Il disgusto da Mendelssohn al
dibattito contemporaneo
The
Disgust from Mendelssohn to Contemporary Debates
Federico Rampinini[1]
Università di Roma
Tre / Università di Roma Tor Vergata (Italia)
Recensione di: S. Feloj,
Estetica del disgusto. Mendelssohn,
Kant e i limiti della rappresentazione. Roma: Carocci, 2017, pp. 190. ISBN:
978-88-430-8674-0
La
categoria del disgusto non ha goduto di un’attenzione diffusa né ha suscitato
dibattiti autonomi fino agli anni Novanta del XX
secolo. A partire da allora è sorto un interesse sempre maggiore per
questa categoria, non solo all’interno del campo più specificamente filosofico,
ma anche negli ambiti dell’antropologia, della psicologia e della teoria
sociale e politica. A. Kolnai (Der Ekel,
«Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 10, 1929, pp.
515-569, tr. it. di M. Tedeschini, Il
disgusto, Milano, 2017) intraprese il primo, e per lungo tempo isolato,
tentativo di definire il disgusto con una trattazione organica, ricca di
elenchi e dettagliate descrizioni fenomenologiche delle differenti occasioni
che suscitano questo sentimento. Recentemente M. Nussbaum (Hiding from Humanity: Disgust, Shame, and the Law,
Oxford-Princeton, 2004; From Disgust to
Humanity, New York, 2010) ha sostenuto, nel quadro di una riflessione
eminentemente politica, che emozioni quali il disgusto spesso rafforzano, o
addirittura fondano, pratiche discriminatorie. Casi emblematici citati
dall’autrice sono il volume di P.A. Devlin, The
Enforcement of Morals (Oxford, 1959), e l’articolo di L. Kass, The Wisdom of Repugnance (in The New Republic, 2nd June
1997, pp. 17-26). Il primo – criticando il cosiddetto Wolfenden report, secondo il quale nel Regno Unito si sarebbero
dovuti depenalizzare la prostituzione e gli atti omosessuali svolti in privato
fra adulti consenzienti – sostenne che il disgusto è un motivo sufficiente per
considerare illegale un comportamento o una pratica sociale, anche se innocuo.
Il secondo – direttore della commissione sulla ricerca delle cellule staminali
sotto la presidenza Bush – ritenne che le reazioni di disgusto mettono in luce
una saggezza istintuale in grado di orientarci in maniera affidabile in tempi
segnati da cambiamenti sociali. Al contrario, Nussbaum dimostra come il
disgusto sia uno strumento che non può avere alcun ruolo nella promozione del
bene per la società, e al quale pertanto è necessario opporsi, in quanto esso ha
solo un’azione distruttiva ed è contrario al rispetto e a un ideale umanitario
di politica.
Le
letture di Kolnai e Nussbaum hanno senza dubbio avuto il merito di aver messo in
luce alcune importanti caratteristiche di questa sensazione; tuttavia, come
correttamente rileva Feloj (pp. 150-153; 157-161), entrambe presentano come
presupposto indiscusso una visione normativa dell’estetica, che conduce ad
associare forzatamente il disgusto ad alcune situazioni particolari. Ciò
risulta evidente nella trattazione di Kolnai, che elenca una serie di casi in
cui provare questo sentimento sembra inevitabile; nondimeno questo assunto è
presente, pur in maniera meno esplicita, nei lavori di Nussbaum. La condanna
del disgusto, in quanto sentimento escludente, poiché non considera che esso
può essere suscitato da una serie molto ampia di fenomeni, rischia non solo di
risultare ingiustificata, ma anche, come già intuì Popper, contraria alla
stessa promozione della morale (come recentemente è stato sottolineato anche da
J.A. Clark e D. Fessler, The Role of
Disgust in Norms, and of Norms in Disgust Research: Why Liberals Shouldn’t be
Morally Disgusted by Moral Disgust, «Topoi», 34, 2014, pp. 483-498).
