Inchiesta sulla kantiana
«Gesetzlichkeit des Zufälligen»
Investigation
into the Kantian «Gesetzlichkeit des Zufälligen»
Chiara Magni·
Università
di Roma Tre–Università di Roma “Tor Vergata”, Italia
Recensione
di: Failla, Mariannina, Sánchez Madrid, Nuria (eds.), Le
radici del senso. Un commentario sistematico della «Critica del
Giudizio». Las raíces del sentido. Un comentario sistemático de la «Crítica del
Juicio», Madrid, Ediciones Alamanda, 2019, pp. 580. ISBN: 978-84-949436-2-1
Il volume Le radici del senso. Un commentario
sistematico della “Critica del giudizio” nasce da un seminario
internazionale svoltosi all’Università degli Studi di Roma Tre nell’aprile del
2017 dedicato al commento della Kritik
der Urteilskraft (KU). L’opera si sviluppa attraverso un’accurata
‘divisione del lavoro’ tale da ripercorrere con grande dovizia tutti i
paragrafi che costituiscono la terza Critica
kantiana.
L’intento di fondo è
quello di restituire la natura intimamente feconda di questo classico del
pensiero moderno, attraverso un’attività critica scrupolosa, la quale si
riflette, oltre che nell’ampiezza del volume, anche e soprattutto nella natura
plurivoca dei contributi. Quest’ultima è testimoniata in primo luogo dalle
differenti lingue in cui il volume è scritto, elemento che restituisce il
chiaro impegno di curatrici e autori a consolidare il dialogo tra scuole e
ambienti culturali diversi, che nulla toglie a una resa ‘sistematica’
dell’opera kantiana. Come indicato nell’Introduzione
(pp. 7-12), la varietà e la novità delle prospettive presentate può essere
colta dal lettore «seguendo almeno tre tracce di lettura» (p. 8): (i) la prima
consiste nel mettere a fuoco la peculiarità del rapporto tra le facoltà della
sensibilità e dell’intelletto implicito nel Giudizio, per rispondere alla richiesta
di ragione che il loro accordo sollecita; (ii) la seconda si propone di
evidenziare la natura intimamente dinamica
del Giudizio, che gli permette di fare da ‘ponte’ tra i mondi – altrimenti
scissi – della natura e della morale (iii) la terza, infine – allargando lo
sguardo sino all’universo della ‘cultura’ –, consente di apprezzare il compito ‘sociale’
assolto dal Giudizio, grazie all’universale ‘comunicabilità’ del sentire e
all’educazione alla sublimità spirituale.
Ogni contributo, poi,
funge, oltre che da importante strumento critico ed esegetico, anche da
prezioso inventario bibliografico per il personale faccia a faccia del lettore
con la KU: in particolare, i numerosi riferimenti alla letteratura secondaria (dai
testi più classici, fino agli apporti più recenti) sono accuratamente
contestualizzati all’interno di ciascuna sezione, in modo che anche il lettore
interessato ad approfondire tematiche specifiche possa usufruirne agevolmente.
I primi due contributi
sono dedicati alle sezioni introduttive alla KU: Nuria Sanchez Madrid si occupa
del ruolo e del significato – nonché della problematicità – delle Introduzioni kantiane (pp. 13-30), che constano della prima Introduzione, mai
pubblicata da Kant, e della Einleitung
alla KU (nella sua stesura definitiva); Silvana Borutti,
invece, conduce più nello specifico un “commentaire
suivi” della seconda (pp. 31-48).
