10, p.145;
trad. it. 1990, p. 78). Kant vuole descrivere i limiti della conoscenza, fino a
definire la metafisica come «scienza dei limiti della ragione umana» i cui
dubbi «non eliminano la certezza utile, ma quella inutile» (Kant 1764c., AA 20,
p. 181; trad. it. 2001, p. 245). E qui la certezza inutile potrebbe essere proprio
l’ambizione di conoscere il luogo di incontro tra anima e corpo.
[24] Nuzzo, attraverso Derrida, sembra
riconoscere la connessione fra l’aforisma di Freud e il testo kantiano dei Sogni,
ma curiosamente accosta l’aforisma di Freud al pensiero di Swedenborg piuttosto
che a quello di Kant, pur non fornendo spiegazioni della sua idea (Nuzzo 2008,
p. 316).
[25] L’idea che l’anima potesse essere
estesa nel corpo aveva già precedenti nell’Illuminismo francese. La Mettrie
aveva dedicato un intero paragrafo della sua Histoire naturelle de l’âme
a questo tema con argomenti molto vicini a quelli sollevati da Kant. Il paragrafo
intitolato De l’étendue de l’âme si conclude così: «In effetti, dov’è la
vostra anima quando l’odorato le trasmette gli odori che le piacciono o le dispiacciono
se non in quelle pieghe da cui i nervi olfattivi traggono la loro origine? E
dov’è l’anima quando percepisce con piacere un bel cielo o una bella
prospettiva se non nelle pieghe ottiche? Analogamente, per sentire, bisogna che
essa si trovi là dove nasce il nervo auditivo, ecc. Tutto prova dunque che quel
campanello al quale abbiamo paragonato l’anima per darne un'idea sensibile si trova
in parecchi luoghi del cervello, giacché esso è realmente colpito da parecchie
parti. Non voglio dire con questo che esistano parecchie anime; indubbiamente
ne basta una sola che abbia l’estensione di quella sede midollare che
l’esperienza ci ha obbligato a concederle. Essa basta, voglio dire, per agire,
sentire e pensare tanto quanto le è permesso dagli organi» (La Mettrie 1745, p.
88).
[26] La distanza dal pensiero cartesiano
era stata ben compresa invece dall’abate Albertino Bellenghi che, a nome della
sacra Congregazione dell’Indice scrisse un testo di censura che comportò il
ritiro della traduzione italiana della Critica
della ragion pura l’11 giugno 1827. In questo testo Kant viene censurato anche
a causa della sua opinione che l’anima per conoscere abbia bisogno dei sensi
(Tolomio 1999).
[27] Va comunque ricordato che, come
risulta da due lettere del 7 giugno 1771 e del 21 febbraio 1772 a Marcus Herz,
inizialmente Kant avrebbe voluto intitolare il suo libro più famoso I limiti
della sensibilità e della ragione, poiché lo scopo principale con cui aveva
cominciato la stesura della Critica
era proprio quello di descrivere tali limiti (Kant Br, AA 10, pp. 123 e 130;
trad. it. 1990, pp. 62 e 64).
[28] Questo saggio è contenuto nei Kleinere
Schriften zur Naturphilosophie acquistati da Freud nel 1882 e conservati
nella sua biblioteca.