Nonostante
la fioritura degli studi sul disgusto negli ultimi trent’anni e l’importante
lavoro di W. Menninghaus (Ekel. Theorie
und Geschichte einer starken Empfindung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1999,
tradotto in italiano dalla stessa Feloj per Mimesis nel 2016), manca ancora una
trattazione eminentemente filosofica di questa tematica, che, nello stesso
tempo, recuperi e discuta anche la storia dell’estetica. Feloj, al fine di
colmare questa lacuna, mira a delineare una interessante prospettiva teorica,
suscettibile di ulteriori e più articolate riflessioni: secondo l’autrice, tale
tematica rappresenta un peculiare punto di vista a partire dal quale è
possibile sviluppare una riflessione estetica sul modello garroniano, quale
“filosofia non speciale del senso dell’esperienza”. All’interno di una
prospettiva teleologica del concetto di rappresentazione e approfondendo la
concezione settecentesca, riesposta da Menninghaus, secondo cui il disgusto è
un’esperienza dei sensi che richiede “vicinanza”, al contrario del bello che
abbisogna di “distanza”, la proposta di Feloj si articola a partire dalla
distinzione fra disgusto estetico e disgusto morale. Sebbene sia possibile
includere oggetti o momenti disgustosi all’interno di una composizione
artistica, l’arte non sarà mai in grado di suscitare disgusto, ossia un totale
dispiacere, senza perdere il proprio carattere illusorio; diversamente,
all’interno della sfera pratica, il disgusto «è persino auspicabile che trovi
una rappresentazione» (p. 146), per costituire un movente morale negativo.
L’opera
peraltro si sviluppa a partire da un’attenta e informata disamina della
trattazione del disgusto svolta da Mendelssohn (pp. 21-81) e da Kant (pp.
83-144). Il dibattito in lingua tedesca su questo tema prese avvio dalla
traduzione e dalle note alla traduzione di Johann Adolf Schlegel (1770) dell’opera
Les beaux arts reduits à un même principe di Batteux (1746). Secondo
Schlegel il disgusto delinea il confine della rappresentabilità artistica,
risultando tanto violento da impedire quell’alternanza fra piacere e dispiacere
che fonda il compiacimento per l’esibizione estetica di qualcosa di spiacevole.
Mendelssohn condivide questa posizione ma la elabora con originalità all’interno
del più ampio tentativo di contrapporsi al modello intellettualistico
baumgarteniano, senza d’altronde accostarsi alla posizione degli empiristi
inglesi. Egli cercò così di integrare nella considerazione estetica le
sensazioni corporee e gli affetti, attraverso una fondazione gnoseologica. La
bellezza non è più «l’assenza di contraddizione» (p. 43), come appariva a
Baumgarten e a Meier: ricuperando la definizione wolffiana di perfezione (Deutsche Metaphysik, 1719, § 152), Mendelssohn
definisce il bello come l’«armonico accordo del molteplice» (Scritti di estetica, tr. it. di L.
Lattanzi, Palermo, 2004, p. 71). Il piacere estetico risiede dunque
nell’attività immaginativa di dare una struttura al mondo, di conferire una
relazione universale al particolare dei sensi. Posta dunque la natura
teleologica del processo rappresentativo estetico e il ruolo
dell’immaginazione, il puramente bello e il disgustoso sono concepiti come
dialetticamente opposti, in quanto il primo può spesso risolversi nel secondo,
non offrendo sufficiente molteplicità per innescare l’attività
dell’immaginazione (ivi, pp. 115-116). Mendelssohn ridefinisce dunque la
nozione di ästhetische Vollkommenheit,
determinando il passaggio da un’estetica rivolta all’oggettività a un’estetica non-soggettivistica
del soggetto.
Questa
concezione consente a Mendelssohn, sancita l’irrappresentabilità del disgusto,
di approfondire la riflessione sulla tragedia, in particolare sull’azione
moralmente malvagia, che suscita ‘ripugnanza’, e su quella eroica, che genera ‘ammirazione’.
Feloj mette in luce come questi sentimenti possano avere una potente funzione
morale, grazie alla loro natura non concettuale. Mendelssohn, fedele alla
scuola leibniziano-wolffiana, si trova nella difficoltà di collocare il disgusto
estetico e la ripugnanza morale all’interno di una concezione onto-teleologica.