L’espressione che
compare nel titolo del lavoro di apertura di Madrid – “Luminose tenebre” – è
una felice testimonianza del significato che la terza Critica assume, secondo l’autrice, nel complesso del sistema
kantiano, e di cui le Introduzioni
esibiscono la portata: essa risiede nella scoperta di una capacità di giudizio
«fiduciosa nelle proprie forze» (p. 18), che non silenzia le proprie “radici
emozionali” – al fine di guadagnare l’imparzialità di un ipotetico sguardo
neutrale –, ma fa del rapporto tra la ragione e la vita la fucina di una nuova
soggettività trascendentale. Il Soggetto della KU, infatti, accede a un’«unità
ermeneutica» (p. 17) atta a far fronte a quelle “diversità specifiche” che
renderebbero altrimenti impossibile qualunque “legalità del contingente” –
qualunque linneano «sistema della natura» (EEKU, AA XX) –, e che rinviene nella
“soddisfazione” il proprio criterio di validità. Se tale piacere non ha bisogno di sottomettersi ad alcuna forma
concettuale, non è nemmeno confinato nello spazio di un «egoismo philautistico» (p. 28): esso risiede,
piuttosto, nella propria «comunicabilità» (p. 30), che apre alla possibilità di
una ‘comunità di senso’. Da questo punto di vista, Kant svincola la capacità di
giudizio da qualunque psicologismo, e ne fa il fondamento di una vera e propria
anthropologia trascendentalis.
Il secondo contributo
offre un’analisi puntuale della Einleitung alla KU (§§ I-VIII), in cui Borutti
si propone di mettere in risalto il carattere processuale della capacità di
giudizio, irriducibile a semplice termine medio. L’Introduzione, infatti, si interroga sulla possibilità di “forme di
regolarità” in un territorio (Boden) senza dominio (Gebiet)
funzionale a un’«unificazione del soggetto di senso» (p. 33), che ora non si
rivolge più all’esperienza possibile,
bensì a quella effettiva. Tale
questione trova il suo punto di avvio nella cruciale distinzione tra giudizio determinante – dove il particolare è
sussunto sotto la regola universale data – e giudizio riflettente, che trova la regola generale per il particolare senza
essere guidato da leggi, ma servendosi di principi che dà a se
stesso, esibendo così la propria «eautonomia» (p. 38;
KU, AA 05: 185.37. 41). L’autrice, infine, evidenzia come la scoperta di un
principio regolativo – e dunque non costitutivo e/o determinante –
risponda a un bisogno di “orientamento” nel mondo che presenta, oltre all’elemento
pragmatico, anche un elemento dinamico/immaginativo,
rinvenibile nella forma del “come se”.
I due contributi
successivi sono rivolti all’esame dell’Analitica del bello (§§ 1-22); nello
specifico, Silvia di Sanza (pp. 49-86) analizza il Primo e il Secondo momento
del giudizio di gusto (§§ 1-5; §§ 6-9), mentre Matías Oroño (pp. 87-108) si dedica al
commento del Terzo e del Quarto momento del giudizio di gusto (§§ 10-17; §§
18-22).
Nel suo contributo, Di Sanza sottolinea come
l’analisi di Kant sia diretta non all’oggetto, bensì al suo giudizio: la
bellezza, in questo senso, non è un segno oggettivo
dell’oggetto, ma il risultato di una stima fatta dalla facoltà di giudizio
estetico, che è una facoltà fondamentalmente riflessiva. A riprova di ciò, viene rimarcata la scelta kantiana di
prendere come guida – per l’analisi dei giudizi estetici – la tavola delle
funzioni logiche dei giudizi, già stabilita nella Critica della ragion pura; tuttavia, Di Sanza rileva come in questo
caso si parta dalla qualità e non
dalla quantità, e associa tale ‘inversione di priorità’ alla necessità di
stabilire, per essi, un «título englobante» (p. 54), che chiarisca in generale
il rapporto di questo tipo speciale di giudizio con la “comprensione” ma non con la conoscenza. Viene dunque
analizzata la Qualität che
contraddistingue i giudizi estetici nel Primo e nel Secondo momento del
giudizio di gusto, ovvero il fatto di essere “senza interesse” e “senza
concetto”: l’autrice mette in evidenza come il carattere
affermativo dei giudizi estetici sia determinato negativamente, elemento che
riflette la loro natura essenzialmente “libera”, la quale rinviene proprio nel “libero gioco delle facoltà” «el resultado
positivo que instaura el
camino intermedio entre mera sensibilidad
y la pura inteligibilidad» (p. 81).