Posta la definizione di oggetto quale risultato della riconduzione del
molteplice ad unità e considerata la connessione istaurata fra questa
operazione e il bello, ogni rappresentazione, in quanto determinazione
dell’anima, suscita un sentimento di piacere. Per questo motivo, il disgusto
viene a coincidere con ciò che non si lascia rappresentare. Diversamente, la
ripugnanza morale «stimola il soggetto a esercitare la propria capacità di
disapprovazione morale attraverso una conoscenza intuitiva» (p. 81).
Questi
temi mendelssohniani certamente influenzarono la riflessione kantiana sulla
facoltà del giudizio, sul sublime e sul rapporto fra morale ed estetica. È bene
altresì ricordare come Kant, grazie alla fondazione trascendentale del giudizio
di gusto, riesca ad evitare l’identificazione del fondamento del piacere con
l’attività rappresentativa, delineando i confini fra la teoria del gusto e la
teoria della conoscenza (per una diversa lettura si veda R. Pippin, The Significance of Taste: Kant, Aesthetic
and Reflective Judgment, «Journal of the History of Philosophy», 34, 1996,
pp. 549-569).
D’altro
canto, è certamente necessario far luce su quell’importante e “silenzioso dialogo”
(come lo definì N. Hinske, Mendelssohns
Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? oder Über die Aktualität
Mendelssohns, in N. Hinske [Hrsg.], Ich
handle mit Vernunft. Moses Mendelssohn und die europäische Aufklärung,
Hamburg, 1981, pp. 85-117) che si instaurò fra i due autori, non solo
relativamente ai temi del razionalismo metafisico, della filosofia della storia
e dell’antropologia, ma anche riguardo alla teoria del gusto. Così, se il
rapporto fra l’estetica di Mendelssohn e quella di Kant è stato rivalutato da studiosi
quali J.H. Zammito (The Genesis of Kant’s
Critique of Judgment, Chicago, 1992, pp. 23-24) e P. Guyer (Kant and the Experience of Freedom. Essays
on Aesthetics and Morality, New York, p. 86), Feloj lo esplora grazie a una
lettura personale, nella direzione di quelle recenti interpretazioni sorte
sopra tutto in area angloamericana (si veda in particolare A. Nuzzo, Ideal Embodiment. Kant’s Theory of
Sensibility, Bloomington, 2004; a questa corrente esegetica si è
contrapposto A. Falduto, The Faculties of
the Human Mind and the Case of Moral Feeling in Kant’s Philosophy, Berlin,
2014) che hanno messo in luce la declinazione empirica e antropologica della
teoria kantiana del soggetto, valorizzandone l’unità di ragione e sensibilità e
opponendosi così alle critiche classiche di Reinhold, Schiller e Fichte. La
tesi di Feloj, che guida questa analisi, per la quale «il ruolo del disgusto in
Kant, soprattutto nella tradizione estetica, appare profondamente debitore alla
tradizione mendelssohniana», può dunque essere accolta, ma non la sua
conclusione, secondo cui «sembra essere una riproposizione senza variazioni» (pp.
83-84).
Come
per Mendelssohn, così per Kant il disgusto è una sensazione che annulla la
distinzione fra natura e arte, fondamento del piacere per la rappresentazione
artistica (§§ 42-54 della Critica del
Giudizio). Come ha notato P. Rumore (L’ordine
delle idee. La genesi del concetto di ‘rappresentazione’ in Kant attraverso le
sue fonti wolffiane (1747-1787), Firenze, 2007, pp. 150-151), Kant, sin dal
1756-1757, accoglie il monito di Meier (Vernunftlehre,
§170), secondo cui la rappresentazione è un concetto per cui non è possibile
pervenire a una definizione logica compiuta. Anche quando nella prima Critica, «appare un significato nuovo,
tipicamente kantiano, con cui si intende la rappresentazione in un senso
‘attivo’, alla stregua di un […] procedimento secondo una regola» (ivi, p.