Matías Oroño esamina il Terzo e il Quarto momento
dei giudizi di gusto, il primo dei quali viene sviluppato da Kant tramite la
categoria di causalità, messa in relazione con la nozione di “finalità”. Oroño
affronta l’apparente contraddittorietà che le due definizioni kantiane di
‘finalità’ sembrano produrre – invertendo il rapporto di priorità tra causa ed
effetto –, e individua nell’idea di “rappresentazione” (Vorstellung) la strada per oltrepassare tale difficoltà: è la rappresentazione del fine – non il fine stesso – a fungere da determinazione per il concetto che sarà causa dell’effetto. Dopo
aver posto la fondamentale distinzione tra giudizi estetici puri e empirici,
viene analizzata la nozione di Zweckmäßigkeit ohne
Zweck, che permette
non solo di svincolare il giudizio estetico dal concetto di utilità, ma anche
di istituire una differenza fra giudizio estetico puro e «juicio
de gusto intelectualizado (no puro)» (p. 100): se il
primo è legato a una forma di bellezza libera,
il secondo è espressione di una “bellezza aderente”
a un’Idea. L’autore, infine, si rivolge al commento del Quarto e ultimo momento
dell’Analitica del bello, incentrato
sulla “modalità” del giudizio di gusto: essa coincide con una necessità
soltanto esemplare – rappresentata
“come se” fosse oggettiva – della pretesa
di un’aderenza universale.
I contributi di
Mariannina Failla e Paolo D’Angelo sono consacrati all’Analitica del sublime, e
si occupano, rispettivamente, del passaggio dal bello al sublime (pp. 109-134),
e della distinzione tra sublime matematico e sublime dinamico (pp. 135-156).
Failla, mostrate le
affinità che i giudizi sul bello e sul sublime condividono, mette in evidenza
il ruolo che questi ultimi assolvono nel portare a compimento ciò che era stato
solo preparato dal bello (in modo
simbolico). Tale evoluzione è rintracciabile, in primo luogo, nell’intima
affinità che lega il sublime alla morale, e che, a differenza del bello – il
quale si rapportava solo analogicamente
al buono –, ravvisa il proprio termine medio nella natura soprasensibile dell’uomo. In secondo luogo, il sublime porta alle
estreme conseguenze quella rinuncia a determinare l’oggettività degli oggetti
già caratteristica dei giudizi del bello, che intrattenevano ancora una relazione
– un “accordo” – con la loro forma: con il sentimento del sublime, infatti,
cade anche quest’ultimo ancoraggio, e si schiude l’esperienza
dell’incommensurabile. Eloquente, a tal proposito, l’opposizione tra Form e formlos: la «negatività lato
objecti» (p. 124), dice Failla, potrebbe far pensare a una «povertà lato objecti» (p. 125) – poiché
dell’oggetto non rimane più nemmeno l’accordo alla sua forma; al contrario,
tale carenza è proprio quella che consente un «potenziamento lato subjecti» (Ibid.), rintracciabile nella pienezza dell’uso finalistico del
giudizio. Per l’autrice, del resto, è evidente come il sublime non sia una mera
appendice del bello, ma il suo compimento: tale ‘realizzazione’ si gioca tutta
intorno alla nozione di limite, e
consiste nello «smascherare» (p. 132) la serietà dei sentimenti di dolore e
spaesamento – ma anche di pericolo – che il soggetto prova difronte al formlos, per sentirsi infine ‘al sicuro’
grazie alla potenza morale del proprio sé – un tipo di «autoconservazione» (p.
133) la cui genesi risiede nella natura intelligibile dell’uomo, sottratta a
qualunque umiliazione.
Il contributo di Paolo
D’Angelo chiarisce la distinzione kantiana tra il sublime matematico e quello
dinamico, che si sovrappone – come nell’analisi dei giudizi estetici puri –
alle categorie utilizzate nell’analisi dei giudizi logici: l’autore riporta
l’attenzione del lettore su una nuova inversione operata da Kant tra qualità e
quantità – la quale ripristina così l’ordine presentato nella Ragione pura –, giustificata
dall’assenza di forma che contraddistingue i giudizi sul sublime rispetto a
quelli sul bello. Dopo alcune considerazioni preliminari sulla portata
dell’attenzione che Kant rivolge al sublime, D’Angelo rileva le differenze che
sussistono tra il sublime matematico e quello dinamico – il primo legato alla
grandezza (Größe),
il secondo alla potenza (Macht).
Rispetto al sublime matematico, l’autore si concentra in particolare sulla
distinzione tra ‘valutazione matematica’ e ‘valutazione estetica’: la peculiarità
della seconda, infatti, risiede proprio in quell’‘esposizione’ al limite che l’illimitato impone alla
misurazione, e che è all’origine di quella «paradossale natura del sublime,
come piacere che nasce dal dispiacere» (p. 148). Rispetto al sublime dinamico,
invece, la sua attenzione è rivolta all’analisi della relazione tra il timore
suscitato dalla potenza della natura e l’attivazione del sublime, che ha nel
sentimento di “sicurezza” il proprio vincolo. D’Angelo, infine, considera la
prossimità della trattazione kantiana del sublime con i temi dell’etica, in
ragione dell’importanza che tale tematica ha assunto recentemente per la Kant-Forschung.
Guido Frilli e Anselmo
Aportone si occupano dell’analisi della Deduzione dei giudizi estetici puri; nello
specifico – rispettivamente – dei §§ 30-34 (pp. 157-180) e 35-40 (pp. 181-222).
Frilli mette in luce
la valenza introduttiva e preparatoria assegnata da Kant ai paragrafi che si
accinge a commentare, nonché le particolari insidie interpretative che essi
comportano: per un verso, infatti, Kant sembra ripetere argomenti già trattati
nei paragrafi precedenti, per altro verso tali tematiche vengono rielaborate
sulla base di un nuovo proposito filosofico. L’autore sottolinea in particolare
come la deduzione del giudizio estetico puro vada intesa nel rigoroso senso trascendentale proprio delle deduzioni
delle categorie pure in KrV e dei principi della
ragione pura pratica in KpV, ovvero come prova della
sua natura a priori. Rispetto alla peculiarità del giudizio
di gusto, viene rimarcato come esso non ambisca all’assoluta validità
oggettiva, ma all’universalità soggettiva del consenso di ognuno: in tal senso,
Frilli insiste soprattutto sulla natura estetica
– e non logico-proposizionale – della
sintesi a priori che contraddistingue questa forma peculiare di giudizio.
Infine, viene rilevato come validità trascendentale e “questione empirica”
della correttezza dei giudizi singolari non possano essere coestensive: la
deduzione, dunque, non illustra alcun principio oggettivo del gusto. Ciò, tuttavia, non significa abbandonare
l’estetica al relativismo: il quadro formale-soggettivo di tali giudizi,
infatti, può fungere da ausilio per la riflessione su comuni esempi formativi e per un’empirica “coltivazione estetica” del
soggetto.
Anselmo Aportone
prosegue l’analisi della Deduzione dei giudizi estetici puri, evidenziando come
il § 35 sia il luogo in cui il principio di gusto viene definito come principio
soggettivo della facoltà di giudizio
solo per contrasto con l’oggettività
dei giudizi logici. L’autore mette in evidenza come qui Kant descriva solo un quid facti, senza che sia ancora stato acquisito
il relativo quid iuris, ovvero la
giustificazione della pretesa di validità universale di detti principi. Essa verrà
enunciata solo nel § 38, che tira le fila delle considerazioni precedenti – il
compito della deduzione dei giudizi di gusto (§ 36) e il tipo di ‘a priori’ che
contraddistingue il giudizio di gusto (§ 37). Di tale deduzione – per l’importanza
che essa riveste nell’economia dell’opera – Aportone fa ampio commento,
seguendo scrupolosamente la lettera del testo, e integrando sia la nota
kantiana a piè di pagina, che l’Anmerkung.
I §§ 39 e 40, infine, sono presentati dall’autore come i paragrafi che
«iniziano ad ampliare l’orizzonte della critica alla facoltà estetica di
giudizio oltre la dimensione del giudizio estetico puro» (p. 213), in virtù del
significato che essi rivestono per la critica della facoltà conoscitiva in
generale.
Seguono i contributi
di Francesca Iannelli (pp. 223-244) e Serena Feloj (pp. 245-262), in cui
vengono affrontati i paragrafi della KU dedicati a una teoria dell’arte (§§
41-54).