288), egli non recide completamente i legami con la tradizione
baumgarteniano-meieriana. Questo lo conduce a definire il disgusto come ciò che
si trova al di là dei limiti della rappresentazione (Critica del Giudizio, § 48): poiché esso ha luogo quando «il
molteplice empirico non trova unità nella rappresentazione […] quando […] la
materia sovrasta la forma, quando l’animo si trova in una sorta di stallo e non
è in grado di attivare le proprie facoltà rappresentative» (p. 97). Tuttavia,
l’allegoria consente all’arte di rappresentare anche il brutto (Kant fa proprio
l’esempio della morte), integrandosi nel sistema trascendentale. Essa, infatti,
esercitando la sua azione nel campo del pensare, piuttosto che su quello
concettuale del conoscere, è ciò grazie a cui l’immaginazione mostra tutto il suo
potere nel creare “quasi un’altra natura”, «per diffondersi su una quantità di
rappresentazioni imparentate, le quali fanno pensare più di quanto si possa
esprimere con un concetto determinato mediante parole» (Critica del Giudizio, § 49). Secondo Feloj, a causa della sua
impostazione teleologica, l’estetica kantiana non può contemplare né la contro
finalità né il disgusto: «o la disarmonia tra le facoltà viene annullata e
l’iniziale dispiacere viene ricondotto a una forma di piacere, come è il caso
del brutto nell’arte bella, ma come è anche il caso del sublime, oppure ciò che
risulta controfinale viene del tutto escluso e non dà luogo né a un giudizio né
a una rappresentazione, come è il caso del disgusto» (p. 106).
Nell’ambito della morale, il disgusto viene affrontato a
partire da due considerazioni fondamentali. In primo luogo, l’antropologia può
esser letta come la parte empirica della non empirica etica kantiana (cfr. V-Anth/Collins, AA xv 244), in quanto fornisce gli elementi principali per
una philosophia moralis applicata (su
questa si veda pure R. Louden, ‘The
Second Part of Morals’: Kant’s Moral Anthropology and Its Relationship to His
Metaphysics of Morals, «Kant e-Prints», 1.2, 2002, pp. 1-13). Inoltre, i
passaggi dedicati all’arte nell’Antropologia
pragmatica e nelle lezioni evidenziano come in Kant, analogamente a
Mendelssohn, i valori essenziali della Aufklärung
e della Kultur interagissero nel
perseguimento della destinazione morale dell’uomo. Grazie a una lettura
attenta, Feloj mostra come il disgusto sia il sentimento che segnala
l’impedimento delle forze vitali, la rinuncia allo spirito critico e la
promozione di una monotonia che genera nausea – sensazioni che possono esser
scongiurate grazie all’importante azione educativa delle arti belle. Il
disgusto è dunque una sensazione anzitutto corporea, che si articola per lo più
in ambito empirico, e che tuttavia non rimane confinata alla dimensione
materiale. Esso può avere effetti sia sulle facoltà a priori della
rappresentazione, impedendone ogni attività, sia sull’azione morale, segnando
in modo immediato e istintuale il vizio e l’errore. Pur essendo principalmente
una sensazione fisiologica, il disgusto è un sentimento che può esser plasmato dalla
cultura e dalla civilizzazione. «Così come il disgusto estetico sta a indicare
[…] il sovrastare della materia sulla forma, [… poiché] nella morale
l’avversione è rivolta al vizio», «il disgusto […morale] può allora […] andare
a costituire un meccanismo di difesa […] contro tutto ciò che impedisce
l’elevarsi all’umanità e l’allontanamento dalla rozzezza naturale» (p. 137). Parlare di educazione estetica in Kant vuol dire
anzitutto considerare il ruolo dei sentimenti nella parte applicata della
morale, laddove per sentimenti non si intende il rispetto per la legge della
ragione, che ha natura trascendentale, quanto piuttosto i sentimenti empirici
che orientano il soggetto verso l’azione virtuosa. È in questo senso che il
disgusto, da sentimento estetico che delimita la rappresentazione, diviene
parte integrante del processo educativo dell’uomo.
Il volume, sulla base di uno schema argomentativo
originale, non si limita a ricostruire la tematica del disgusto in Mendelssohn
e in Kant; piuttosto, cerca di scorgere in controluce le complessi e articolate
relazioni che si istaurano fra i campi della gnoseologia, dell’estetica,
dell’etica e dell’antropologia, affrontando temi quali i confini della
rappresentazione, il sublime, il brutto e l’educazione morale: ne emerge una
interessante proposta teorica consegnata al dibattito contemporaneo.
[1] PhD Fellow in Philosophy at Università di
Roma Tre and Università di Roma Tor Vergata, Roma, Italia. E-mail address federico.rampininini@uniroma3.it