Iannelli, in
particolare, si concentra sulla «virata prospettica notevole» (p. 226) che ci
conduce alla trattazione della “controversa” figura del genio, la cui unicità e
imperscrutabilità, per Kant, sono in aperto contrasto con la più ‘sicura’
linearità della scienza. È proprio qui che l’autrice insinua l’idea di una
«riflessione potenzialmente de-costruttrice della filosofia della
comunicabilità universale kantiana» (p. 232), che sembra orientata a esacerbare
la rapida svolta – operata dal filosofo – dall’analisi della fruizione (degli
spettatori) a quella della produzione (dell’attore). Del resto, la «significativa
azione mitigante dell’esuberanza geniale» (p. 234) – testimoniata dalla
‘rivincita’ teorica della facoltà giudicatrice su quella produttrice – viene
interpretata da Iannelli come un atteggiamento di «prudenza speculativa» (p.
235) verso questa figura a tratti contraddittoria che è il genio, in cui
l’autrice – riprendendo l’analisi di Arendt –, scorge in filigrana la controfigura
del rivoluzionario. La frammentarietà
della trattazione kantiana della figura del genio, poi, viene avallata da un
ulteriore ribaltamento, rinvenibile nella riabilitazione ‘morale’ del genio
come colui che testimonia artisticamente del soprasensibile.
Feloj rinviene nella
distinzione tra arte e natura – esposta da Kant nei §§ 46-47 –, il punto di
partenza per avviare l’esame del concetto di “arte bella”, che occupa i §§
48-54. Nello specifico, viene messa in luce la tensione tra la valenza non-mimetica dell’arte – essa, infatti, non può ridursi a mero inganno –, e l’illusione che invece deve produrre nello spettatore, e che Feloj contestualizza
nel panorama della Illusionstheorie
del XVIII secolo. A ciò è connessa la questione della perfezione dell’arte, che per risultare “bella” – in qualità di «rappresentazione bella» (p. 252) e non di
semplice cosa bella (la natura) –, necessita
di aderire ad un concetto, a un
dover-essere, rinvenibile però in una “finalità libera da fini”. Ciò introduce la
questione dei ‘limiti’ dell’arte, in cui rientra – coerentemente alla
tradizione estetica coeva – il tema del disgusto: esso è circoscritto da Kant all’esperienza
di una «controfinalità» (p. 258) a cui non ci si può sottrarre, e che rinviene
proprio in questa “imposizione” il cortocircuito di ogni libera attività
rappresentativa.
A seguire, Francesca
Menegoni si occupa dell’analisi della Dialettica del giudizio estetico (pp.
263-275), mentre Sandra Viviana Palermo esamina i paragrafi dell’Analitica
della capacità di giudizio teleologica (pp. 285-310).
Il contributo di
Menegoni chiude il lungo cammino dell’analisi kantiana sulla capacità di
giudizio estetica. A fronte della speculare trattazione nella seconda parte
dell’opera, la Dialettica del giudizio estetico, e – soprattutto –, la sua
Appendice, risultano decisamente brevi; il loro significato, tuttavia – rileva
l’autrice –, va ben oltre gli specifici temi trattati. Dopo aver analizzato le
peculiarità dell’antinomia del gusto, Menegoni si dedica infatti alla messa in
rilievo degli aspetti ‘sconfinanti’ la regione della Dialettica, ma convergenti
in quella “Gültigkeit für jedermann”
filo conduttore di tutta la terza Critica,
che ne riverbera l’interno dinamismo; essi consistono: (i) nel valore pubblico del giudizio di gusto – una
specie di «allgemeine Stimme» (p.
271) che permette un’unificazione dei giudicanti sulla scorta di un comune modo di sentire, e che è alla
base della «disposizione al confronto pubblico» (p. 273); (ii) nella portata
etico/morale di un «sensus communis aestheticus»
(Ibid.), ovvero nella funzione
propedeutica che il gusto assume nei confronti di un’‘educazione estetica’ del
soggetto, accuratamente distinta dal bene; (iii) e, infine – attraverso «una
sorta di circolarità» (p. 281) –, nella capacità propria del giudizio in
questione di favorire l’instaurarsi dell’habitus
morale, grazie a quell’esperienza della libertà costitutiva di tutto il
percorso estetico.
Palermo dedica il suo
contributo all’analisi dell’Analitica della capacità di giudizio teleologica, introducendoci
così alla seconda parte della critica della KU. L’autrice mette in evidenza i
nerbi teorici attorno ai quali Kant elabora la propria teoria degli esseri
viventi, a partire dalla tensione inerente al concetto kantiano di Naturzweck: esso
viene esplicitato come causalità reciproca – biunivoca – di tutto e parte, dove
l’esigenza di un agente causale esterno
è irresolubilmente legata alla sua esclusione
– aspetto che consente di porre la distinzione tra
prodotto naturale e prodotto dell’arte. Palermo rileva anche un’altra tensione
in seno a questi paragrafi: se Kant dichiara inesistente il concetto di qualcosa
che è di sé stessa causa e
effetto, lo definisce tuttavia un concetto non-contraddittorio.
A questo punto, però, Kant deve misurarsi con la natura dell’intelletto
discorsivo, che lo costringe a fondare tale ‘non-contraddittorietà’ sulla
comprensione “analogica” o “finzionale” del Naturzweck. L’autrice
evidenzia così lo slittamento operato da Kant dall’oggetto al soggetto di
conoscenza: in questo senso, è la peculiarità del nostro intelletto che, da un
lato, ci preclude la comprensione dell’organizzazione vivente in base a leggi
meccaniche, e, dall’altro, «ci obbliga a pensarl[a]
come intenzionalmente determinant[e]» (p. 310).
I contributi di
Francesca Fantasia (pp. 311-338) e di Luca Ciancia (pp. 339-394) sono rivolti
all’esame della Dialettica della capacità di giudizio teleologica, e si
occupano, rispettivamente, dei §§ 69-74 e 74-78.
Fantasia analizza i
complessi paragrafi kantiani dedicati alla elaborazione
dell’antinomia del giudizio riflettente. L’autrice, lungo tutta la sua
esposizione, avverte il lettore che, a causa di una certa ambiguità, questi paragrafi
«hanno rappresentato e rappresentano tuttora uno dei punti più discussi
nell’interpretazione della Critica del
Giudizio» (p. 312); nel suo contributo, tuttavia, non si tratterà di affrontare
quest’ampia discussione, ma di esaminare anzitutto i termini che fondano il
problema: in che cosa consista l’antinomia del giudizio riflettente e che cosa
si intenda per preparazione alla sua risoluzione. La prima parte della sua
analisi, perciò, è diretta a un’attenta delucidazione dei paragrafi kantiani dedicati
all’identificazione della corretta formulazione
dell’antinomia del giudizio teleologico, così come alla sua scomposizione (in Tesi
e Antitesi). Fantasia evidenzia poi come nel § 71 la tensione antinomica appena
presentata da Kant non venga ancora superata; tale paragrafo è piuttosto volto
a ‘preparare’ il lettore alla soluzione dell’antinomia. Da questo punto di
vista, i §§ 72-73, dedicati alla confutazione kantiana dei sistemi filosofici
del finalismo della natura – poiché basati su principi meccanicistici e
finalistici di tipo oggettivo –, non
fanno che approfondire tale ‘preparazione’.
Nel suo ricco
contributo, Luca Cianca persegue l’intento di mettere in luce il peculiare
intreccio tra ‘valore modale’ e ‘portata epistemologica’ della teleologia
fisica della KU, quale emerge dal confronto tra la Klasse della Modalität
dell’Urteil e i §§ 74-78 della
Dialettica del giudizio teleologico. A parere dell’autore, infatti, evidenziare
le peculiari «qualità modali» (p.
342) del principio della finalità soggettiva aiuta, di rimando, a comprenderne
la capacità e dunque i limiti epistemologici. Vengono perciò investigati i
seguenti rapporti: (i) l’attribuzione della qualità modale della Notwendigkeit alla massima del § 75, che
tratta della finalità oggettiva della
natura; (ii) la ‘possibilità’ quale
categoria logica privilegiata da Kant nell’analisi della riflessività del principio finalistico della natura per la capacità
di Giudizio (§ 77); (iii) e infine la congiunzione
delle categorie di ‘possibilità’ e ‘necessità’ riferite alla teleologia fisica
come necessità semplicemente ipotetica (§ 78). Tramite l’applicazione
della tassonomia modale ai paragrafi finali della Dialettica, emerge perciò come
la teleologia fisica kantiana non possa avere alcuna portata epistemologica, ma
possa essere solo «gnoseologicamente fondata» (p. 386).
Ricardo Gutiérrez
Aguilar e Filippo Gonnelli si occuppano, rispettivamente, dei §§ 79-83 e 84-86
della Methodenlehre.
Aguilar, partendo dall’analisi
del § 79 dell’Appendice, riflette sulla ricerca di una «ciudadanía» (p. 397) per
la teleologia, evidenziando come Kant proceda a tal riguardo in maniera
fondamentalmente negativa: «la teleología
encuentra su lugar entre las ciencias teóricas por descarte»
(p. 400). Sulla scorta del § 80, poi, Aguilar rileva i ‘limiti’ dell’utilizzo della spiegazione meccanica
applicata alla teoria della natura: il suo impiego
in sede teleologica, infatti, ha mostrato di non possiede un’indiscussa valenza.
Chi diventa “Archäologen der Natur”,
dunque, «necesita de causas finales» (p. 401), l’inclusione delle
quali – come sottolinea l’autore –, non mette in discussione lo “spirito di
sistema”: «bastará con establecer, como hipótesis, conjetura, suposición»,
una ursprüngliche Organisation –
che Kant definisce ‘poieticamente’ anche Mutterschooß o Gebärmutter –, su cui poi il meccanismo è libero di
attecchire. Dopo aver evidenziato come Kant, nel § 81, faccia di questi
orizzonti – meccanismo e finalismo – due “necessità” a cui lo studioso non può
rinunciare – delle specie di «teogonías» (p. 406) delle relazioni di senso in
seno all’ordine naturale –, Aguilar procede a commentare i §§ 82-83: nel primo,
«a vueltas con Linneo» (p. 411), si occupa della dfferenza e del rapporto
stabiliti da Kant tra fine ultimo (letzter Zweck) e fine definitivo (Endzweck), nel secondo considera il fine ultimo nella sua relazione
all’uomo (come felicità), e nella sua relazione all’umanità (come Kultur).
Seguendo l’articolazione principale del testo
kantiano, Gonnelli individua nella «conception non traditionnelle» (p. 438) di Endzweck – la cui tematizzazione avviene
nel § 84 – lo strumento concettuale di cui Kant si serve per criticare la falsa
prospettiva di una teologia fondata sulla natura (§ 85), e per elaborare un’etico-teologia
in aperta opposizione alla prima (§ 86). Kant, infatti, definisce l’Endzweck un tipo di fine incondizionato, e lo identifica con
l’essere umano «en tant que sujet de la moralité» (p. 439), il quale racchiude
in sé sia l’aspetto noumenico che l’esigenza dell’incondizionatezza pratica. L’autore
riconosce come tale identificazione permetta al filosofo di introdurre la
nozione di “teleologia morale”, che consiste nella messa in relazione del mondo
con la destinazione morale finale degli esseri umani, «c’est-à-dire à la fin ultime comme unique fondement possibile de
l’existence du monde» (p. 452). Gonnelli sottolinea dunque come nel § 86 venga
presentato per la prima volta l’argomento teologico, nel significativo passaggio
da una teleologia morale a una teologia morale, che sarà oggetto del §
87.
Gli ultimi due
contributi di Roberto R. Aramayo (pp. 473-486) e
Mattia Fiorilli/Francesco Valerio Tommasi (pp. 487-520) sono dedicati ai
paragrafi finali della KU, e, rispettivamente, al § 87 e ai §§ 88-91.
Aramayo
concentra la sua analisi sul § 87, e riporta fin da subito le critiche
sollevate dalla prova morale dell’esistenza di Dio nella KU, assimilata a una «traicíon» (p. 473), da parte di Kant, del suo formalismo
etico – fondato sull’autonomia morale –, ma anche a una dubbia ‘rivalutazione’
di ciò che era stato definito indimostrabile sul piano teoretico. L’autore si
sforza di mostrare come in realtà questo discusso paragrafo «no dice nada de todo eso»
(p. 474). È infatti la mancata identità tra moralità e felicità che, secondo Kant, ci fa
cercare una causalità diversa da quella della natura, «pero
a “modo de medio”, advierte entre paréntesis» (p. 475). Aramayo sottolinea come
non venga avanzata alcuna prova oggettiva dell’esistenza di Dio, né la
possibilità di ‘rafforzare’ la portata della legge morale tramite
dall’assunzione di questa congettura; l’ateo, del resto, non è affatto
dispensato dall’obbligo morale. Al contrario, l’autore segnala come Kant
utilizzi l’argomento di Dio per dimostrare proprio l’opposto: sia che si creda
in Dio, sia che non vi si creda, non è in ciò che può risiedere l’ottemperanza
alla legge morale, la quale altrimenti rinverebbe in premi e pene il proprio
motivo determinante. Infine,
Aramayo evidenzia come Kant – quasi «a
modo de apuesta pascaliana» (p. 477), ma con intenti radicalmente diversi – concluda sulla non-contraddittorietà dell’ipotesi di Dio, in cui possono
convergere i due ingredienti del sommo bene kantiano: la moralità e la felicità.
Fiorilli e Tommasi analizzano l’altrettanto
discussa teoria kantiana del “sommo bene”, di cui rilevano fin da subito la
problematicità, sia in ragione della sua costante presenza nell’opera kantiana
(KrV, KpV, KU), sia a causa delle differenti interpretazioni che ne sono state
offerte. Gli autori si dedicano quindi all’analisi (i) del tipo di legame che
intercorre tra felicità e moralità, di cui rilevano la fondamentale ‘mondanità’;
(ii) del carattere ‘sensibile’ che la felicità assume nel somme bene, e (iii)
del tipo di esigenza che lo contraddistingue. A tal riguardo, essi ritengono
cruciale l’analisi dei §§ 88-89, dove viene posta la natura contemporaneamente
soggettiva e universale del sommo bene. Inoltre, attraverso un’attenta disamina
dell’analogia non inferenziale (§§
90-91), gli autori evidenziano il legame ancora più forte che sussiste tra il
dovere e la speranza – e dunque tra la moralità e la religione – nella KU.
Nella postfazione, infine, Nuria Sanchez
Madrid segue la traccia di una certa «línea de fuga» (p. 521) che la conduce ad
avanzare un’altra ipotesi – in parte trasversale ai contributi qui presenti –,
per la fondazione kantiana della comunità estetica, dichiaratamente debitrice della
lettura di Kant sostenuta da Gérard Lebrun. Attraverso l’intersezione di
filosofia, letteratura e psicoanalisi, il suo contributo approfondisce una
certa tensione tra il senso comune e un’“oscurità” potenzialmente già da sempre luminosa. Ne risulta
un’analisi decisamente originale della fondazione della comunità estetica, in
cui viene dato particolare rilievo alla dipendenza che la riflessione kantiana
sul gusto mantiene con l’ordine teologico.
In conclusione, soprattutto
per la ricchezza di ‘piste’ innovative che lo innervano, riteniamo che il
volume sia adatto ad un pubblico specialista interessato ad approfondire questa
complessissima opera sulla fondazione moderna del senso, e/o a confrontarsi con
il dibattito internazionale intorno a determinate tematiche che la animano.
D’altro canto, per la limpidezza delle interpretazioni e i costanti rimandi al
testo kantiano – nonché in ragione dell’intento sostanzialmente ‘esplicativo’
che contraddistingue il commento –, riteniamo che il volume sia adatto (anche)
ad un pubblico non specialista che voglia essere introdotto e accompagnato
gradualmente nel personale confronto con la KU. Entrambi i lettori, del resto,
saranno facilitati da una scrupolosa distribuzione del lavoro, che rispecchia
una ragionata divisione dei paragrafi e delle tematiche della terza Critica kantiana.
· PhD Fellow in Philosophy at Università di Roma Tre and Università di Roma
“Tor Vergata”, Roma, Italia. E-mail address chiara.magni@uniroma3.it